È forse necessario, dopo la semplice esposizione, ribattere le difficoltà che abitualmente si muovono contro la dottrina del peccato originale? Non lo credo, perché esse son prive di significato.  Chi oppone: «per un pomo doveva essere così enormemente castigata tutta l’umanità?», non riflette che non si trattava d’un frutto, ma di ben altro! Anche nel Medio Evo, quando le città erano circondate di mura, un imperatore che poneva un assedio e vinceva, esigeva che si portassero a lui in segno di omaggio le chiavi della città espugnata; ma a nessuno frullava nel cervello l’obiezione: «Come? si è fatta una guerra per un mazzo di chiavi?... Andate dal fabbro e vi darà chiavi a volontà!...». No, nessuno oserebbe pronunciare simili scipitaggini. Le chiavi - e nel caso nostro il frutto proibito - significavano un atto di sudditanza, il cui valore non può esser confuso con un po’ di ferro o con la mela, tanto più che l’astenersi dal frutto di un solo albero, in mezzo alla ricchezza del paradiso terrestre, non doveva esser tanto difficile. La prova, quindi, a cui da Dio furono sottoposti i nostri progenitori, se era grave per il precetto, e per la materia del precetto - ossia per l’obbedienza, non era grave per le difficoltà nell’osservarlo; e per questo Adamo ed Eva non trovarono per il loro peccato una scusa che valesse. Ancora: a coloro che obbiettano non essere giusto che noi soffriamo per una colpa non nostra, dopo l’esposizione fatta non dev’essere arduo rispondere. Supponiamo - scrive S. Tommaso nel suo Compendium Theologiae - che un re conceda ad un suo vassallo un feudo per lui e per tutta la sua discendenza, ma alla condizione che il vassallo non gli rifiuti un atto di fedeltà. Se il vassallo obbedirà, possederà per sempre il feudo ricevuto e potrà tramandarlo alla sua posterità; ma se manca di fedeltà, il re toglie a lui ed alla sua posterità il feudo. Nessuno dei figli del vassallo ribelle potrà dire che il re fu ingiusto, anche, fra l’altro, per la ragione che nessuno di essi aveva il diritto di possedere il feudo. Così avvenne di Adamo e di noi. Non un feudo, ma i doni soprannaturali e praeternaturali erano stati concessi ai nostri progenitori, ad una condizione; questa venne da essi calpestata; e noi ne subiamo le conseguenze. Anche oggi, del resto, non subiscono i figli le conseguenze delle colpe o dei meriti del padre? L’umanità non è un ammasso di atomi, di individui staccati, ma un’unità organica, dove il bene di uno è il bene di tutti ed il male di uno si ripercuote su tutto l’organismo sociale. Se poi, finalmente, qualcuno insistesse e si stupisse o volesse irritarsi contro i progenitori nostri, per avere essi per un frutto rinunciato alla vita soprannaturale, sarebbe il caso di invitarlo a mettersi una mano alla coscienza ed a chiedersi: - ed io, non rinuncio, forse agli stessi beni d’un valore infinito per una bazzecola, per un’inezia? Quanti peccati mortali commessi per meno ancora d’una mela! Quante primogeniture vendute per un piatto di lenticchie! Quest’ultima riflessione ci porta ad aggiungere una breve parola sui nostri peccati personali, sulle colpe dei singoli discendenti di Adamo ed Eva. Il peccato. È noto che i peccati nostri possono essere mortali o veniali, secondo che sono trasgressioni gravi o leggere della legge morale; è pure noto che perché ci sia un peccato mortale occorre: a) una materia grave; b) una piena avvertenza; c) un perfetto consenso; finalmente, nessuno ignora che solo il peccato mortale ci toglie la grazia santificante, e si chiama appunto mortale, perché dà la morte all’anima nostra, privandola del principio della sua vita soprannaturale. Ma forse non è parimenti conosciuta la natura, e perciò, l’enormità dei nostri peccati personali, da