Prontuario del Predicatore

Tempo di Pasqua è un periodo di sette settimane, che decorrono dalla festa di Pasqua alla festa di Pentecoste. La Chiesa in questo tempo è tutta in festa ed in letizia, perché celebra la gloria del divino suo sposo Gesù Cristo risuscitato dalla morte, entrato nel possesso del celeste Suo regno. Insieme la Chiesa è intenta a far comprendere ai fedeli e ad infondere nei loro cuori i preziosi frutti della redenzione operata da Gesù Cristo; lo spirito della nuova vita tutta spirituale e celeste che essi devono condurre in questa terra dopo essere risorti col Salvatore alla grazia e privi come sono della visibile presenza di Gesù. La Chiesa annuncia il grande, trionfale mistero della Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo sin dal sabato santo, col cantico dell’Exsultet, con l’antifona Regina coeli, col Vangelo, col prefazio; quattro voci che armonizzano una voce poderosa, il grido sublime osannante a Gesù Salvatore risorto. Il Vangelo della domenica di Pasqua ci narra che «un angelo annunzia a Maria Maddalena, a Maria madre di Giacomo ed a Salome, che Gesù è risorto».

• Il Vangelo della prima domenica dopo Pasqua, che è detta in Albis, ci presenta Gesù Cristo risuscitato che annunzia a tutto il mondo, e fa gustare quei frutti preziosi dei Suoi misteri, cioè la pace, il cielo riconciliato con la terra, Dio con l’uomo e l’uomo con sé stesso; la fiducia di tutti gli uomini in Lui come Sovrano ed eterno Mediatore e Salvatore che conserva perciò e mostra nel glorioso Suo corpo le ferite dei chiodi e della lancia; la remissione dei peccati [del mondo, ndR] già da Lui espiati; la viva fede in Lui che si diffonde in tutti i popoli per renderli beati.

• Nella seconda domenica dopo Pasqua ci si manifestano altri frutti ammirabili: il buon pastore che è Gesù Cristo risorto si forma il mistico suo ovile, cioè la Chiesa e lo rende degno di Sé, salvando dalla morte, con la morte Sua, le pecorelle; manifestando l’elezione ch’Egli ha fatto di esse, riunendo le pecorelle disperse, cioè i popoli gentili, mostrando ed infondendo nelle stesse pecorelle il carattere particolare, tutto fede, tutto obbedienza, tutto amore, con cui esse devono vivere nel mistico ovile sotto il regime del sovrano Pastore.

• Nella terza domenica, mostra il mistico segreto, ossia lo spirito della vita dei veri cristiani, il quale è un frutto dei misteri di Gesù Cristo: non vedere più Gesù Cristo con gli occhi del corpo, ma tenere gli occhi della fede fissamente intenti a Lui: staccarsi dai piaceri, dai beni, dalle pompe del mondo, ed attristarsi e gemere e piangere, mentre esso si rallegra e ride; aprire il cuore solo che al gaudio spirituale che viene da Dio, ed all’eterno gaudio della celeste patria.

• Il Vangelo della quarta domenica dopo Pasqua ci mostra Gesù Cristo glorificato nel mondo con la missione dello Spirito Santo e con le operazioni stupende che lo Spirito Santo, venuto che sia, eseguirà nel mondo in generale, ed in ciascun uomo in particolare: con questa missione ed operazione si viene a conoscere la processione e la sovrana grandezza dello stesso Spirito Santo, il desiderio ardente che si deve avere della Sua venuta e la grande preparazione necessaria per ben riceverlo.

• Nella quinta domenica il Vangelo ci addita Gesù Cristo glorioso mediatore presso al Padre, che anima i Suoi discepoli a pregare in Suo nome, mostrando questa preghiera, come il gran mezzo di ogni consolazione temporale ed eterna. Nella festa dell’Ascensione c’insegna a vivere di fede, ed a innalzarci sempre più alle cose celesti insieme con Gesù Cristo, che ascende in cielo a prendere possesso della Sua gloria.

• Nella sesta domenica il Vangelo ci presenta Nostro Signore Gesù Cristo glorificato nel mondo con la testimonianza che lo Spirito Santo farà della Sua divinità e con la testimonianza che gli Apostoli e gli altri discepoli, animati dallo Spirito Santo, gli renderanno in faccia a tutto il mondo con la loro predicazione e con le loro sofferenze; ciò che, mentre da una parte c’insegna che senza lo Spirito Santo non si può conoscere bene Gesù Cristo, d’altra parte ci fa desiderare ardentemente ch’Egli venga a diffondersi nei nostri cuori.

• In corrispondenza col carattere della festa e del tempo di Pasqua sta il frutto spirituale che deve prodursi in noi, frutto che si riduce al risorgere spiritualmente con Nostro Signore Gesù Cristo. Ciò vuol dire che, siccome Gesù Cristo per mezzo della Sua risurrezione ha cominciato una vita nuova, immortale e celeste, così pure noi dobbiamo cominciare una nuova vita secondo lo spirito, rinunziando interamente e per sempre al peccato ed a tutto ciò che ci porta al peccato; amando Dio solo e tutto ciò che ci porta a Dio. Risorti con Gesù possiamo fin d’ora cantare l’Alleluia dei celesti: «Noi cantiamo quaggiù le lodi di Dio come un giorno le canteremo in cielo. Ma quaggiù le cantiamo trepidanti, in cielo le canteremo sicuri; quaggiù nell’esilio, lassù nella patria. Cantate, o fratelli, come cantano i viaggiatori, i pellegrini; cantate e camminate. Avanti sempre, progredendo nel bene. Fate progressi nella fede e nelle buone opere. Cantate e camminate» (sant’Agostino).

[Dal Prontuario del Predicatore, Houdry - Porra, Vol. IV, parte I, pag. 539 e seg., Imprimatur 1934].

Seguono alcune massime di Sant’Agostino sull’avarizia. Avaro è non solamente chi rapisce l’altrui, ma anche chi tenacemente custodisce le proprie cose. Gli avari vogliono godere il denaro, e servirsi di Dio come mezzo ad ottenerlo, poiché essi tengono la pecunia non come utile per servire Dio, ma servono a Dio per riportare da lui, maggior pecunia. La sola avarizia dei ricchi è miserabile, poiché essa rapisce sempre e mai non è paga, né teme Dio, né rispetta gli uomini.  Assai gravi cose pretende l’avarizia, fatiche, cioè, pericoli, angustie e dolorosi travagli. Perisca l’avarizia, e tosto ricca apparirà la natura. L’avarizia fu quella che fece schiavo un discepolo di Cristo. Ciascuno che ama ciò che è inferiore a sé senz’altro si degrada. Se tu ami la terra, sarai terreno. Qual merito ti torna, di essere senza sostanze, se ardi dal desiderio delle medesime? L’avaro si getta su tutto, come la morte: tutto inghiottisce, come l’inferno. Non reca nessun dolore esser privi di beni, qualora non si desiderino. Colui che possiede tutto ciò che ha, è padrone delle cose proprie, e sì fatto padrone è colui che dominato non è dalla cupidità di possedere, mentre questo tale invece di possedere è posseduto dalle ricchezze. L’avaro prima di arricchire perde sé stesso, e prima di guadagnare rimane guadagnato. L’avarizia non proviene dall’oro, ma risiede nell’uomo, il quale ama l’oro perversamente, posposta la giustizia che pur sola doveva preporre all’oro stesso. Non amerebbero punto gli uomini il denaro, se non si reputassero più stimati quanto più ne posseggono. L’avaro può assomigliarsi all’inferno, poiché l’inferno quanto più divora tanto più desidera, e non altrimenti pure l’avaro giammai si sazierà.

Tratto da «Prontuario del Predicatore», Volume I, Padre Vincenzo Houdry, Imprimatur 1932, Editore Giovanni Daverio, 1933, dalla pagina 221 a seguire.

L’avarizia noi la prendiamo per un amore disordinato delle ricchezze, per un timore esagerato di diminuirle, per quella avidità di aumentarle con mezzi ingiusti e turpi. In questo medesimo capitolo c’entra anche l’usura, che è la specie più crudele di avarizia. Ciò non vuol dire che non si possa tenere una predica a parte sull’usura. Anzi nelle pagine seguenti non mancherà la materia per svolgerla. Sotto speciale titolo, però, parleremo delle ricchezze e del buono e cattivo uso delle stesse.

• II. IN CHE CONSISTE L’AVARIZIA. L’avarizia consiste in due cose: 1°. in un forte attacco ai beni che possediamo; 2°. in un desiderio di avere e di acquistare sempre nuovi beni, nuove ricchezze.

• III. CIÒ CHE È LECITO E VIETATO A QUESTO RIGUARDO. L’amore alle cose esterne, terrene è naturale all’uomo, in quanto tali cose sono utili e necessarie al fine a cui sono ordinate. Questo amore è innocuo, finché si conserva entro le norme e le proporzioni di detto fine. Non appena giunge a varcare tali norme è peccaminoso, gravemente o leggermente, secondo il maggiore o minore eccesso, con cui il cuore si attacca.

• IV. DIO NON CONDANNA LA RICCHEZZA, MA L’AFFETTO DISORDINATO ALLA STESSA. Non è colpa il possedere le ricchezze, i beni terreni. È colpa l’amore disordinato, febbrile degli stessi. Se Gesù Cristo riprovò i ricchi, li riprovò in quanto sono a vari. È la cupidigia dei beni terreni, radice di ogni male, che il Vangelo condanna.

• V. COME IL DENARO DIVENTA NOSTRO IDOLO. Che giova al cristiano, dice San Zenone Veronese nel mirabile Trattato sull’avarizia, che giova al cristiano avere in orrore ed in abominazione l’oro e l’argento negli idoli che adorano i Gentili, s’egli adora quest’oro e questo argento nei suoi forzieri? Tutta la differenza che vi è tra gli idoli dei Gentili e le ricchezze degli avari è questa: nei templi gli idoli sono più grandi, nei forzieri sono più piccoli. Non c’inganniamo, dice San Zenone: se usiamo il nostro denaro in oggetti giusti e ragionevoli, è denaro; ma se invece lo guardiamo con cure superflue e con affetto disordinato, secondo il giudizio di Dio, è un idolo.

• VI. MALI CHE PRODUCE L’AVARIZIA. 1°. Produce tenebre nella mente, che acceca. 2°. Corrompe il cuore, che indurisce. 3°. Fa dimenticare Dio, l’anima, i beni eterni, i proprii doveri. 4°. Provoca preoccupazioni, trepidazioni, timori, imbarazzi. 5°. Impone un duro ed insopportabile giogo. 6°. Di solito precipita gli avari in fine nella disperazione e nella impenitenza.

• VII. L’USURA E L’USURAIO. Non c’è niente di più infame e di più crudele dell’usura che vige fra gli uomini avari. L’usuraio specula sull’altrui miseria, lucra sulle altrui rovine. Si arricchisce dell’altrui povertà. Esige poi interessi, come dovuti alla sua carità. Privo di ogni misericordia, vuole passare per misericordioso. Finge di ben meritare, di soccorrere il povero, mentre ancor più l’opprime e lo riduce all’estrema miseria. Gli stende una mano per aiutarlo, ma con l’altra lo strozza e lo spinge nell’estrema rovina. Sembra di soccorrere chi sta per perire, ma invece di trarlo a salvamento, di condurlo in porto, gli salta sopra perché s’anneghi, naufraghi.

• VIII. ASTUZIA DELL’USURAIO. Quando l’usuraio dà il suo denaro a prestito parla di contratti regolari, di ipoteche di beni, di restituzioni di denaro a certe date, dell’interesse, oltre il capitale, di vantaggi che avrebbe ritratti se l’avesse collocato altrove. Tutto poi va a finire in una stipulazione espressa, o nella speranza di un grosso guadagno, o al pignoramento dei beni, immobili e mobili, al porre all’incanto i beni dei debitori.

• Disegno sviluppato di discorso sull’«Avarizia - Interesse». San Luca riferisce la seguente parabola: «Un uomo ricco ebbe un abbondante raccolto nelle tue tenute. Nell’ebbrezza dei nuovi, grandi guadagni andava pensando entro di sé: “Che farò ora che devo raccogliere le biade? Dove le porrò? Farò così: demolirò i granai attuali, ne fabbricherò di più grandi, ed in essi radunerò tutti i miei prodotti ed i miei beni. E poi dirò all’anima mia: O anima, tu hai messo da parte dei beni per moltissimi anni: riposati, mangia, bevi, datti bel tempo”. Ma Dio gli gridò: “Stolto, in questa notte morrai; quel che hai messo da parte, di chi sarà?”». C’è qui, o fedeli, una specie di fotografia, la fotografia dell’avarizia. Ai nostri giorni questo vizio capitale è molto diffuso; moltissimi oggi non pensano altro che a far denaro, ad accumulare ricchezze e tesori, senza badare tante volte alla giustizia. Per tenerlo lungi da noi questo vizio ne studieremo la natura, le specie, i segni dell’avarizia, gli effetti ed i mezzi per domarla.

