Se Dio vuole, siamo arrivati sulla cima dell’erto e faticoso monte. Abbiamo il testo genuino della «lettera di Dio»; siamo preparati ad interpretarla in maniera filologicamente esatta; siamo anche in grado di comprenderla nella sua vera luce storica. Che manca ancora? Niente. Basta leggere e capire; e sopratutto poi applicare a noi stessi gli insegnamenti paterni contenuti in questa lettera che ci giunge dal Padre nostro che è nei cieli, affinché la Sua volontà sia fatta come nei cieli così in terra. C’è tuttavia un pericolo: quello di «ruinare in basso loco». Siamo su una cima dove, come Mosè, abbiamo trovato Dio; c è pericolo che una vertigine qualsiasi ci faccia scivolare nuovamente in basso, sottraendoci a Dio e rigettandoci in braccio all’uomo. Noi invece, quando si tratta della «lettera di Dio», vogliamo Dio soltanto; l’uomo, piccino e fastidioso, lo cacciamo via inesorabilmente come un intruso. Quando sorge questo pericolo? Finché io aderisco verbalmente e concettualmente al testo genuino, nessun pericolo: è Dio che parla. Tuttavia io posso aderirvi verbalmente, ma non concettualmente; posso salvarne le nude parole, ma perderne il concetto; posso, in altri termini, ritenere di un dato passo della «lettera di Dio» il solo involucro esteriore, ma abbandonarne il contenuto interiore. In tal caso, è ancora Dio che parla? Evidentemente no. Siamo entrati, come ognuno vede, nella celebre questione del «senso accomodatizio», che ha fatto scorrere i soliti famosi e inutili fiumi d’inchiostro. Ripetiamo intanto, per evitare ogni incertezza, che il senso accomodatizio non è il vero senso della «lettera di Dio», quindi in esso non parla Dio. Parla l’uomo: ecco perciò che «ruiniamo in basso loco». Anche qui, per rassicurare gli animi pusilli, ricorriamo ad autorità superiori ad ogni dubbio. «Chiunque capisce facilmente che questo [l’accomodatizio] non si deve né si può ritenere come il senso delle Scritture, e che le loro testimonianze addotte in senso accomodatizio a provare alcunché, non godono a tal riguardo di nessuna autorità divina» (F. S. Patrizi, Institutio de interpretatione Bibliorum, 2a ediz., Romae 1876, p. 273). Altri ripete lo stesso, precisando ancor più, e definendo in che consista questo senso: «Il senso accomodatizio si ha, se le parole della Scrittura vengono applicate a cose diverse da quelle che l’autore sacro volle significare. Da ciò è chiaro che l’accomodazione non è propriamente il ‘senso’ della Scrittura; tuttavia questo nome è ormai introdotto dall’uso comune» (H. Höpfl, Tractatus de inspirat., citato, p. 140). Ottimamente; se dunque non è il senso della «lettera di Dio», sarà quello dell’uomo, come dicevamo sopra. E qui, a costo anche di anticipare, s’impone una riflessione. Se scorriamo qualcuno dei libri ascetici e talvolta anche apologetici che vanno per le mani di tutti, vi troveremo moltissime citazioni della Bibbia. Ottima cosa - penseremo subito - è il libro umano che s’appoggia sul libro divino. Se però andremo a «ficcar lo viso in fondo» a quelle citazioni, e ricercheremo con che sistema sono fatte, troveremo che la loro massima parte è fatta col sistema accomodatizio. Anche questo sistema, come vedremo subito, è lecito: sta bene; tuttavia bisogna guardarsi bene dal prendere quelle citazioni come sonante moneta divina: alla banca del regno dei cieli quella moneta non è accettata, perché è riconosciuta emessa dalla banca dei figli dell’uomo. Perciò, se quelle citazioni sono fatte allo scopo di provare una data verità teologica o ascetica, esse - se vogliamo credere al Patrizi - non godono a tal riguardo di alcuna autorità divina. In esse parla l’uomo, non Dio: quindi la questione per cui sono citate non è affatto risolta, e all’uomo potrà sempre rispondere in contrario un altro uomo. Ciò valga ancora una volta a dare unicuique suum: a rassicurare spiriti timidi e dubbiosi: e anche a smontare quella prosopopea biblica che taluni di siffatti scrittori sembrano