Supponiamo a questo punto, per una rosea ipotesi, di avere fra mano il testo genuino della «lettera di Dio» nella sua perfetta integrità. Testo genuino tuttavia potrà essere, non solo quello in lingua originale, ma anche quello di una buona traduzione, antica o moderna che sia: è chiaro infatti che questa proposizione, E disse Dio: Sia fatta la luce!, ritrovandosi sempre uniforme e in tutte le copie e traduzioni della Bibbia, rimane genuina sia che io la legga nel suo testo originale ebraico, sia che la legga nelle traduzioni aramaica, o greca, o latina, o siriaca, o italiana, o francese. Per il nostro scopo pratico limitiamoci però al caso delle traduzioni, in cui oggi ordinariamente si legge la Bibbia, anzi in sostanza alla Vulgata latina, che è l’innocente causa di molti errori fra noi. Sul testo di questa traduzione - per ipotesi già restaurato con ogni mezzo della critica scientifica - noi vogliamo leggere la «lettera di Dio», per intendere con precisione ciò che Egli ci dice. Si tratta quindi di capirla bene, in primo luogo, filologicamente. È vecchio il bisticcio che ogni traduttore è un po’ il traditore del testo che sta voltando in altra lingua: è un tradimento involontario e inevitabile, tanto più quando le lingue sono di indole diversissima, come ad esempio l’ebraico e il latino. Se egli curerà di seguire il più da vicino il testo da cui traduce, rendendolo parola per parola, deformerà la lingua in cui lo volta - come fa l’antico traduttore greco Aquila, che è così letteralmente fedele all’ebraico da svisare il greco in cui traduce; se poi si sforzerà di rendere con precisione sopratutto i concetti, dovrà rassegnarsi a sacrificare in buona parte la corrispondenza verbale, essendo diverse nelle due lingue le espressioni, le movenze, la sintassi. San Girolamo ha giustamente seguito la via di mezzo fra la corrispondenza verbale e la fedeltà soltanto concettuale: nelle parti della Vulgata latina che sono sue (si rammenti particolarmente che i Salmi, ivi, non sono tradotti da lui) egli si preoccupò specialmente dell’esattezza e chiarezza del senso, ma subordinatamente a questo seguì quant’era possibile anche la parola dell’ originale; cosicché, mentre poteva scrivere a sant’Agostino: De ipso hebraico quod intelligebamus ex- pressimus, sensuum potius veritatem quam verborum [ordinem?] interdum conservantes (Epist. 112,19), e ad altri: Non debemus sic verbum de verbo exprimere, ut dum syllabas sequimur, perdamus intelligentiam (Epist. 106,29), poteva tuttavia rendere a se stesso questa testimonianza: Quamquam mihi omnino conscius non sim, mutasse me quidpiam de hebraica ventate (Prol. galeatus). Curò anche nei limiti del possibile l’eleganza latina della sua traduzione, come egli stesso confessa più d’una volta e come del resto era da aspettarsi dal suo inveterato amore per i classici latini; tuttavia, chi sia anche mediocremente esperto, riconosce a prima vista che egli traduce da un testo semitico. La costruzione è rimasta spesso semitica, spesso anche l’accezione dei vocaboli e il loro impiego: ed ambedue i fenomeni sono, per la critica, una fortuna. Nelle parti poi della Vulgata che non sono di san Girolamo, tali fenomeni si riscontrano anche più accentuati: la dipendenza di quel latino, mediatamente da un originale semitico e immediatamente da un testo greco, è visibilissima. Ora, tutti questi fatti hanno un’ importanza decisiva per noi che, attraverso questa traduzione, vogliamo leggere e comprendere la «lettera di Dio», e che c’imbattiamo per prima nella difficoltà filologica. Badiamo cioè che il traduttore non diventi per noi un innocente e involontario traditore; e tale diverrà, ma la colpa in tal caso sarà nostra, se noi lo leggeremo impreparati. Non basta sapere il latino, «un» latino qualunque: bisogna sapere «questo» latino. C’è un latino di Cicerone, come ce n’è uno di Cornelio Nepote; uno di Petronio l’Arbitro, e uno di Tertulliano; uno di Lattanzio, e uno di sant’Agostino: tutti con le loro caratteristiche, che li differenziano fra loro. Così pure c’è un latino di san Girolamo, ben caratterizzato: anzi, di lui ce ne sono due, uno dello scrittore, l’altro del traduttore. Quest’ultimo precisamente è il latino che bisogna qui conoscere. Un pericolo, particolare a noialtri italiani, è quello di tradurre, e quindi interpretare, a orecchio: si trova nel testo latino una data parola, che esiste tale quale anche in italiano, ed ecco che le si attribuisce senz’altro lo stesso senso che ha in italiano oggi. Pericolosissimo sistema: che è una vera trappola. Il ragazzo di scuola che trova in Cicerone altissimae radices, lo tradurrà probabilmente con altissime radici; trovando egli in Virgilio populare litora, lo renderà con popolare le spiagge; imbattendosi nella frase di Plinio, pavo, gloriosum animal, penserà che il pavone, così elegante, è davvero un animale glorioso; non diciamo poi come tradurrà l’altra frase di Plinio, sub aqua diu ranae et phocae urinentur, giacché quasi certamente egli non sa che quel benedetto verbo significa immergersi, nuotare sott’acqua. Questo succede ai ragazzi; ma non dobbiamo essere troppo severi con loro, giacché potrebbero prendersi una bella rivincita, oggi o domani che si accorgessero di non esser soli, bensì con larga compagnia di autori che traducono e interpretano la Vulgata con lo stesso sistema. Non c’è stato perfino chi ha interpretato disciplina nel senso dell’omonimo strumento monastico per flagellarsi, e meditatio per l’esercizio ascetico della meditazione? Si dirà: Sono casi vecchi. Veramente, ce ne sono anche di recenti che equivalgono. Gli scrittori ascetici ed i predicatori poiché ignorano queste cose [le particolarità filologiche della Vulgata], alle volte trattano la Sacra Scrittura in modo veramente orribile. Questo giudizio non pecca certo di reticenza o di timidezza; che poi corrisponda a verità può esser sufficientemente garantito, per chi non abbia una personale esperienza in proposito, dal fatto che chi lo ha emesso è un esperto biblista cattolico e per giunta membro della Pontificia Commissione Biblica. Possiamo quindi fidarci di lui. Ad ogni modo vediamo alcuni pochi casi, dei più frequenti ed importanti. ...

ATTENZIONE: L’Autore - Abate Giuseppe Ricciotti - non sta affatto incentivando il metodo storico-critico tipico dei modernisti. Tutto sarà chiarissimo leggendo, settimana dopo settimana, le pagine del suo libro, qui riportate per episodi. Abbiamo ritenuto opportuno precisarlo! (ndR)

«LINGUA ALTERA LOQUETUR AD POPULUM ISTUM», parte 1. Da Bibbia e non Bibbia, ab. G. Ricciotti, Morcelliana, Brescia, 1935. SS n° 11, p. 5