• I. Natura. Si definisce questo secondo vizio capitale: «Un amore disordinato delle ricchezze» sia che queste ricchezze e questa roba già si abbia, si possegga e vi si attacchi soverchiamente il cuore; sia che non si abbiano, né si posseggano ancora, e si desideri smoderatamente di averle e di possederle. È avaro adunque chi non contento d’avere e di possedere ricchezze, le possiede con amore soverchio, con troppa affezione; oppure chi, non avendole, smoderatamente desidera di averle e di possederle. Qualche esempio chiarirà. Giobbe era ricchissimo, non era avaro perché teneva il cuore staccato. E divenuto povero disse: «Dominus dedit, Dominus abstulit... sit nomen nomini benedictum» (lob. 1. 21). Era avaro il ricco invece della parabola raccontata appena. Costui si deliziava nelle sue ricchezze, le amava disordinatamente e disordinatamente se ne compiaceva. E così era avarizia quella di Giuda Iscariota, che per un desiderio sregolato di arricchirsi cominciò dall’appropriarsi una qualche parte del denaro della borsa comune degli Apostoli che egli custodiva in qualità di tesoriere, e per trenta monete tradì poi Gesù. Possono essere avari i ricchi... ed anche i poveri.

• II. Specie di avarizia. a) la prima specie si dice tenacità, strettezza, grettezza ed è propria di coloro che hanno il cuore talmente attaccato alla roba, da potersi dire che quasi la adorano, difficilmente si inducono a privarsene, e non si dispongono a fare le spese necessarie per loro stessi, per la casa, per la famiglia o le fanno per forza. b) La seconda specie chiamasi cupidigia ed è propria di coloro che con soverchia avidità cercano di fare roba, di accumulare ricchezze; lavorano giorno e notte, non riposano, non dormono, si affaccendano; fatto un guadagno pensano ad un altro, e poi un altro, di modo che quasi tutti i loro pensieri, tutte le loro mire ad altro non sono rivolte, fuorché a fare roba. Questa cupidigia è piena di pericoli e sommamente dannosa, poiché, al dire dell’Apostolo, «quelli che vogliono arricchire, inceppano nella tentazione e nel laccio del diavolo, e in molti inutili e nocivi desideri, i quali sommergono gli uomini nella morte e nella perdizione» (Ia. a Timot. 6. 9). È anche quindi una stoltezza. c) La terza specie prende il nome di ingiustizia ed è propria di coloro, nei quali la voglia di far denaro è così profondamente radicata, che per riuscire nel loro intento, non contenti di servirsi di mezzi leciti ed onesti, si appigliano anche agli ingiusti e fanno, come si dice, d’ogni erba fascio, ingannano, defraudano, rubano, insomma si valgono di qualunque mezzo anche il più iniquo purché riescano a far denaro.

• III. I segni dell’avarizia sono: 1°. Il concepire ed il conservare nell’intimo dell’anima un’alta stima delle ricchezze, come se le ricchezze fossero superiori delle virtù e delle altre nobili qualità umane. 2°. Il fomentare il desiderio continuo di acquistarle, da cui derivano le cure, le inquietudini, le preoccupazioni degli avari. 3°. Il richiamare senza posa ad esame tutto, lo studiare sempre nuovi modi per arricchire. 4°. Il rifiutare od il differire di pagare i propri debiti o la mercede agli operai. 5°. Il mostrarsi duro e crudele verso i poveri, od immaginarsi di non essere obbligato a soccorrerli. 6°. L’essere crudele verso sé stessi, negandosi il vitto e gli altri agi e comodi della vita.

• IV. Gli effetti.  Dice San Paolo: «Radix omnium malorum est cupiditas»... ossia l’avarizia è la radice di lutti i mali.... è la madre di sette disordini che si dicono le sette figlie dell’avarizia: 1°. la durezza di cuore verso i poveri; 2°. l’inquietudine, ossia l’andar troppo solleciti per accumular ricchezze; 3°. la violenza, cioè la forzata usurpazione della roba altrui; 4°. la perfidia, ossia il mancare di parola a ciò che si è promesso o giustamente stabilito; 5°. il tradimento, cioè il manifestare contro la fedeltà dovuta ad alcuno e con danno di esso, una cosa od una persona che si deve tenere occulta; 6°. la frode, che consiste nell’ingannare il prossimo coi fatti e colle opere; 7°. l’inganno del prossimo con la parola.

• V . I rimedi contro l’avarizia sono quattro: 1°. La preghiera fervida e costante, perché Iddio ci liberi da tal vizio... o se l’abbiamo, perché ci aiuti a conoscerlo e a liberarci. 2°. Meditare la grandezza e durata eterna dei beni celesti in confronto della vanità e caducità dei beni terreni: «Quid prodest?...». 3°. Considerare i danni immensi che dall’avarizia derivano all’anima nostra, e talvolta anche al nostro corpo. 4°. Esercitarsi nella liberalità, nell’opera eccellente della elemosina, ed in tutte le altre opere di misericordia corporale verso il prossimo. Lo Scavini esprime i quattro rimedi in questo verso: «Oro, res pendo, damnumque; superflua dono». Detestiamo, o dilettissimi, e schiviamo questo pessimo vizio dell’avarizia... e procuriamo di allontanarlo da noi, se mai avesse poste radici nel nostro cuore. • Esempio: Giuda, per l’avarizia, consumò un esecrando delitto. Per il denaro arrivò a speculare sulla persona stessa di N. S. Gesù C., suo Maestro divino. Lo tradì, lo vendette per vile denaro. E poi, straziato dal rimorso, si appese ad un albero (S. Matt. 26).

Tratto da «Prontuario del Predicatore», Volume I, Padre Vincenzo Houdry, Imprimatur 1932, Editore Giovanni Daverio, 1933, dalla pagina 221 a seguire.

Sul Vangelo odierno dell’Epifania vi presento soltanto due punti, o fedeli, o due lezioni utili alle anime vostre; l’una che riguarda la corrispondenza alle grazie del Signore; l’altra che riguarda l’indifferenza religiosa.

• Sulla corrispondenza alle grazie del Signore. «Vidimus stellam eius et venimus adorare eum». Nella testa dell’Epifania noi ricordiamo la cognizione del vero Dio che, racchiusa nella sola Giudea, valica finalmente i confini della Palestina e si estende a tutte le nazioni. Le tenebre del Paganesimo oggi vengono dissipate, ed il lume della fede si diffonde attraverso ai tre Magi nei più lontani paesi. Perché i tre Magi, reduci in patria insegnarono la fede e conquistarono anime a Cristo e morirono martiri. Questo avvenne perché i Magi corrisposero alla grazia segnalatissima di venire chiamati così miracolosamente alla culla di Gesù. Anche a noi Iddio dispensa delle grazie. Grazie ordinarie e tante volte grazie straordinarie. Noi dobbiamo corrispondere sempre, generosamente alle grazie del Signore. Contro coloro che non si curano delle grazie di Dio, Gesù Cristo pronunciò una terribile sentenza: «A chi fu dato molto, si domanderà molto; a chi si è dato più largo prestito, più larga usura sarà richiesta» (San Luca, XII, 48). Ricordate la parabola del servo infingardo e quelle parole severe: «Rendimi conto della tua gestione» (San Luca, XVI) redde rationem villicationis tuæ, le quali ci insegnano che se nulla mette tanto conto quanto il profittare delle grazie, niente per altra parte tanto nuoce quanto l’abusarne. Bisogna profittare delle grazie perché nessuno si salva se non per mezzo delle grazie, ma la grazia non salva se non in quanto le si corrisponde e se ne trae profitto. Perciò San Paolo scriveva a Timoteo: «Bada di non trascurare la grazia che è in te e questo avvertimento non ti cada mai dalla memoria, ma metti in esso tutto l’animo ed ogni tua cura, affinché il tuo profitto sia manifesto a tutti» (I a Timot., IV, 14-15). San Pietro chiudeva la sua seconda epistola scrivendo: «Crescete nella grazia e nella cognizione di N. Signore Gesù Cristo» (II Petr., III, 18). Infatti chi non profitta, scapita, diceva San Leone (Serm. de pop.) e chi non acquista niente perde qualche cosa. Non imitiamo, o fedeli, la cieca Gerusalemme nel fare poco conto delle grazie, perché non avvenga che Gesù Cristo abbia anche da piangere sulla nostra perdita e rivolgerci quelle parole, rimprovero e sentenza ad un tempo: «Ah! se tu conoscessi almeno in questo giorno che ancora ti è concesso, quello che formerebbe la tua pace, ma ora tutto è celato agli occhi tuoi» (S. Luca, XIX, 41-42).

• Sull’indifferenza religiosa. Il Vangelo odierno ci presenta Gesù, nella sua reggia, la grotta di Betlem; nel suo trono, la culla. Di fronte stanno tre sorta di personaggi: 1.° Erode, i suoi consiglieri, i satelliti e cortigiani che l’odiano e tramano nell’ombra e manderanno sicari per trucidarlo; ecco i nemici. 2.° I Magi, venuti da lontane contrade, si prostrano ai suoi piedi, l’adorano e gli offrono doni e regali; sono gli amici. 3.° Gli scribi, i farisei, i sacerdoti, i capi del popolo, interrogati da Erode: «Dove ha da nascere il Messia? - colla Scrittura alla mano, senza esitare, rispondono - a Betlemme, lo disse il profeta». E a Betlemme inviano i Magi stranieri, che ignorano la sacra Scrittura, ed essi, maestri in Israele, custodi delle tradizioni e dei Libri santi, non si muovono, non li accompagnano, non se ne curano nemmeno, come se fosse cosa che poco li interessava; ecco gli indifferenti. Anche ai nostri giorni il quadro si ripete; ci sono i nemici di Cristo; e grazie al cielo, ci sono anche gli amici. Ma c’è anche la terza classe, quella degli indifferenti, c’è anche oggi la piaga dell’indifferenza religiosa. Per non cadere nei lacci dell’indifferenza, vediamo 1.° chi è l’indifferente e qual sia la sua cecità e la sua colpa.

• Chi è l’indifferente? Indifferente in materia di religione è colui che non si occupa di nessuna religione; siano vere o false, a lui non importa; non se ne cura affatto se ve ne sia, se ve ne sia una di vera. Non si cura di Dio, del culto religioso. Non si cura di ciò che bisogna credere, di ciò che bisogna praticare; non si cura dell’anima, del suo fine, dei suoi destini, dei novissimi. Non si cura se esista una rivelazione, se Iddio abbia parlato, se si sia incarnato. La sua religione sta nel non professarne alcuna; nel non curarsi di Dio.

[La più subdola forma di indifferenza religiosa, oggi, prende il nome di ecumenismo. Ammettendo la legittimità e l’utilità soprannaturale di ogni dottrina “di fede” (o filosofia “di vita”) e di ogni sorta di culto e di sentimento religioso, l’ecumenista non distingue il vero dal falso, precipitando seco nell’inganno il gregge che pretende di condurre. Egli (s)ragiona alla maniera degli indifferenti, si priva della grazia, finisce annichilendo anche quel barlume di ragione che gli rimaneva. La Chiesa condanna con gravissimi anatemi le seguenti proposizioni che, come notiamo, sono i capisaldi o fondamenti dell’ecumenismo: 1.° «È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera» (Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851; Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862); 2.° «Gli uomini nell’esercizio di qualsivoglia religione possono trovare la via della eterna salvezza, e conseguire l’eterna salvezza» (Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846; Alloc. Ubi primum, 17 dicembre 1847; Encicl. Singulari quidem, 17 marzo 1856); 3.° «Almeno si deve bene sperare della eterna salvezza di tutti coloro che non sono nella vera Chiesa di Cristo» (Alloc. Singulari quadam, 9 dicembre 1854; Encicl. Quanto conficiamur, 17 agosto 1863); 4.° «Il protestantesimo non è altro che una forma diversa della medesima vera religione cristiana, nella quale egualmente che nella Chiesa cattolica si può piacere a Dio» (Encicl. Noscitis et Nobiscum, 8 dicembre 1849). Successivamente la Chiesa anatematizza, ancor più dettagliatamente e solennemente, l’ecumenismo mediante la Mortalium Animos (6 gennaio 1928) di Papa Pio XI, la Orientalis Ecclesiæ (9 aprile 1944) di Papa Pio XII ed in altri luoghi (qui numerose condanne). All’atto pratico ecumenismo è indifferentismo; all’analisi sincera e rigorosa risulta un maldestro tentativo di occultare la menzogna e di esportare la diabolica professione d’indifferenza (in ultima istanza l’ateismo) in ogni luogo del pianeta (più o meno un neo-latitudinarismo), usando allo scopo funesto la più illustre delle Istituzioni: la Chiesa, «occupata nelle viscere», ndR].

