Un filologo australiano, invece, fece oggetto delle sue esperte ricerche alcune espressioni alquanto oscure che aveva rinvenute qua e là nella lettera; riuscì, fra l’altro, a fissare il significato di una sibillina frase della lettera che diceva, il conte Y ha le mani in pasta ed e un vero accidente: la scoperta fu che quel personaggio doveva essere un conte caduto in miseria, e perciò costretto a maneggiare la pasta facendo il fornaio; inoltre, se egli era chiamato un vero accidente, ciò dimostrava che quel personaggio non aveva più nella vita politica italiana alcuna «sostanziale» importanza, giacché il termine accidente significava - e qui il dotto filologo australiano citava a prova una congerie di testi di san Tommaso e d’altri scrittori medievali - quod non pertinet ad substantiam. - Anche più erudito si mostrò il direttore di un’accademia dell’Africa centrale, che in una conferenza, tenuta sotto un bel palmizio alla temperatura di 50 centigradi, ricorse ad argomenti sia storici che filologici per stabilire con sicurezza a che cosa alludesse il termine carbonari, che ricorreva più volte nella lettera. In primo luogo egli demolì in maniera definitiva l’opinione, comunemente seguita, d’un professore cinese, secondo cui i carbonari sarebbero stati una specie di casta mandarinale, contraddistinta da un lungo paludamento di seta nera brillante come il carbone, da cui il nome dei suoi membri. Niente affatto: l’accademico africano dimostrò invece che il termine doveva aver conservato il suo significato etimologico originario, e che si trattava di una vera corporazione di fabbricanti di carbone; ricorrendo poi ad argomenti storico - geografici, spiegò in maniera del tutto convincente che la straordinaria potenza politica della corporazione era dovuta al fatto che l’Italia, paese freddissimo, aveva un bisogno assoluto di carbone, e perciò quelli che lo producevano tenevano in mano le chiavi della vita economica sociale. - Infine, un dotto monaco buddista, che nel suo nevoso altopiano del Tibet si occupava molto di studi folkloristici, mise bene in rilievo alcune curiose usanze italiane attestate dalla lettera: ad esempio, quella di lavarsi ogni giorno e perfino di stare delle ore intere, durante i mesi di luglio e agosto, tuffati nelle onde sulla spiaggia del mare, e ne concluse che gl’italiani erano resistenti al freddo molto più che i Tibetani, i quali facevano a meno di lavarsi, e nei mesi di luglio e agosto preferivano di stare attorno a un buon fuoco; confrontò anche l’usanza delle donne italiane, di avere un solo marito, con quella delle donne tibetane, di averne fino a una dozzina, e vi fece sopra alcune considerazioni demografiche. E qui la storiella è finita. Il lettore probabilmente dirà che è una favola di cattivo gusto. Il gusto lo lascio giudicare a lui: a me preme solo far notare che non è punto una favola; è invece una parabola: e una parabola tanto verosimile, che è veramente avvenuta, benché sotto altro nome, in altre circostanze, e mutatis mutandis. La lettera ad Anthropos rappresenta la Bibbia, cioè la lettera di Dio all’uomo. Le vicende del testo della lettera corrispondono, in sostanza, alle vicende del testo della Bibbia. I commenti e le delucidazioni che hanno dato della lettera i dotti, assomigliano in modo impressionante a molti - non tutti - commenti e studi apparsi sulla Bibbia nelle ultime decine d’ anni; con la differenza che le ricostruzioni storiche d’indole giapponese e siamese sono il campo preferito degli studiosi tedeschi e di chi ne segue il metodo; invece, le delucidazioni varie di tipo australiano, africano e tibetano sono un campo assai più vasto, perché aperto a tutti gli incompetenti presuntuosi: nel cui numero entrano non soltanto « la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito», e compagnia bella, descrittaci da san Girolamo, ma molti e molti altri. Uh! quanti! Si leggano certi commenti sui libri storici della Bibbia, certi studi sull’origine e sviluppo della legislazione ebraica, che hanno dato il tono agli studiosi fino a questi ultimissimi anni, e poi si giudichi se l’identificazione del cardinale Garibaldi e lo sdoppiamento di Pio IX siano esempi isolati. Se poi il lettore avrà la pazienza di seguirmi fino in fondo, vedrà che le interpretazioni di mani in pasta, di accidente, di carbonari, e delle varie costumanze italiane, si trovano in larghissima compagnia.

«LOCUTUS EST IN PARABOLIS», parte 2. Da Bibbia e non Bibbia, ab. G. Ricciotti, Morcelliana, Brescia, 1935. SS n° 7, p. 5