attribuirsi, rinfronzolendosi di citazioni bibliche. Niente affatto: non è punto la Bibbia quella che voi citate, è produzione vostra; tutt’al più per esprimere questa vostra produzione voi vi servite di parole della Bibbia, che potreste trovare in qualunque suo vocabolario, ma i concetti sono poveri concetti umani vostri: mentre, quando io voglio afferrare l’insieme dei concetti della Bibbia non ricorro punto ad un suo vocabolario. Rimane il fenomeno dell’abbondanza di citazioni accomodatizie in siffatti libri ascetici. La questione è complessa, e anche delicata. Il meno che si può dire con sicurezza è che si fa così perché non si sa far di meglio, giacché a far di meglio sarebbero necessarie tutte quelle cognizioni testuali, filologiche e storiche, che abbiamo viste sopra e che solo pochi posseggono. Eppure, di quanto maggiore efficacia e di quanto più elemento divino godrebbero quei libri se vi si sostituissero 100 citazioni accomodatizie con 100 in senso letterale - storico, e si lasciasse parlare la grandezza di Dio a preferenza della piccolezza dell’uomo! Può esser malinconico questo rilievo, ma tant’è: non si sa ascoltare Dio, quindi si fa parlare l’uomo. Molte volte, infatti, quella stessa verità che si vuole illustrare - non dico, provare - con una citazione accomodatizia, si potrebbe rigorosamente provare con una citazione letterale - storica della Bibbia: tutto sta a trovarcela; ma non si trova perché, troppo spesso, la «lettera di Dio» è conosciuta poco e male. Codesti scrittori ascetici e apologetici hanno lo scopo precipuo di far conoscere sempre meglio il Cristo: scopo eccellentissimo, da tutti desiderato! Ma quanto meglio non lo raggiungerebbero essi, se fossero in grado di utilizzare la Scrittura più efficacemente, conoscendola più profondamente? Giacché sta di fatto - ed è anche qui il solito Girolamo che lo afferma - che ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est (In Isaiam Prol.). E, dopo questa anticipazione, torniamo al nostro argomento. Di citazioni accomodatizie se ne possono fare di ogni genere e di ogni scritto. Noi italiani, per una ragione evidente, saccheggiamo la Divina Commedia e adattiamo Dante a tutte le circostanze: lo citiamo a ragione e a torto; in senso esatto e in senso accomodatizio; in senso accomodatizio nobile, dignitoso, spontaneo, opportuno, spiritoso, ma spesso anche stiracchiato, insulso, falso, non di rado indecoroso, e talvolta perfino osceno. Se un predicatore, in un sermone sul Paradiso, cita il verso O felice colui, cui ivi elegge! fa una citazione in senso esatto, perché Dante in quel verso parla appunto del Paradiso. Per la stessa ragione sarà invece una citazione accomodatizia, più o meno spiritosa, se quel verso è applicato, supponiamo, all’ elezione di un Tizio a membro di un’illustre accademia: è chiaro, infatti, che Dante non ha pensato né a Tizio né all’accademia, e quindi la citazione sarà concettualmente falsa, tollerabilmente accomodatizia. La terzina: Temer si dee di sole quelle cose - Ch’hanno potenza di fare altrui male: Dell’altre no, che non son paurose … è un enunciato generico, applicabile a tutti i casi compresi nei suoi concetti: quindi essa verrà citata sempre in senso esatto in ognuno di tali casi, anche se non è quel caso speciale per cui Beatrice la recita. Si avrà invece un’evidente accomodazione se un tale, narrando come fosse introdotto da un domestico nell’appartamento privato di qualche principe, ricorresse a quel verso Mi mise dentro alle segrete cose; giacché non è detto che tutti i principi stiano all’Inferno, del quale Dante unicamente intende qui parlare. D’una festa solenne che richiami gente da paesi vicini, si potrà dire bonariamente Tutti convengono qui d’ogni paese; ma sarebbe indecoroso applicarlo - come fece una volta un giornalista cattolico - all’anno del Giubileo, che richiama a Roma i fedeli delle più lontane regioni: Dante infatti a quel verso parla dei dannati e dell’Inferno…