• Cecità e colpa dell’indifferente. « Dio, scrive Bossuet (Discorso fun. di Anna di Gonzaga) stabilì in mezzo a noi un’opera tale che riempie tutti i tempi e tutti i luoghi e porta per tutta la terra, insieme con l’impronta della sua mano, il carattere della sua autorità e quest’opera è Gesù Cristo e la sua Chiesa. A quest’opera gli indifferenti mostrano noncuranza e disprezzo. Ma qual è la cosa veduta da questi vari ingegni non veduta dagli altri? Che ignoranza è mai la loro! Questi ignoranti presuntuosi non videro nulla, non comprendono nulla e non hanno nemmeno dove stabilire il nulla al quale aspirano dopo questa vita. Oh, Dio che stato!. E più oltre. Che colpevole accecamento, che irreparabile disgrazia è mai quella di passare la vita intera in dannosa noncuranza e indifferenza intorno all’avvenire dell’anima propria, il dimenticare i propri doveri di uomini e di cristiani; il vivere e il morire in questa cieca indifferenza! Come riuscirà terribile svegliarsi da questo stato nell’eternità: «O voi che dormite, scuotetevi, dice il grande Apostolo, e levatevi su di mezzo ai morti e Cristo vi illuminerà » (Efes., V, 14). Fine.

Tratto dal Prontuario del Predicatore, pagg. 187-189, Houdry-Porra, Volume IV, Parte 1, Milano, 1934, con Imprimatur.

Comprendo benissimo, o fedeli, che parlare di regalità innanzi ad un Crocefisso è cosa che sconcerta l’umana ragione. Un Crocifisso Re. Sono due cose che si escludono, che si contrastano. È troppo lontano dalla maestà di un Re un uomo coronato di spine, appeso a tre chiodi, fatto bersaglio di vituperi e di bestemmie. È troppo lontano dalla regalità un povero giustiziato, il cui corpo ignudo e straziato lascia fluire il sangue da tutte le vene aperte. È troppo lontano dalla grandezza sovrana questo abbandonato che esce in lamenti e gemiti dolorosi, questo agonizzante che piega la testa addolorata ora da una parte, ora dall’altra e aspetta rassegnato lo strale della morte vicina. È troppo lontano dall’aureola regale questo morente che non conserva quasi neppure le umane sembianze. Lo si dovrebbe dire un povero sventurato, un povero disilluso. Ma nel caso le apparenze ingannano. Gesù sulla croce è Re. E tutte le creature si prostreranno a riconoscere Re Gesù Crocifisso. Ecco l’argomento di questo sermone. Gesù Cristo è Re. Figlio naturale di Dio egli possedeva questo titolo sovrano da tutta l’eternità. Perciò l’Eterno Padre gli dice nei salmi: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in tuo dominio gli ultimi confini del mondo. Pianterai sulle cime dei monti e nelle isole più lontane i tuoi padiglioni; il tuo regno è il regno di tutti i secoli e il tuo principato per tutte quante le età. La tua dominazione si estenderà da un mare fino all’altro mare, e dal fiume fino all’estremità della terra. Il tuo regno non avrà mai fine. (Dai Salmi 2, 144, 71 ecc.). Ora questo titolo sovrano quando fu mai che Gesù lo proclamò? Forse allorquando il popolo ebreo, trasportato da un’onda di entusiasmo, corse in folla per farlo re d’Israele? Forse allorquando le turbe estasiate l’accolsero in Gerusalemme gridando: Osanna; benedetto il Re che viene nel nome del Signore? No, o fedeli; questo non fu il momento opportuno. Se si fosse trattato di proclamare una dignità che viene da questo mondo, se si fosse trattato di assicurare il trono ad un Re che ha da governare con i criteri dell’umana prudenza, allora la politica avrebbe suggerito di cogliere le disposizioni del popolo e di profittarne. Ma il regno di Gesù non viene da questo mondo e non si regge con criteri umani. Perciò anche la sua proclamazione deve essere del tutto singolare. Caduto in potere dei suoi nemici che lo tengono stretto in catene; circondato dal furore del popolo che ad alte grida ne chiede la morte; trascinato come un vile malfattore innanzi al Preside romano, è allora soltanto che Gesù con accento sincero proclamava la sua regale dignità e parla del suo regno senza timore di essere smentito. - Sei dunque Re? gli domanda Pilato. E Gesù risponde: Tu l’hai detto; sì, io sono Re: Tu dicis quia rex sum ego. Il mio regno non è di questo mondo. È un regno eterno che nessuna violenza mi può rapire. Invano i sacerdoti del Sinedrio gridano all’usurpazione; invano i carnefici tempestano quelle carni immacolate come fossero le carni di uno schiavo; invano i soldati coprono di vergogna quella fronte adorabile come fosse la fronte di un pazzo! La dichiarazione è fatta; nessuno può smentirla. Pilato, senza saperlo, seduto sul suo tribunale, in nome della potenza cosmopolita di quel tempo, presentando alle turbe frementi giudaiche l’adorabile Redentore, dice quasi profetando: Ecce Rex vester; ecco il vostro Re. Gridate pure il crucifige, o rappresentanti della Sinagoga; strappate pure da questo debole presidente il decreto di condanna e di morte, mettete pure Gesù in mezzo a due ladri, perché il mondo lo creda il peggiore tra essi; voi non riuscirete a smentire la parola uscita dalle sue labbra: Io sono Re. «Tu dicis quia Rex sum ego». Tutto infatti lo dimostra nella più splendida maniera. Gesù porta la croce sulle spalle; ma è l’insegna del suo principato, è il suo trono. Gesù porta sulla testa un fascio di spine, ma è la corona che indicherà qui sulla terra la sua sovrana dignità. Gesù sale su di un colle quasi a misurare collo sguardo l’estensione del suo dominio. Solleva innanzi ai popoli della terra la Croce, che diviene il soglio dove siede e regna: «sedebit et dominabitur super solio suo». Però Gesù Crocifisso è Re di misericordia. Rivolto al ladrone che piange alla sua destra gli promette il perdono ed il paradiso: hodie mecum eris in paradiso. Gesù sulla croce è Re di bontà. Vedendo Giovanni mesto e dolente lo consola col dono inestimabile della Madre: Ecce Mater tua. Gesù sulla croce è Re di perdono, poiché udendo le bestemmie che scaglia il popolo, sobillato dai Farisei, solleva lo sguardo al cielo e, scusando la loro cecità, invoca perdono per loro. Pater, dimitte illis! Gesù sulla croce è il Re dei secoli, poiché abbracciando con la mente il passato, il presente, il futuro, vede che il disegno della Redenzione si compie ed esclama: Tutto è compiuto. Gesù sulla croce è il Re della natura, poiché alla sua morte succede in tutto il creato una costernazione dolorosa. Il cielo si oscura, il sole si eclissa, i monti si spezzano, le rocce s’infrangono, il velo del tempio si divide da cima a fondo, le lampade del tempio si estinguono, i sepolcri spalancati mandano le ombre dei morti a sgomentare il popolo deicida. Gesù sulla croce è Re universale. La stessa croce con la sua provvidenziale struttura prende possesso dell’universo. Immergendosi in terra essa dice alla terra, tu sei mia. Innalzandosi al cielo, essa dice al cielo, tu sei mio. Protendendo le braccia nello spazio essa dice allo spazio, tu sei mio. Campata in aria, sulla cima del Calvario essa invita il genere umano a prostrarsi innanzi alla vittima sacrosanta, mentre un cartello proclama Gesù Re. Ed il genere umano verrà ben presto a piegare la fronte superba innanzi a questo povero giustiziato, ripetendo col Centurione: «Vere filius Dei erat iste!». Verranno i Cesari e dopo secoli di lotte sanguinose dovranno riconoscere la suprema potenza del Crocifisso. «Galileo hai vinto». Verranno i filosofi, e dopo avere beffata la semplicità del Vangelo, saranno costretti a confessare che nel mistero della croce risiede la soluzione dei più grandi misteri. Verranno i barbari e nella loro marcia distruggitrice si arresteranno fulminati dalla luce del Crocefisso. Verranno poi le genti cristiane fedeli a cantare. Vexilla regis prodeunt. Ecco lo stendardo del Re. Gesù da quel legno, che doveva disonorarlo, stende lo scettro della sua potenza e con verga di ferro spezza il trono dei suoi nemici. Piegate spesso, o cristiani, le vostre ginocchia innanzi alla regale maestà del Crocefisso; confessate di essere suoi sudditi redenti col prezzo del suo sangue. Benedite ai trionfi del Re Crocefisso. Con la voce poderosa che vince i secoli dell’Obelisco egiziano che troneggia nel centro di Piazza San Pietro, cantate «Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera!». Christus vincit ...

[Tratto dal «Prontuario del Predicatore», Houdry - Porra, Volume VI, Discorsi di circostanza, Imprimatur 1936, pag. 95 segg.].

Breve omelia. «Surrexit, non est hic» (san Marco, XVI). Dopo i giorni del lutto ecco il giorno del gaudio e dell’allegrezza. Oggi, nella Chiesa risuonano parole di giubilo, echeggiano cantici di trionfo, i quali indicano l’eccesso della sua gioia dopo le lacrime e dopo il dolore. «Haec dies quam fecit Dominus» (Salm., 117). Gli uomini chiamano col nome «di loro giornata» quelle giornate in cui ebbero delle vittorie, o compirono belle azioni e gesta gloriose. Con maggiore ragione questo gran giorno, possiamo proclamarlo il giorno del divin Salvatore. Se nei passati giorni abbiamo visto l’Uomo-Dio vinto dagli sforzi dei Suoi nemici, oggi lo ammireremo, ce lo rappresenteremo come un vittorioso che trionfa: 1.° Della morte, sotto la quale aveva dovuto soccombere, e che ci dà sicurezza certa di risorgere un dì al pari di Lui. 2.° Dell’infedeltà, in cui i Suoi Apostoli e tutti gli uomini sarebbero eternamente rimasti senza la Sua risurrezione. 3.° Del demonio, allora incontrastato padrone del mondo. 4.° Del peccato, che fu la causa della morte di Gesù, benché fosse innocente, come fu la causa della morte di tutti gli uomini. Niente è più valido per arrestare i nostri disordini, o fedeli, che il pensiero della risurrezione di Gesù e della nostra. Sono queste le quattro vittorie più segnalate che riporta in questo gran giorno Nostro Signore Gesù Cristo. Sono questi i motivi che giustificano anche ora la grande allegrezza della Chiesa. Ora nella risurrezione di Gesù noi vediamo insieme un miracolo ed un esempio: un miracolo per la nostra fede, un esempio per la nostra vita. E l’esempio che ci dà Gesù vittorioso della morte, dell’infedeltà, del peccato è di imitarLo anche noi nel riportare la nostra più grande vittoria. Quale è questa grande vittoria? Lo Spirito Santo c’insegnerà «che l’uomo paziente è da preferire al forte; e che chi domina il proprio cuore, vale assai più di chi espugna le città» (Prov., XVI, 32). Chi è veramente potente? Chi riporta belle ed utili vittorie? Colui che resiste al demonio, che vince il mondo, che doma le passioni, che soggioga se stesso. Questa è la risposta che ci dà oggi Gesù Cristo col Suo esempio, e che risuona dalla Sua infallibile parola. (...) I santi Padri s’accordano: «Camminiamo sulle orme di Gesù Cristo, dice sant’Agostino, e se noi sappiamo vincere le nostre passioni ed i nostri vizi, se le costringiamo a stare a noi soggette, ce ne facciamo scala per salire in alto» (Sermone de Ascens.). E san Bernardo: «Una specie di martirio molto meritorio è mortificare e vincere, con lo spirito, le opere della carne; il martirio del ferro e del fuoco pare più terribile, ma quello è più doloroso per la sua durata» (Serm. 4.° de Ascens.). Animo, dunque, o atleti di Gesù Cristo; combattiamo da valorosi il buon combattimento; lotta al male, al peccato, morte dell’anima; lotta al demonio; lotta al mondo. Per la fede, per la immortalità, per la Vita eterna!

[Dal Prontuario del Predicatore, Houdry - Porra, Vol. IV, parte I, pag. 552 e seg., Imprimatur 1934].

All’alba della domenica, un terremoto scosse la tomba di Gesù, e Gesù ne uscì glorioso, trasfigurato, col corpo glorificato, col volto risplendente come il sole e le vesti candide come la neve così come gli Apostoli l’avevano veduto nella Trasfigurazione del Tabor. Un’unica differenza apparve però sul Cristo gloriosamente risorto: conservava le cicatrici delle ferite del costato, delle mani, e dei suoi piedi. E ciò avvenne per fini nobili ed alti. Ecco i principali: 1.° Per la gloria dello stesso Gesù Cristo, «affinché portasse in eterno il trionfo della sua vittoria» (san Beda, super Luc. 97). «Forse si vedranno nel regno celeste sui corpi dei martiri le cicatrici delle ferite riportate per il nome di Cristo: non sarà per essi una deformità ma un pregio, e una bellezza risplenderà non di corpo, sebbene nel corpo, ma di virtù» (sant’Agostino, De civit. Dei, 22, 20). 2.° Per confermare i discepoli e gli Apostoli nella fede della Sua risurrezione; disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito, ed osserva le mie mani, e accosta la tua mano, e mettila nel mio costato, e non essere incredulo, ma fedele». (san Giovanni, XX, 27). 3.° Per dimostrare sempre al Padre, supplicandolo per noi, qual genere di morte abbia sofferto per gli uomini. 4.° Per insinuare ai redenti della Sua morte con quanta misericordia siano stati soccorsi, mettendo loro innanzi i segni della medesima morte. 5.° Infine per denunziare nel giudizio universale quanto giustamente saranno colpiti i dannati: «Sapeva ben Gesù perché conservasse le cicatrici nel Suo corpo. Come dimostrò a Tommaso, non credente se non a patto di toccare e di vedere, così sarà pure per dimostrare ai Suoi nemici le Sue ferite, affinché la verità luminosa dica loro: Ecco l’uomo che voi avete crocifisso; voi vedete le ferite che gli avete recato, voi riconoscete il fianco che avete trafitto: fianco da voi e per voi aperto, e voi non voleste entrarvi» (sant’Agostino, De Symbolo, II, 8). 6.° Aggiungerei, anche per insegnare ai Suoi seguaci che la croce è la chiave del Paradiso, il carro trionfale che mena alla gloria, la scala del cielo. • Esempio. Lo storico romano, Svetonio, racconta che un vecchio soldato supplicò un giorno Cesare ad assisterlo in giudizio, all’occasione d’un processo ch’egli doveva sostenere. Ma Cesare si ricusò, egli offerse alcuno del suo seguito per accompagnarlo. Il vecchio soldato, scoprendo allora il petto: «Quando, o gran Cesare, gli disse, ti vidi andare incontro a grandi pericoli in una battaglia, io non posi un altro al mio luogo per difenderti, ma combattei io stesso per la tua persona. Ecco le cicatrici delle ferite che ricevetti nel proteggete la tua esistenza». A queste parole Cesare arrossì e andò in persona ad assistere il soldato in giudizio. Anche Gesù ci mostra le ferite che ricevette per noi, e ci grida: «E che ! Voi non volete far nulla per me, nonostante che vediate dalle mie piaghe ciò che io feci per voi?» (Lohn., Bibl., I, 605).

[Dal Prontuario del Predicatore, Houdry - Porra, Vol. IV, parte I, pag. 545e seg., Imprimatur 1934].

Non fu senza disposizione della divina Provvidenza che Nostro Signore Gesù Cristo è risorto nel terzo giorno. In primo luogo ciò è avvenuto per il compimento delle profezie: Osea aveva profetizzato la risurrezione del Messia nel terzo giorno dalla Sua morte. «In die tertia suscitabit, et vivemus in conspectu eius semper» (VI, 3). Poi, a conferma della parola stessa di Osea, Gesù Cristo medesimo unì la Sua voce a quella dei Suoi Profeti e nel tempo della Sua vita mortale apertamente, in varie circostanze predisse la Sua risurrezione, dopo tre giorni, dal sepolcro. «Come Giona fu tre giorni e tre notti nel ventre del cetaceo, disse un giorno, agli Scribi ed ai Farisei; così il Figliolo dell’uomo starà tre giorni e tre notti nel seno della terra» (Matt. XI, 40). Annunziando poi agli Apostoli e discepoli Nostro Signore Gesù Cristo le vicende della Sua passione e della Sua morte, e il molto che avrebbe sofferto, terminò dicendo con l’aggiungere che il terzo giorno sarebbe risorto (Matt. XVI, 21). Ed una terza volta aggiungeva: «Il Figliolo dell’uomo deve essere consegnato nelle mani degli uomini, i quali lo uccideranno, ed egli risorgerà il terzo giorno». Infine, presso il tempio di Gerusalemme, circostanza che creò l’equivoco fra gli Apostoli, Nostro Signore Gesù Cristo aveva detto: «Distruggete questo tempio ed io lo riedificherò». Gesù Cristo parlava del tempio del suo corpo (san Giovanni, II, 19-21). In secondo luogo, Nostro Signore Gesù Cristo risuscitò dopo la Sua morte per confermarci nella fede verso la Sua divinità e verso la Sua umanità. Verso la Sua divinità: era necessario che Gesù risorgesse presto e che la Sua risurrezione non tardasse come la nostra sino alla fine del mondo. Se avesse prolungato la Sua assenza oltre i tre giorni, i dubbi che già erano sorti nel cuore dei discepoli si sarebbero maggiormente approfonditi e diffusi. Verso la sua umanità: Fu provvido che fra la morte di Gesù e la Sua risurrezione ci fosse un certo intervallo di tempo: se fosse risorto subito dopo morte, avrebbe potuto apparire come non vera la Sua morte e, per conseguenza, come non vera la Sua risurrezione. E a dimostrare che vera fosse la Sua morte bastava che fino al terzo giorno si differisse la risurrezione, perché è impossibile che in caso di morte apparente non compaia in tre giorni qualche indizio di vita. In terzo luogo, la risurrezione nel terzo giorno avveniva per insegnarci che la croce e la morte dei fedeli non sono di lunga durata, in paragone della felicità eterna del cielo. Breve il patire, eterno il godere. In quarto luogo, porrei una relazione, coi trenta anni di vita privata, coi tre anni di vita pubblica; colle tre ore di agonia, ed i tre giorni del sepolcro. Era forse un omaggio alla Santissima Trinità, non estranea all’opera della Redenzione. Glorifichiamo, assieme a Gesù, vincitore della morte, il Padre e lo Spirito Santo. (Op. cit.).

Il fatto della risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo è tanto reale, è tanto certo, è tanto storico, che non sarebbe lecito dubitarne. Dio lo ha circondato di tante guarentigie, che per non ammetterlo, bisogna ostinatamente chiudere gli occhi alla luce. «Ecco la grande novella, dice san Paolo, ecco, dico, il Vangelo che vi ho predicato, che voi avete ricevuto, nel quale voi vi mantenete, per il quale sarete salvati. Gli è che il Cristo è morto per i nostri peccati, fu sepolto; e che il terzo giorno è risuscitato; che Egli si è mostrato a Pietro, e poi agli undici Apostoli; e poi a più di cinquecento fratelli, di cui un grande numero vivono ancora; e che infine, dopo tutti gli altri, si è mostrato a me». Ecco san Paolo, personaggio assolutamente storico; ecco uno scritto, un’epistola, atto pubblico, la cui autenticità non fu mai contestata, documento solenne e storico: «Vana sarebbe la nostra fede, se Gesù non fosse risorto». Negli Atti degli Apostoli poi, - dei quali l’autenticità è ugualmente incontestata - la risurrezione di Gesù è, più volte, richiamata, confermata. Ci sono poi i Vangeli, libri storici, che recano la più solida, la più dettagliata testimonianza al fatto della risurrezione di Gesù. San Giovanni, per citarne uno dei quattro, narra la crocifissione e la morte di Gesù sulla croce, narra del soldato, che con una lancia aperse il fianco a Gesù, e, nota: «Chi vide, lo attesta, ed è vera la sua testimonianza». Al fatto che Gesù è morto fa seguire altri fatti: quello dell’incredulità di Tommaso; quello della seconda apparizione di Gesù Cristo; poi quello dell’apparizione presso il lago di Tiberiade. Il tutto si chiude così: «Questo è il discepolo che attesta tali cose e le ha scritte». Si può desiderare una maggiore certezza storica? Si possono desiderare testimonianze più sicure e rigorose di quelle dei testimoni oculari, degli Apostoli che l’hanno visto Gesù risorto, che hanno parlato assieme, che l’hanno toccato, che hanno condiviso il cibo, che l’hanno predicato, che son morti per Lui? (Op. cit.).

Importanza. «Ciò che importa maggiormente alla fede del cristiano, non è già che Gesù Cristo sia morto, ma che è risuscitato da morte. Che Gesù sia veramente morto è cosa creduta anche dal pagano, il quale ne fa un soggetto di rimprovero contro il cristiano. Quale dunque il punto capitale della fede nostra, e ciò che ne forma il merito? Eccolo: è il «credere che Cristo risuscitò da morte, e lo sperare che anche noi risorgeremo un giorno per la virtù di Gesù Cristo; questo è il merito e la gloria della nostra fede» (sant’Ambrogio, sul Salmo 101). Fra tutti i miracoli di Gesù Cristo, il più importante di tutti è quello della Sua risurrezione. La risurrezione di Gesù Cristo può servire anche da sola di dimostrazione sommaria e perentoria della divinità della Sua missione e della Sua religione. Questa prova in pari tempo ha il vantaggio d’essere eminentemente alla portata di tutte le intelligenze: per comprenderla basta un cuore retto, che cerca la verità in buona fede. È fuor di dubbio infatti, che se per Suo proprio potere Gesù Cristo ritornò alla vita, Egli è Dio; se ciò avvenne per il potere di Dio, divina è la missione Sua, giacché è impossibile che Dio, la cui santità, bontà e sapienza sono infinite, abbia voluto effettuare la predizione di un impostore e segnare la Sua dottrina col sigillo più irrefragabile della verità. Gesù Cristo stesso, predicando la Sua risurrezione, la presentava come il segno più luminoso della Sua missione divina. Altrettanto fecero gli Apostoli nelle loro predicazioni; e quando si trattò di scegliere un discepolo per sostituire Giuda il traditore, vollero che fosse un testimone della vita, della morte e della risurrezione di Gesù Cristo (Act., I, 22). San Paolo non dubita di dichiarare che la sua predicazione e la fede dei cristiani sarebbero vane, se Cristo non fosse risuscitato (I. Cor., 15). Finalmente i nemici stessi di Gesù, i Giudei, tanto bene capirono la forza dimostrativa della Sua risurrezione, che collocarono guardie al sepolcro per rendere impossibile qualsiasi soperchieria; e nei tempi posteriori i nemici della Rivelazione niente tralasciarono per abbattere la credenza in questo fatto capitale.

[Dal Prontuario del Predicatore, Houdry - Porra, Vol. IV, parte I, pag. 541 e seg., Imprimatur 1934].

Nel giorno 25 di marzo la Chiesa celebra la Santissima Annunciazione di Maria Vergine. L’Annunciazione di Maria fu detta da san Lorenzo Giustiniani (Serm. 1, De Ann...). «Il principio della rinnovazione della natura umana, in cui il consenso di Maria compì il gaudio del cielo, realizzò le speranze dei giusti e spaventò i demoni. Quella fu l’opera più grande dell’onnipotenza di Dio, perché l’incarnazione del Verbo fu voluta dal divin Padre per virtù dello Spirito Santo: perciò fu l’opera della Santissima Trinità». Per questo fino dai tempi primitivi della Chiesa i fedeli cominciarono a venerare quel primo istante, in cui il divin Salvatore prese carne nelle viscere di Maria Santissima. Tale devozione crebbe tanto, che nel secolo III san Gregorio taumaturgo ci lasciò tre discorsi sull’Annunciazione di Maria, dichiarandola festa principale della Vergine. Nell’anno 492 detta festa fu inserita nel Sacramentario di san Gregorio Magno. S’ignora però l’anno in cui fu istituita, perché cominciò a celebrarla la Chiesa primitiva, mentre era agitata dalle feroci persecuzioni dei Giudei e dei Pagani. Notiamo che nell’anno 1383 Amedeo VI, conte di Savoia, istituì l’Ordine Equestre della Santissima Annunziata. Nel 1501 il Papa Alessandro VI approvò le regole dell’Ordine monastico delle Annunziate; ed il Papa Giulio II le confermò nel 1506. Il mistero, che si venera in questa festa, è quello riferito da san Luca al capo VI del suo Vangelo. (Note storiche tratte da Houdry- Porra, Prontuario del Predicatore, Volume VI, Discorsi di circostanza, Milano, Libreria Editrice Arcivescovile Giovanni Daverio, Imprimatur 1934, pag. 272).

Il Saluto Angelico sarà l’oggetto di questa nostra considerazione. Ricordiamolo, illustriamolo, commentiamolo. L’Angelo mandato da Dio a Maria fu Gabriele. Il suo nome etimologicamente vuol dire forza di Dio. Non fu questa la prima apparizione di Gabriele. Dal libro di Daniele risulta che si manifestò più volte a quel profeta, sotto forma di uomo alato per spiegargli il vero senso delle settanta settimane che dovevano trascorrere prima della venuta del Messia. San Luca, nel capo stesso in cui narra l’Annunciazione a Maria, ci fa sapere che Gabriele era già prima apparso a Zaccaria, per annunciargli che sarebbe diventato padre del precursore. Con Zaccaria si manifestò in questi termini: «Io sono Gabriele che sto alla presenza di Dio». è quindi uno dei sette spiriti che stanno davanti a Dio, per ricevere e mandare a esecuzione i Suoi ordini. Per l’annuncio del mistero riguardante l’Uomo-Dio, Gabriele viene chiamato «L’Angelo dell’Incarnazione». Gabriele apparve a Maria (prosegue a pagina 8) in forma di uomo. Altrimenti non si capirebbe come sia «andato da Lei» come abbia «parlato con Lei», come «sia partito da Lei». Quale però sia stato l’aspetto assunto dall’Angelo il Vangelo non dice: si suppongono nell’Angelo forme umane comuni. Quando l’Arcangelo entrò da Maria, in quel momento era immersa nell’orazione e nella contemplazione dei divini misteri. L’Annunciazione fu conveniente, dava occasione a Maria di esercitare le più elette virtù. L’Angelo delle tenebre aveva col suo intervento iniziato l’opera della nostra caduta. Conveniva che un altro Angelo, Angelo di luce, trattasse con un’altra donna per la nostra salute. L’annuncio angelico si distingue in tre parti distinte. L’Angelo rivolge il saluto a Maria; al saluto segue l’annunzio del mistero, al mistero il consenso di Maria.

Lo Spirito Santo dice che il Signore al giusto dà una corona di onore e di gloria. Sul capo di san Giuseppe io trovo una splendida corona, intessuta di gemme così preziose, che non si riscontra sul capo di altri Santi. È la corona dei suoi privilegi. Egli fu privilegiato fin dalla nascita; privilegiato nell’elezione, nella vita, in morte, nel cielo. Egli era della stirpe di David, il suo sangue è sangue regale. Fu scelto a Sposo di Maria Vergine ed a Padre legale di Gesù. Due titoli che lo innalzano su tutte le creature. Fu l’uomo di fiducia della Santissima Trinità, il depositario dei più grandi tesori che mai si possano immaginare. La sua vita fu tutta spesa e consacrata per Gesù e Maria. Fu il Capofamiglia; il Vangelo quindi lo nomina al primo posto, col titolo di padre di Gesù. Poiché san Giuseppe si spense fra lo sguardo di Gesù e di Maria è il Patrono della buona morte. Egli fu privilegiato anche dopo morte e nel cielo. Per la gloria, per la regalità, per il potere, per la grazia. San Giuseppe è potentissimo: essendo stato l’uomo più elevato in dignità, in uffizio. (Omelia tratta da Houdry- Porra, Prontuario del Predicatore, Volume IV, Parte prima, Milano, Libreria Editrice Arcivescovile Giovanni Daverio, Imprimatur 1934, pag. 515 ss).

Sono due verginità che si sono unite quindi per conservarsi l’un l’altra eternamente, mediante una certa corrispondenza di desideri pudichi, e ci rammentano due astri che non entrano in unione, se non perché intrecciano la loro luce. L’esempio si ripeterà nella storia. Santa Cecilia e Valeriano, due sposi, due vergini e due martiri. Santa Pulcheria e Marciano, due sposi e due vergini. Sant’Enrico e santa Cunegonda, lo stesso. Continua il Bossuet: Chi potrebbe mai ridire l’amore coniugale di questa coppia fortunata? Poiché, o santa verginità, le tue fiamme sono altrettanto più forti, quanto più sono pure ed indipendenti; il fuoco della mollezza umana non potrà mai uguagliare l’ardore che accompagna i santi abbracci degli spiriti stretti insieme dall’amore della purezza. In Maria e Giuseppe, l’amore è celeste, poiché le sue fiamme miravano alla conservazione della purezza. Ditemi, o Giuseppe, che cosa è che voi amavate in Maria? Ah! Certamente non era la bellezza mortale, ma quell’altra bellezza nascosta ed interiore, di cui la verginità era l’ornamento più prezioso. La purità di Maria era l’oggetto della devozione di Giuseppe; il suo amore coniugale batteva quindi vie nuove, era divino e spirituale. Oh! Coniugio! Ti rifletti nella società umana. E fiorisca qui il matrimonio cristiano. Quel matrimonio, che è illuminato e sorretto dalle parole e luci celesti, che deve essere fedele, casto, amoroso! (Omelia tratta da Houdry- Porra, Prontuario del Predicatore, Volume IV, Parte prima, Milano, Libreria Editrice Arcivescovile Giovanni Daverio, Imprimatur 1934, pag. 515 ss).

Nell’unione di Maria Vergine con san Giuseppe c’è il contratto, scrive sant’Agostino, col quale si danno mutuamente; ed è appunto qui nella donazione scambievole, che bisogna ammirare il trionfo della purità, associato alla verità di questo matrimonio. Poiché Maria appartiene veramente a Giuseppe, e Giuseppe a Maria. Ma in qual maniera si danno mutuamente? «Purità, ecco il tuo trionfo, esclama poi il Bossuet! Essi si danno reciprocamente la loro verginità, e su di questa si cedono un mutuo diritto. Quale? Di custodirsela l’un l’altro». San Giuseppe è il custode della verginità di Maria; Maria è la custode della verginità di san Giuseppe. Né l’una né l’altro ne possono disporre, e tutta la fedeltà di questo coniugio sta nel custodire la verginità. Ecco la promessa che li associa, il patto che li lega. (Omelia tratta da Houdry- Porra, Prontuario del Predicatore, Volume IV, Parte prima, Milano, Libreria Editrice Arcivescovile Giovanni Daverio, Imprimatur 1934, pag. 515 ss).

Il matrimonio della Vergine Maria con san Giuseppe, lungi dall’offuscare le loro purezze, non fece altro che metterne maggiormente in risalto lo splendore incomparabile. Come quando due gigli intrecciano il loro profumo, se ne sente più prontamente e più lontano la fragranza, così dall’unione di san Giuseppe con la Vergine Maria, appare meglio che altrove, quanto fosse terso (esente, ndR) da ogni sensuale attacco il loro cuore, quanto fosse ardente in essi lo zelo di emulare gli angeli nella loro purezza. Niente di terreno, di umano, nel loro coniugio. Le loro erano due vite fuse in una sola per potere così, con raddoppiato slancio elevarsi a Dio. Giuseppe era il custode del pudore della Vergine. Questa, con la sua presenza, col suo tratto, col suo fascino, accendeva sempre maggiormente nello sposo l’amore per la castità. (Omelia tratta da Houdry- Porra, Prontuario del Predicatore, Volume IV, Parte prima, Milano, Libreria Editrice Arcivescovile Giovanni Daverio, Imprimatur 1934, pag. 515 ss).

San Giuseppe, o fedeli, ha proporzioni gigantesche: San Giuseppe fu lasciato dal culto cristiano e dalla teologia in una penombra nei secoli passati. Ora però è presentato ai fedeli circonfuso di tale gloria, che non è concessa ad alcun altro Santo. Ci fu, nel passato, una questione per sapere a chi spettasse il primato, se a san Giovanni Battista od a san Giuseppe. In favore di san Giovanni si portava l’elogio che ne fece Gesù medesimo: «Tra i nati di donna non vi è altri più grande di Giovanni». Ma si è fatta luce chiara intorno a questo passo. L’esame del testo e del contesto non lascia più dubbio che Gesù, pronunciando quell’elogio, faceva un confronto, non fra Giovanni ed i Santi in genere, ma fra lui e gli altri profeti dell’antico Testamento. Fra i beati, dunque, nessuno può contendere a Giuseppe il posto eminente di gloria che gli riconosce la Chiesa. Nella gerarchia dei santi, Giuseppe viene subito dopo Maria. Lo stesso Spirito Santo ha tessuto il miglior panegirico a questo Santo, proclamandolo giusto: «Cum esset justus». I titoli poi od i fondamenti della grandezza di san Giuseppe, sono due: sposo di Maria e padre putativo o legale di Gesù. Li illustreremo, o fedeli, nel presente panegirico. Tutta la grandezza e tutta la dignità di san Giuseppe si compendiano e si suggellano nell’essere Egli stato: primo, lo sposo di Maria Vergine e perciò il compartecipe del mistero dell’Incarnazione del Verbo, e, secondo, il Padre putativo di Gesù, cioè nunzio, custode del Signore, benefattore suo, suo superiore in faccia al mondo. In questi due titoli stanno le ragioni di tutta la santità, di tutti i doni, di tutte le prerogative, di tutta la potenza di san Giuseppe.

Testo evangelico: «La nascita di Gesù Cristo avvenne così. Essendo stata la Madre sua Maria sposata a Giuseppe, si scoperse incinta di Spirito Santo, prima che fossero insieme. E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto, e non volendola pubblicamente infamare, voleva licenziarla segretamente. Ma mentre pensava a queste cose, un Angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender Maria tua consorte, poiché ciò che in essa è generato, è di Spirito Santo. Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai suoi peccati. Ora ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto per il profeta, che dice: Ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio, e lo chiameranno Emmanuele che s’interpreta Dio con noi. E Giuseppe destatosi dal sonno, fece quanto l’angelo gli aveva comandato e prese la sua consorte; ma non la conobbe, e quando partorì il figliuolo primogenito, gli pose nome Gesù» (Matt., I, 18-21). Osservazioni. Il Vangelo di san Giuseppe ha pochi versetti. Ma questi comprendono il più ed il meglio che si possa dire del glorioso patriarca. Il primo versetto ci parla della Santissima Vergine, che essendo Sposa di san Giuseppe venne resa feconda per opera dello Spirito Santo. Il secondo versetto ci parla di san Giuseppe, marito della Santissima Vergine, che essendo uomo giusto, né potendo comprendere ciò che era avvenuto nel seno della sua casta Sposa penserà di ritirarsi da Lei. Il terzo versetto ci parla dell’Angelo che apparve a san Giuseppe e gli rivelò il grande mistero. Finalmente il quarto versetto ci parla del prossimo natale dei Figlio di Dio, dei diritti paterni che su di Lui era chiamato ad esercitare il gran Patriarca e della parte che il gran Patriarca avrebbe avuto nell’opera della Redenzione.

Il Martirologio Romano, al 25 Dicembre annuncia il Natale di Gesù Cristo in questi termini: «Nell’anno 5199 dalla creazione del mondo: 2957 dopo il diluvio: 2015 dopo la nascita di Abramo; 1510 dopo Mosè e l’uscita del popolo ebreo dall’Egitto: 1032 dopo l’unzione di Davide a re d’Israele: nella sessantesima quinta settimana secondo la profezia di Daniele: nell’Olimpiade 194a: nell’anno 752 dopo la fondazione di Roma: nell’anno 42 dell’impero di Ottaviano Augusto; mentre il mondo intero era in pace, nella sesta età del mondo, Gesù Cristo, Dio eterno e Figliolo dell’E- terno Padre, volendo consacrare il mondo con la sua pietosissima venuta, già concepito di Spirito Santo, e dopo passati nove mesi dalla sua concezione, in Betlem di Giuda nasce da Maria Vergine fatto Uomo».Questa data del martirologio è accettata da Tertulliano, da Clemente Alessandrino, da Eusebio, vescovo di Cesarea, da Epifanio, da Orosio, da Lucio Destro, prefetto dell’Oriente, da san Girolamo, da sant’Ireneo, da Giulio Africano. Dissente invece Giuseppe Flavio. Per questo l’adagio giuridico: «Testis unus, testis nullus» - «un solo testimone, non ha alcun valore». Il luogo della nascita del Salvatore fu profetizzato da Michea (5, 2) con queste parole: «E tu, Betlemme di Efrata, tu sei piccola tra le migliaia di Giuda; ma da te uscirà Colui che deve regnare in Israele, la cui generazione è dal principio della eternità». Nel versetto precedente il Profeta aveva annunziato che i Giudei sarebbero assediati, ed i loro giudici abbeverati di affronti; e per consolarli aggiunse le parole che abbiam riferite. Nominando Betlemme, egli volle parlare di una città situata sul territorio della tribù di Giuda, a due leghe a mezzodì da Gerusalemme, in una fertile contrada; d’onde il suo nome di Betlemme (casa del pane), e di Efrata (fertile). — Questa ultima denominazione la distingue da un altro paese omonimo, posto nella tribù di Zabulon. La espressione fra la migliaia di Giuda, significa: tra le città che contano migliaia di cittadini, o che danno migliaia di soldati all’esercito. Fu in seguito di questa profezia, che Betlemme è stata sempre considerata come il luogo dalla risposta che i dottori della legge diedero ad Erode (S. Matth. 2, 5). Rispetto al fatto della origine del Messia dalla tribù di Giuda e dalla stirpe di Davide, esso fu profetizzato da Isaia (11, 1), quando, consolando gli abitanti del regno di Giuda, i quali temevano una sorte uguale a quella ch’era toccata ai sudditi del regno d’Israele soggiogati dagli Assirii, disse loro: «Uscirà un rampollo dalla radice di Jesse (cioè d’Isai padre di David), ed un fiore nascerà dalla sua radice, e lo Spirito del Signore riposerà su di lui». Quindi, dopo una descrizione dei tempi fortunati che verranno allora, il Profeta aggiunge «Avverrà che in quel giorno le genti ricercheranno il rampollo di David che sarà innalzato per bandiera dei popoli, le nazioni verranno ad offrirgli le loro preghiere, ed il suo sepolcro sarà glorioso». (11, 10).

San Giovanni, a grandi pennellate, ricorda e canta il mistero della Incarnazione. Per farci un’idea del beneficio immenso che fu per noi l’Incarnazione del Verbo, meditiamo questi 4 punti. 1.° Chi è Colui che si fece Uomo. 2.° Che cosa diventò facendosi Uomo. 3.° A chi si unì nell’incarnazione. 4.° Perché vi si unì? I. Chi è Colui che si fece Uomo? È il Verbo, il quale esiste in tutta l’eternità; è il Dio grande, forte, potente. «Il medico onnipotente, dice sant’Agostino, è disceso a guarire un grande infermo; umiliandosi fino a prendere carne mortale, egli è portato al letto del moribondo». II. Che cosa diventa questo gran Dio nell’Incarnazione? Diventa carne, si fa carne: Verbum caro factum est. «La carne ci aveva accecati, dice sant’Agostino, e la carne ci ha guariti». Ed in altro luogo: «L’anima era diventata carne, lasciandosi vincere dai carnali appetiti. Ora il Verbo si fece carne, e il medico dell’umanità ha preparato il rimedio per guarire, con la carne, i vizi della carne». N. S. Gesù Cristo lasciò i serafini, i cherubini e gli altri cori angelici, discese in questa valle di pianto e di miserie, e si unì a questa nostra carne abbietta e se l’è unita col più stretto legame che possa esservi, col legame cioè dell’unione personale. Che cosa direste voi di un tale che, incontrando un agnello che si conduce al macello, ne sentisse tanta compassione da sostituirsi all’animale, o piuttosto volesse trasformarsi in agnello per salvarlo? Non si direbbe stolto tanto amore per un animale? Orbene infinitamente più grande è stato l’amore di Gesù Cristo per noi, quando si fece uomo per morire invece dell’uomo, perché Dio è infinitamente superiore sia a noi che noi all’animale. III. A chi si unì Gesù Cristo incarnandosi? [...] Egli è nato corporalmente nella carne, per nascere spiritualmente nell’anima nostra. IV. Perché il Verbo si è incarnato? Per salvare l’uomo dal peccato, dalla morte, dall’inferno, e dalle miserie dell’anima e del corpo, col renderle meritorie. Poiché niente altro ebbe per sé il Verbo se non l’annientamento, la povertà, le privazioni, gli obbrobri, i patimenti, la morte, la croce; e tutto ciò per liberare noi da ogni male e colmarci da ogni bene. Il Verbo si è fatto carne per fare degli uomini altrettanti figli di Dio, eredi del cielo. Grande beneficio quindi per noi l’incarnazione. Qui Iddio non fa piovere la manna, ma aprendo tutti i cieli, tutti i tesori della sua divinità e tutte le viscere della sua misericordia, si slancia sulla terra portando con sé tutti i suoi favori e tutte le sue grazie. L’Incarnazione del Verbo è il fine, l’ornamento, la forma, il compimento della creazione degli angeli, degli uomini, dell’universo. Perché si è incarnato Gesù Cristo? Gesù Cristo, risponde il Crisologo, è venuto a caricarsi delle nostre infermità e parteciparci le sue virtù, a cercare le cose umane e dispensare le divine; a ricevere ingiurie e distribuire onori; a soffrire noie e mali per portare gioie e guarigioni. [...] Sant’Agostino fa questa antitesi: «Il Dio grande è venuto all’uomo bambino, il Salvatore al naufrago, il vivo al morto. Perché noi siamo piccoli, egli si è fatto piccolo: perché noi siamo mortalmente infermi, egli si è prima avvicinato a noi, poi è morto per restituirci la vita». E san Gregorio: «Gesù Cristo nacque carne, affinché noi nascessimo secondo lo spirito; nacque nel tempo, affinché noi nascessimo nell’eternità; nacque in una stalla, affinché noi nascessimo nel cielo».

Ecco il gran giorno, o fedeli, che Dio fece sorgere dopo una notte di quaranta secoli; esultiamo e rallegriamoci in esso: II Verbo si è fatto carne, ed è disceso ad abitare fra noi. Sono diciannove secoli (data del libro citato: 1934, ndR) che la Chiesa vede al ritornare di ogni anno questo dì solennissimo, e dopo diciannove secoli la Chiesa lo saluta ancora con quello stesso slancio di fede e di amore, con cui lo salutarono i fortunati pastori di Betlemme. Potenza altissima e altissima misericordia di Dio! Il Verbo si è fatto carne, ed è disceso ad abitare fra noi. Curviamo la fronte, pieghiamo il ginocchio, dilatiamo il cuore, e mentre gli angeli riempiono delle loro celesti armonie lo squallido presepio, meditiamolo nell’estasi dello spirito il sublime mistero. Chi è il bambino, che si offre al nostro sguardo? Chi è quel pargoletto che vagisce su poca paglia? Quando il Maestro divino raccolti in Cesarea di Filippo i suoi Apostoli mosse loro questa domanda: Gli uomini chi credono che io sia? Gli Apostoli riferendogli le voci che correvano sul conto suo gli risposero: Vi è chi ti crede Giovanni Battista, chi ti crede Elia, chi ti ritiene Geremia, chi uno fra i profeti (S. Matt. XVI, 12). E tale veramente era il concetto che i più si erano formati di lui all’udire la sublimità dei suoi insegnamenti ed al vedere le meraviglie delle sue opere. Alla domanda, al quesito rispose bene san Pietro, affermando che Egli era il Cristo, figlio del Dio vivente. Oggi risponde san Giovanni, l’Apostolo prediletto di Gesù col principio del suo Vangelo. In questo brano stupendo san Giovanni, con brevi ma sublimi parole, tratte dal gran libro della divina sapienza, annunzia l’eterna generazione del Salvatore. Parole, che un antico discepolo di Platone, come ci riferisce sant’Agostino, diceva degne di essere scritte a caratteri d’oro, e collocate sul sommo delle porte d’ogni tempio cristiano (De Civit. Dei, c. 29, 2). Sollevandosi egli come aquila al di sopra di ogni umano concetto, e fermando la sua estatica pupilla nei fulgori della divinità, grida a tutti: «In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum».

Spiritualmente passiamo a Betlem; penetriamo nella grotta; prostriamoci innanzi al presepio di Gesù, la sua culla è il perno del mondo, è una sorgente, è un trono. Avanti il Natale del Redentore trovo Dio che lo promette, i patriarchi che l’annunziano, i profeti che lo descrivono, i giusti che lo rappresentano, i conquistatori che lo precedono e gli preparano la via. Nei secoli precedenti la Sua venuta si riconosceva il suo nome, il suo paese, la sua vita nelle più minute particolarità; si sapeva quale doveva essere la madre sua, quale la sede della sua nascita, questo del popolo ebreo. Gesù fu poi atteso anche dagli altri popoli. Ogni libro sacro, greco, egiziano, indiano, persiano, cinese si apre col racconto della caduta umana e con la promessa del Redentore. Tutti i grandi scrittori antichi invocano un Divino Liberatore. Così Confucio, Zoroastro, Socrate, Platone, Virgilio, Cicerone. La Grecia darà a Gesù la sua lingua armoniosa; i Romani conquisteranno il mondo per ottenere la pace universale. Prima della sua venuta i popoli dell’Europa e dell’Africa settentrionale guardano all’oriente, quelli dell’Asia all’Occidente. Lo sguardo degli uni e degli altri si puntava, si incontrava sulla mangiatoia. I Druidi innalzeranno un altare: «Virgini parituræ» le generazioni tutte si trasmettono di secolo in secolo un grido di speranza, verrà un pargolo. Dopo il suo Natale trovo i martiri, che muoiono per Lui, i sapienti che ne spiegano la dottrina, i santi che lo ricopiano in sé stessi, 19 secoli (data del libro citato: 1934, ndR) che prendono nome da Lui. Il Vangelo, parte da quella culla. In principio erat Verbum. Il calendario cristiano lo stesso. Il nostro nome, le nostre feste, le nostre chiese, ripetono dalla culla di Betlem la loro ragione. Da quella culla parte una posterità universale. Gesù si è incarnato ed è morto per tutti. Egli appartiene a tutti i popoli, a tutti i tempi, a tutti i luoghi. Alla sua culla si unisce una posterità intelligente, i migliori genii, le migliori intelligenze si sono inchinate a Lui; una posterità fedele, che crede, spera, ama, difende Gesù Cristo; una posterità sanguinante, che si sacrifica e muore per Lui; una posterità ricalcitrante; Gesù ha gli amici, ma anche i nemici. La corrente dei secoli, si arresta alla culla di Betlem; lì rimonta il suo corso e si lavora un nuovo alveo. Ah! sarà vano torturare la storia per espellere Gesù, Egli è incarnato nella civiltà moderna. Non si può sopprimerlo senza sconvolgerla tutta. Togliete quella culla, cade il perno del mondo morale, e vi troverete innanzi ad un vuoto spaventoso. Essa è il centro del mondo, il punto di arrivo dell’antichità, il punto di partenza dell’Evo moderno. Cristo in una mano tiene l’antico Testamento, il più gran libro dei tempi passati, nell’altra il Nuovo Testamento, il più gran libro dei tempi nuovi, Gesù è Dio. Venite, ad oremus! Da quella sorgente deriva, scaturisce la grande opera di Cristo, la Chiesa. Da quella culla i sacramenti, canali della grazia che portano le loro onde benefiche e salutari a tutte le genti. Da quella culla derivano tutte le grandi virtù che trasformano l’anima umana, come le grandi virtù che innalzano, sublimano la famiglia cristiana, come le grandi virtù che caratterizzano e pongono all’avanguardia del mondo la società cristiana, e che costituiscono la civiltà cristiana. Il regno di Dio annunciato e lungamente aspettato comincia a Betlemme. Roma e Betlem si contendono l’impero del mondo. Cesare Augusto, una dopo l’altra vide rientrare le sue legioni trionfali. Egli si crede il padrone del mondo e interpreta gli oracoli che promettono alla città dei sette colli un impero eterno. Folle sogno! Il regno di Cristo rovescerà l’impero dei Cesari. Ebbro del sangue dei martiri, esecrato dai popoli oppressi, fatto a brani dai barbari, un giorno crollerà nelle sue rovine. Gli succederà il nato di Betlem. La stalla è il suo palazzo reale, la mangiatoia il suo trono, le povere fasce la sua porpora, gli animali i suoi paggi di onore. Da quel trono Gesù Cristo inaugurerà il suo regno di pace, di amore, di libertà, di uguaglianza fra gli uomini; di fratellanza umana, universale; il suo regno sulle menti, sulle volontà, sui cuori, sulle anime, sulle famiglie, sulle nazioni. Venite, o popoli, dall’oriente, dall’occidente, dal settentrione, e dal mezzodì; prostratevi tutti innanzi alla culla di Betlem, la sorgente di tutti i beni religiosi, il trono di Gesù, Re dei secoli. A Lui solo, onore e gloria. Cantiamo cogli angeli: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli; pace in terra agli uomini di buona volontà».

Al sentire i pastori l’annuncio da parte di un angelo del natale di Gesù, corsero in fretta alla grotta per vederlo coi propri occhi, per adorarlo colle proprie persone. «L’ardore dell’animo, dice il Grisostomo, ed il desiderio vincevano; i piedi erano tardi alle brame del cuore». Quei felici pastori aprirono i loro cuori al Dio bambino, pronti a corrispondere alle sue grazie. Grazie grandi, distinte, segnalate certamente essi ebbero se tornarono alla loro greggia pieni di gioia «glorificando e lodando Dio per tutte le cose che avevano udite e vedute». I pastori colla loro condotta ci danno un bellissimo esempio della prontezza con cui dobbiamo corrispondere alle chiamate del Signore. Queste chiamate non sono soltanto quelle che Dio fa da sé o per mezzo di un angelo, come quelle che si ricordano nella S. Scrittura, ma sono anche le tribolazioni, le avversità; sono le correzioni ed i buoni consigli che ci danno i predicatori, i confessori, ed i superiori; sono i buoni esempi che ci porgono i veri cristiani; sono le ispirazioni interne. Con tali chiamate il Signore intende di metterci sulla retta via, se ce ne siamo allontanati, o di eccitarci a servirlo con maggiore fervore se non siamo né freddi, né caldi, cioè dire se viviamo nello stato di tiepidezza, se siamo ondeggianti tra il vizio e la virtù e non sappiamo risolverci a combattere generosamente il primo per fare acquisto della seconda. Le divine chiamate, o fedeli, sono tante grazie che Dio ci fa e guai se noi ci ostiniamo a non corrispondere ad esse! Uno dei segni dell’eterna dannazione è precisamente quello di non corrispondere alle grazie del Signore. Questa è dottrina di san Paolo. Sentitela: «La terra che beve la pioggia che viene spesse volte sopra di essa e produce erba utile a chi la coltiva, riceve benedizione da Dio; ma quella che produce spine e triboli è riprovata e prossima alla maledizione, la cui fine è di essere arsa» (Agli Ebrei, VI, 7-8). Con questa magnifica similitudine, l’Apostolo vuol dire che, come l’uomo che è fedele alle molte grazie che Dio gli dà, se coopera ad esse e fa molte opere buone, sempre più è da lui benedetto; così l’uomo infedele a Dio vien privato delle grazie elette e speciali, e senza queste è facile che muoia impenitente e venga condannato al fuoco dell’inferno. Corrispondete dunque, o fedeli, alle divine chiamate, come corrisposero i santi, perché non sapete se ne avrete altre in avvenire. E se tra voi vi fosse alcuno che avesse fin qui resistito alle divine chiamate, non resista a quella di Dio che gli dà per mezzo di me, suo indegno ministro, ma corrisponda senza indugio, perché potrebbe essere l’ultima. Chi si trova in peccato mortale, accolga il mio invito a compiere una santa Confessione. Chi fosse poi tiepido, inauguri subito una vita di fervore e di buone opere, implorando l’aiuto di Dio, l’assistenza di Maria Santissima. Operando così, avrà il beneficio di quella santa gioia, di cui furono ripieni i pastorelli nel trovare il Divino Infante, gioia che manifestarono con parole, poiché se ne ritornarono «glorificando e lodando Dio». Si corrisponda anche alle divine particolari chiamate, ripetendo in ogni caso: «parla, o Signore, che il tuo servo ti ascolta» - «Loquere, Domine, quia audit servus tuus».

Lo cercano con fede, con prontezza, con generosità, con umiltà. 1. - Con fede: la fede dei pastori si manifesta nelle due circostanze seguenti: a) senza esitazione di sorta credono all’angelo, che annunzia loro la nascita del Salvatore; e questa fede ferma si traduce tosto in pratica, perché partono senza alcun indugio; b) arrivati a Betlemme, si prostrano ed adorano sotto forma di un bambino in fasce e giacente in una mangiatoia, il Verbo fatto carne, il Salvatore promesso dopo la caduta del primo uomo, il Redentore del mondo. Essi l’adorano, malgrado quello stato di abbassamento e di debolezza; l’adorano, malgrado i falsi concetti dei loro connazionali, perché i Giudei attendevano un Messia terrestre, un Liberatore pieno di gloria e di potenza terrena; l’adorano, malgrado le apparenze risultanti dai sensi, perché in questo bambino in fasce vedono l’Emmanuele vaticinato dai profeti, e gli fanno omaggio della loro mente e del loro cuore. Notiamo che se la loro è una fede viva, è ancora una fede illuminata e prudente. Essi hanno visto distintamente l’angelo, hanno inteso chiaramente le sue parole, e vengono a constatarne la verità trovando esatto tutto ciò che era stato loro annunciato. Essi hanno inteso gli angeli cantare: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli; e pace in terra agli uomini di buona volontà». 2. - Con prontezza. Alla fede viva i pastori aggiungono la prontezza. Non appena l’angelo ebbe terminato di parlare, ecco che dicono tra di loro: «Andiamo sino a Betlemme a vedere quanto è accaduto, come il Signore ci ha manifestato». E subito andarono di buon passo ed arrivarono in fretta. Imitiamo il loro esempio. Andiamo, e volentieri, e di buon passo alla Messa (cf. Cost. Apostolica «Quo primum tempore», san Pio V, 19.07.1570, ndR), istituita per noi da Gesù Cristo; andiamo a questa nuova Betlemme, dove il Figlio di Dio fatt’uomo continua a nascere, nel momento della consacrazione. Accostiamoci alla Santa Comunione. Andiamo con prontezza; è indice del nostro amore, e Gesù Cristo si dà con piacere a quelli che l’amano. 3. - Con generosità. Questa loro generosità si manifesta: a) perché vanno spontaneamente a vedere ed adorare il nato Salvatore. L’Angelo si è limitato ad annunziare loro il suo nascimento, e ad indicare i segni, dai quali essi l’avrebbero riconosciuto. Vi era veramente solo un invito di andarlo a vedere ed a adorare; però non era un ordine. Ma per i pastori l’invito è un ordine. L’hanno compreso, e si dispongono subitamente a partire per fare la volontà di Dio. E non temono punto di abbandonare per un po’ di tempo le loro pecore, sulle quali vegliano con una sì grande fedeltà. b) Riconoscono il pregio dei beni eterni, e per andare in cerca di questi, non esitano a lasciare per alcuni istanti i loro beni temporali, affidandoli alla divina provvidenza, che se ne prende sempre cura. Vegliò sul loro gregge: ed ebbero la felicità di trovare il divin Salvatore; c) infine la notte stessa non li impedisce di andare, e, generosi com’erano, vanno come se fosse stato pieno giorno. Così fanno le anime generose. Abbracciano il bene non appena viene loro proposto, e non attendono ordine per farlo. Preferiscono i beni del cielo a quelli della terra, e, data l’occasione, sanno lasciare un momento questi ultimi per trovare i primi. 4. - Finalmente con umiltà. Questa loro umiltà si manifesta: a) con una perfetta docilità. L’angelo ha detto loro che il Salvatore è nato a Betlemme ed essi ci vanno in tutta fretta. Questa obbedienza è ammirabile, perché spontanea. Il messo celeste s’è accontentato di dar loro un semplice annunzio, ma non ha dato loro alcun comando. Alle anime umili basta esprimere un desiderio: l’ubbidienza è uno dei frutti dell’umiltà. b) Per questa loro umiltà, non si scandalizzano di vedere lo strano abbassamento, in cui si trovava il Salvatore annunziato. Come si sarebbero scandalizzati di vederlo povero, essi, che erano poveri? Giacente in una mangiatoia, e ricoverato in una stalla, essi, che erano abituati ad entrare nelle stalle, e a vedere delle povere mangiatoie? c) Infine la loro umiltà li ha portati a riferire tutto a Dio. Non si vantano di essere stati chiamati per i primi alla stalla di Betlemme, ma glorificano Dio per tutto quello che hanno visto ed udito: non si insuperbiscono per l’insigne favore ad essi concesso, ma lodano la bontà del Signore: «et reversi sunt, glorificantes et laudantes Deum». Come i pastori, glorifichiamo e lodiamo Iddio per le verità che ci ha fatto annunziare, ed avremo la felicità di vederle un giorno. Questa felicità sarà tanto più sicura, quanto più saremo stati esatti nel presentarci dal nostro divin Salvatore con fede, con sollecitudine, con generosità e con umiltà. Queste disposizioni sono come le quattro ruote del carro spirituale, che ci trasporterà al regno dei cieli.

I primi adoratori mortali di Gesù Bambino furono certamente Maria e Giuseppe. Poi vennero altri: vi erano nella campagna di Betlem dei pastori, i quali, sull’esempio dei santi patriarchi, pascolavano i loro greggi. Non abbiamo alcuna notizia sui loro antecedenti, sulle loro famiglie né di quanto loro accadde dopo la chiamata e privilegiata adorazione del Bambino Redentore. Sono alcuni pastori, che sbucano per un istante sulla scena di Betlem. Li vediamo al chiaro delle stelle in una limpida notte invernale. Un’aureola divina li circonda. Essi vengono eletti fra tutti gli uomini; gli angeli indirizzano loro la parola. Come nell’antichità gli angeli si compiacevano di discendere dal cielo e conversare con quei pastori venerandi che si chiamavano Abramo, Isacco, Giacobbe, così ora sono discesi dai loro troni per cantare gloria a Dio e pace in terra agli uomini di buona volontà. Uno degli angeli reca la fausta novella ai pascolanti la greggia. I segni del Neonato sono il presepio ove dorme, le fasce che avvolgono la sua debole infanzia, la povertà più squallida d’ogni altra. Quella gente semplice corre alla grotta, arriva al luogo indicato dall’angelo e trova tutto come era stato annunziato. Qui possiamo domandarci, perché l’Angelo chiamò i pastori per primi alla culla di Gesù. Rispondo: per varie ragioni: la Perché le persone semplici e povere piacciono più a Dio, che non le ricche e dotte. 2a Perché quei pastori menavano la vita degli antichi patriarchi. 3a Perché Gesù Cristo doveva essere il pastore delle anime. 4a Per insegnare ai pastori delle anime, che essi devono conoscere i misteri di Dio; che Dio li rivela a loro prima che agli altri, affinché ne ammaestrino poi le loro pecore. 5a Perché Gesù Cristo doveva esser l’agnello da sgozzare per la salute del mondo. Era perciò conveniente che si mostrasse prima che ad altri, ai pastori di agnelli. Essi ebbero quindi l’inestimabile felicità di avere veduto per i primi, dopo Maria e Giuseppe, il promesso Messia. Dio si manifesta ai buoni pastori d’anime in modo affatto speciale. Intorno al presepio doveva esserci questa cornice di povertà, di umiltà, di semplicità. Dopo la visione di Betlem i pastori se ne ritornarono senza rimpianto alla loro greggia ed alla loro guardia. I loro anni posteriori si celarono nell’oscurità. Rimarranno fedeli nella fede e costanti nel vivere secondo la legge del Signore ed arriveranno ad essere gran santi. Dopo la loro morte fu infatti eretta una chiesa nelle vicinanze di Betlemme, detta dei santi pastori. Impariamo, o fedeli, dai pastori privilegiati di Betlemme a corrispondere alle divine chiamate. Adorniamo l’animo delle virtù della povertà, della semplicità, dell’umiltà. Se ci affligge la povertà consoliamoci al pensiero che Gesù nacque povero, visse povero, morì povero. Disse di sé: «gli uccelli hanno i loro nidi; le volpi hanno le loro tane; ma il Figliolo dell’Uomo non sa dove poggiare il capo». Siamo umili, chi si umilia sarà esaltato. Siamo semplici; semplici di pensiero, di parola, di opera; siamo semplici della semplicità dei fanciulli, poiché Gesù ci ripete: «in verità, in verità vi dico: se non diverrete come uno di questi fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli».

Transeamus usque ad Betlem, et videamus hoc verbum quod factum est, quod Dominus ostendit nobis (S. Luca, II, 10). Facciamo, sulle ali della fede e del pensiero, una visita a Betlemme, o fedeli; penetriamo nella spelonca privilegiata; prostriamoci innanzi al nato Salvatore; andiamo a scuola dalle persone che sono nella grotta gloriosa. Vi è Maria, vi è san Giuseppe, vi sono i pastori vi sono gli angeli, vi è Gesù. Vi è Maria, la Regina celeste, la Madre del Verbo. Che cosa dice? Amate il celeste Bambino, amate Gesù, è la vostra felicità, è la bellezza di ogni cosa bella; è la bontà di ogni cosa buona. Amate ciò che Egli ama: la carità, l’umiltà, la povertà, la castità, l’obbedienza ed ogni virtù. Amate ciò che è suo: la Chiesa, sua sposa, il Vangelo sua dottrina, la croce, sua bandiera, il Papa, suo Vicario, i Sacerdoti, suoi ministri, i Sacramenti, suoi canali di grazia, il prossimo sua immagine e sua conquista. Vi è san Giuseppe, è lo Sposo di Maria; il Padre putativo di Gesù; è l’ombra benefica dell’Eterno Padre, è il velo dello Spirito Santo, è il custode di Gesù. San Giuseppe è il Santo, l’Uomo del silenzio; non parla. Parla colla sua condotta, ed egli ci predica il dovere di custodire Gesù. Fedeli custodite Gesù; custoditelo colla guardia di onore nei vostri templi; custoditelo nella sua fede, nella sua morale, nella sua grazia, nella famiglia cristiana, nei vostri cuori. Vi sono i pastori: Che cosa ci dicono, ci insegnano? Corrispondete alle chiamate di Gesù; correte al tabernacolo di Gesù, prostratevi innanzi a Gesù, adorate Gesù, consacratevi a Gesù, offrite a Gesù tutti voi stessi, anima e corpo. Vi è Gesù specialmente: Gesù è il cuore, il centro del quadro sublime. Egli ci fa risuonare all’orecchio questa frase: «Ego sum lux mundi». «Io sono la luce del mondo», chi cammina dietro a me, non va nelle tenebre, ma ha con sé il lume della vita. Gesù Cristo è la nostra luce; ci svela i misteri, ci insegna quello che è necessario alla salute, ci dà i precetti, le regole per salvarci. Sant’Ambrogio chiama il sole: «Occhio del mondo, gioia del giorno, bellezza del cielo, misura del tempo, forza e vigore di tutte le stelle». Il sole non è che smorta immagine della luce di Gesù; Gesù è luce per la sua dottrina, per la sua grazia, per la sua legge, per i suoi esempi. Dalla culla, Egli ci dice, ama l’umiltà, la povertà, la castità, la semplicità, la mortificazione cristiana.

La culla di Betlemme è una cattedra sublime: vi siede sopra N. S. Gesù Cristo, Salvatore delle genti, Verbo del Padre, Maestro supremo ed unico, e vero. Da quella cattedra Gesù Bambino insegna: 1° a rinunciare alle vanità del mondo; 2° ad apprezzare la povertà; 3° ad amare le sofferenze. Gesù Bambino ci insegna a rinunciare alle vanità del mondo, cioè alla superbia e al fasto esteriore. La superbia rovinò l’uomo nel paradiso terrestre; da quel giorno essa regnò nel mondo. E Gesù nasce umile bambino, nasce in una squallida grotta, per dirci che la gloria del mondo, la grandezza terrena, e la superbia umana non devono sedurre il nostro cuore. Egli incomincia a predicarci coll’esempio ciò che più tardi ci dirà colla parola: «Imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore; e troverete riposo alle anime vostre» (S. Matt. XI, 29). Gesù Bambino ci insegna ad apprezzare la povertà. Il nostro spirito ci inclina a pensare secondo le massime del mondo. Il mondo riguarda come beati i ricchi, e come sventurati i poveri. Gesù insegnerà invece che beati sono i poveri di spirito, cioè quelli che hanno il cuore staccato dalle ricchezze e dai beni terreni; e incomincia, nascendo povero e chiamando i poveri per primi alla sua culla, ad insegnarci coll’esempio che la povertà non è sventura, a farci sentire che nella povertà vi sono invece dei preziosi tesori. Il povero è più caro a Dio, il povero è più generoso, è staccato dal mondo e perciò pensa più facilmente al cielo. Il Signore di tutti, nasce nella più squallida povertà. Se noi, o fedeli, siamo poveri, non invidiamo i ricchi, e procuriamo di acquistarci i beni eterni del cielo. Se siamo ricchi amiamo i poveri, vediamo in loro la persona del Bambino di Betlemme, ricordiamoci che le ricchezze non sono nostre, ma di Dio, che ne siamo non proprietari, ma amministratori, che dovremo rendergli conto dell’uso che n’avremo fatto; che le ricchezze, se non ci servono per l’acquisto del cielo, sono per noi una sventura, e che perciò dobbiamo essere generosi verso i poveri, verso la Chiesa e verso tutte le opere ed istituzioni buone (di corretta dottrina e di sana morale, ndR). Gesù Bambino ci insegna ad amare e stimare le sofferenze. Egli soffre appena nato; soffrirà per tutta la vita mortale; la chiuderà, tra dolori inenarrabili, sulla croce. Anche noi abbiamo a soffrire, e in molti modi: nell’adempimento del nostro dovere, nel lavoro, nelle malattie, nelle croci, nel sopportare le persone moleste, con cui dobbiamo necessariamente vivere. Talora calunnie, disprezzi, rovesci di fortuna; sono tante le sofferenze che ci accompagnano nel cammino della vita terrena. Chi soffre con rassegnazione, per amore e ad imitazione di Gesù, trae largo frutto dalle croci, soddisfa la giustizia di Dio, si acquista meriti per il cielo, si stacca sempre più, coll’affetto, dalla terra, si rende conforme a Gesù accompagnandolo per la via del Calvario, che è la via regia del cielo.

Gli Angeli ci hanno tracciato nel loro cantico sublime il disegno più naturale di un discorso, od omelia. La nascita di N. S. Gesù Cristo glorifica Iddio, e procura la pace agli uomini di buona volontà. La gloria che a Dio procurò il Verbo Divino nascendo a Betlemme ha tre suoi propri caratteri: a) È una gloria vera, che viene a formare i veri adoratori in ispirito e verità, che viene ad abrogare la Sinagoga, ed a sostituire al popolo ebreo, un nuovo popolo, del quale Gesù sarà il capo ed il pastore. Il culto reso fino allora a Dio era puramente esteriore, ed i Giudei carnali non sapevano punto che cosa fosse il sacrificio di un cuore contrito ed umiliato; il culto poi che i gentili rendevano ai loro idoli era abominevole; il culto che Gesù Cristo stabilirà sarà il solo degno di Dio. E da Lui, neonato Bambino, riceverà la primizia del vero culto, avrà la vera gloria. b) Nel Natale di Gesù poi Dio riceve una gloria universale. Poiché la gloria risiede nella cognizione del merito di qualcuno, e delle lodi; con cui lo si esalta, Dio prima non era conosciuto che in un angolo del mondo, ma colla venuta di Gesù Salvatore sarà conosciuto per tutta la terra: «Apparuit gratia. Dei Salvatoris nostri omnibus hominibus erudiens nos» (A Tito, II). c) Da questo ne segue che coloro i quali non lo hanno voluto ricevere, o che non vivono secondo la legge sua, non partecipano alla sua nascita. Il terzo carattere della gloria che Dio riceve dalla nascita temporale del Figlio suo è che tale gloria è infinita. Ciò che è evidente, perché tutte le azioni del Figlio di Dio partendo da una sorgente infinita, cioè dalla persona del Verbo, hanno valore e risonanza infinite; le azioni quindi che si riferiscono alla gloria di Dio, gli rendono gloria infinita. Il Natale di Gesù reca la pace agli uomini di buona volontà; una pace inestimabile ch’egli solo poteva darci, poiché lui solo poteva riconciliarci con Dio e con noi stessi. Reconciliavi tibi, reconciliavi mihi, diceva san Bernardo. Riconciliazione con Dio: «Giustificati per la fede, scrive san Paolo ai Romani, noi abbiamo la pace con Dio, per mezzo del Signor N. G. C.; per il quale noi abbiamo, in virtù della fede, accesso a questa grazia della pace, nella quale siamo stabiliti, e ci gloriamo nella speranza della gloria dei figli di Dio» (Ai Rom. V, 1-2). Riconciliazione con noi stessi, perché Gesù Cristo ci ha insegnato a sottomettere la carne allo spirito; per questo mezzo la guerra cessa nell’anima ed essa gode la pace. Benediciamo oggi a N. S. Gesù Cristo, il grande, il perfetto glorificatore dell’Eterno Padre; benediciamo a N. S. G. C. datore della pace. Egli ha abbattuto il muro di separazione che esisteva tra Dio e l’uomo; ha unito l’uomo a Dio, il cielo alla terra, il sommo della grandezza all’abisso della miseria. Gesù Cristo è autore della pace interna. Anche la nostra vita glorifichi Dio, siamo uomini di buona volontà, ed avremo la pace.

Figliuoli — vi annuncio — cosa di grande allegrezza; oggi — vi è nato il Salvatore; oggi è il giorno natalizio di N. S. Gesù Cristo. Quale lieta novella! Qual grande e fausto avvenimento! Quale immensa allegrezza! L’umanità è oggi risollevata oltre l’antico onore! Giorno grande questo, del Natale del Signore, o fedeli. Abramo, il patriarca antico aveva sospirato di vederlo e lo vide in ispirito da lontano e ne esultò! Giacobbe a questo giorno si rivolse cupidamente sul letto di morte cogli occhi semispenti, nel pio desiderio e nella santa esultanza di esso, interrompendo le benedizioni che stava invocando sui figli, esclamava: Salutare tuum exspectabo, Domine! A questo giorno sospirava il profeta Isaia ed esclamava egli pure: «Oh! si squarciassero i cieli e discendesse il Signore. Mandate, o cieli, la vostra rugiada, e le nubi piovano il Giusto, si apra la terra e germogli il Salvatore!». Questo giorno, da nove mesi, attendeva la Vergine adombrata dallo Spirito Santo; a questo giorno guardarono 40 secoli, questo giorno attesero 40 generazioni. Oh! Benediciamo oggi il Signore Iddio di Israele, che finalmente visitò ed inaugurò la redenzione del suo popolo. «Benedictus Dominus Deus Israel, quia visitavit et fecit redemptionem plebis suæ». Chi è Nato? È Gesù Cristo, la seconda Persona, il Verbo eterno che si è incarnato e fatto uomo per noi prendendo un corpo ed un’anima come i nostri nel seno purissimo di Maria Vergine. Da chi è nato? Da Maria Santissima, dal suo seno verginale; Madre di Dio quindi è Maria. E divenendo Madre restò Vergine! Come il raggio esce dalla fiamma, come il profumo esce dal fiore, come la parola esce dalle nostre labbra così Gesù è uscito dal seno verginale di Maria. La parola non lacera il labbro nel passare, il profumo non altera punto l’integrità del fiore, il raggio niente toglie alla fiamma nell’uscirne. Come è nato? È nato bambino per amare i bambini, è nato povero per sposare la causa dei poveri; nasce in una spelonca, dice san Gregorio, per ricordarci che noi siamo stranieri e pellegrini su questa terra. Dove è nato? A Betlem di Giuda, che il Profeta predisse, la non ultima delle città sorelle della Palestina; nasce in una stalla. Lì si inaugura il regno universale di Gesù Cristo. Da oggi Betlem e Roma si contendono l’impero del mondo. Da oggi incomincia il tramonto dell’impero della forza, della tirannide, e s’inaugura l’impero della bontà, pace, fratellanza universale! Perché nasce? Per salvarci. Il Nato è il Salvatore. Nasce per salvare l’individuo, la famiglia, la società. Salvò l’individuo: l’uomo per la colpa era decaduto in uno stato deplorevole di miseria. Ferita la sua intelligenza, indebolita la volontà, corrotto il cuore, il corpo stesso era rimasto vittima della degradazione, l’anima aveva perduto la vita della grazia; gli ornamenti soprannaturali avevano lasciato il posto all’ignominia più spaventosa. E Gesù Salvatore: 1° salva l’intelligenza dagli errori mediante la luce della fede; 2° comunica alla volontà una forza invincibile e la sublima fino alle più eminenti virtù; 3° salva il cuore dalla corruzione, dall’amore sregolato delle creature, accendendovi il fuoco della divina carità; 4° preserva il corpo dall’abbiezione del vizio, mediante la virtù angelica; 5° ritorna all’anima il suo pregio e la sua bellezza, rendendola alla vita della grazia; 6° cancella l’ignominia che deturpava la sua persona, mediante la grandezza della vita divina, di cui lo fa partecipe qui in terra colla sua grazia, ed in cielo colla gloria. Gesù Cristo salvò la famiglia sia dal divorzio come dalla poligamia, i due disordini nei quali era degenerata e la salva da altri gravi guai che la tiranneggiavano: la eleva a santuario, ed innalza il matrimonio alla dignità sublime del sacramento. Gesù Cristo, salva la società, che, quando nacque, era in uno stato lacrimevolissimo. In alto c’era il dispotismo e la tirannide; in basso la schiavitù. In alto c’era l’arbitrio, il capriccio, la tirannia nel potere, la crudeltà. In basso c’era una massa di popolo oppressa dall’iniquità, elencata come un armento, disprezzata, calpestata. Ora la distruzione del dispotismo, l’abolizione della schiavitù, la condanna del sensualismo noi le dobbiamo a Gesù Cristo, che ci recò la fratellanza cristiana, la carità cristiana, universale! «Venite, adoremus, et procedamus ante Deum!». Figlioli, venite a ringraziare l’Incarnato Bambino, ad adorarlo, a prostrarvi innanzi a Lui, a consacrarvi a Lui; giurandogli di riconoscerlo, di amarlo, e di servirlo sempre in questa vita terrena il Divin Salvatore, e pregando insieme la Madre Sua, a mostrarvelo, il grazioso frutto del suo seno verginale dopo le amarezze, le lagrime del nostro esilio terreno! È il Natale! Il padre ai figli, il pastore alla greggia, l’Uomo di Dio al popolo da Dio redento porge gli auguri più fervidi e più cordiali, che il Natale di Gesù abbia larga e decisiva risonanza nei vostri cuori e segni il principio della vostra rinascita spirituale fervorosa, operosa, cristiana!

Il tempo di Natale, in senso molto largo sarebbe il periodo di quaranta giorni dell’anno liturgico che decorre dal 25 dicembre al 2 febbraio; ma in senso proprio è invece quel periodo di tempo che va dal 25 dicembre alla festa dell’Epifania. In questo tempo la Chiesa vuol dare ai fedeli una chiara, altissima idea del Salvatore già nato, e fare ad essi conoscere la sublime importanza, e le grandi, vaste e benefiche conseguenze della sua venuta nel mondo, tanto per ciò che riguarda lo stabilimento della Chiesa in generale, come per ciò che riguarda ciascun uomo in particolare. Per questi fini altissimi la Chiesa raccoglie in questo tempo i fedeli intorno alla culla del Bambino per meditare le sue virtù e per imitare i suoi esempi. Per corrispondere occorre compiere il rinnovamento interiore, rinnovamento che somigli ad una nuova nascita. Nella festa del S. Natale si celebrano tre SS. Messe per onorare le tre nascite del Signore; la nascita eterna, la nascita temporale, la nascita spirituale. Il Vangelo della 1a Messa ricorda la nascita temporale a Betlemme; quello della 2a Messa ricorda la nascita spirituale nelle anime dei fedeli, rappresentati alla culla di Gesù dai pastori; il Vangelo della 3a Messa richiama la nascita eterna del Verbo. Nella domenica poi che cade fra l’ottava del S. Natale ci si fa conoscere Gesù Cristo colle grandi e terribili parole del vecchio Simeone, e colle benedizioni di Anna, come risurrezione dei buoni, come rovina dei cattivi, come gloria del vero Israele, affinché non si pensi essere la venuta sua indifferente ad alcuno. Nell’ottava del S. Natale poi si celebrano due grandi misteri, cioè la Circoncisione del Divino Redentore e l’imposizione che a lui fu fatta del nome adorabile di Gesù; ciò che appare chiaramente dal testo evangelico. Passiamo quindi, in questi giorni del S. Natale, «fino a Betlemme a vedere quello che il Signore ci ha manifestato» (S. Luca, II, 15-20); raccogliamoci sovente intorno alla culla di Gesù, la cattedra più sublime posta fra le genti. Diamo a Gesù la più tenera testimonianza di amore; teniamogli compagnia; per amor suo preghiamo di più, stiamo più devotamente in chiesa; ascoltiamo con più raccoglimento la sua divina parola; perdoniamo ai nemici; regaliamo qualche cosa alla Chiesa ed ai poveri. Gesù ci benedirà!