ben distinguersi dal peccato originale, in quanto di quest’ultimo non abbiamo una personale responsabilità (tanto che se un bambino muore senza battesimo, pur essendo certo che egli non ottiene la visione di Dio, è certo anche che non cade nell’inferno - va al Limbo, ndR). Per capire cos’è il peccato, bisogna partire dal fatto che Dio, l’Essere perfettissimo, ha creato tutti gli esseri, e questi per la loro stessa natura hanno fra loro e con Dio dei rapporti, che costituiscono l’ordine. Il peccato non è se non la rottura di quest’ordine, voluto da Dio. Così, ad esempio, una bestemmia è peccato, perché l’ordine vuole che la creatura adori e lodi il Creatore; il bestemmiatore, al contrario, insulta il suo Dio. L’impurità e la disobbedienza sono peccati, perché colpiscono l’ordine; e così si ripeta di ogni colpa. Ogni colpa è essenzialmente disordine. 1. - La gravità del peccato. Un tale disordine, lo possiamo considerare da tre punti di vista: a) Dal punto di vista del soggetto, ossia dell’uomo, che rompe l’armonia; e qui abbiamo il grado di responsabilità della coscienza colpevole, e conseguentemente la pena intima del rimorso, proporzionata alla colpevolezza soggettiva del singolo. In questo senso è vero che il vizio porta con sé il suo castigo, come la virtù ha immanente a sé il suo premio. b) Dal punto di vista delle cose, ossia dell’ordine rovinato; e qui sorge il problema del male, la cui soluzione sta in ciò che Dio permette il male (che è sempre fondato in qualche bene, in quanto il puro male sarebbe il nulla), perché dal disordine da noi colpevolmente causato, Egli sa ritrarre il bene. Don Rodrigo è colpevole inducendo l’Innominato a rapire Lucia, come Nerone è colpevole perseguitando i cristiani; ma Dio si serve del male prodotto dal primo per la conversione dell’Innominato stesso, e del sangue versato dai cristiani per la conversione del mondo. In altre parole: la Provvidenza, nonostante i disordini soggettivi, - che non esclude nelle cose che governa, ma permette - riporta l’ordine, sempre. c) Dal punto di vista di Dio, - poiché chi rompe l’ordine voluto da Dio, in ultima analisi si ribella al Creatore dell’ordine. È vero che un ladro può rubare, non per offendere Dio, bensì per amore delle ricchezze altrui; ma così facendo, siccome non rispetta la volontà divina, offende Dio. Anzi, ogni e qualsiasi peccato implica la negazione di sudditanza a Dio e quasi attenta a Lui stesso, che è ordine assoluto. E tutto questo vale tanto nell’ordine naturale, quanto nell’ordine soprannaturale. Qual è, allora, la gravità d’un peccato mortale? a) Dal primo punto di vista, il peccato ha una gravità finita, poiché la nostra responsabilità è sempre limitata; il nostro atto è finito. b) Dal secondo punto di vista, poi, la gravità è indefinita, poiché ogni male commesso può paragonarsi ad un sassolino lanciato nel lago della società, che produce onde concentriche sempre più allargantisi. L’effetto d’un cattivo esempio non si limita a chi lo riceve, ma esercita un influsso indefinitivamente vasto. Comunque anche qui siamo dinnanzi ad una gravità limitata. c) Dal terzo punto di vista, invece, la gravità di un peccato mortale è infinita. E la dimostrazione la dà S. Tommaso con la sua abituale chiarezza. La gravità d’una colpa - nota il grande Dottore - si misura dalla dignità della persona offesa. Così, ad esempio, - il commento, a scanso di equivoci, è mio - Bertoldino, andando sotto le armi, quando diede del «cretino» ad un suo compagno, semplice soldato come lui, non fu punito; quando ripeté la stessa insolenza al suo caporale, ebbe 10 giorni di consegna; quando la urlò contro il suo sergente, ebbe la prigione di rigore; ed avendola ridetta al tenente, al colonnello, al generale, al re, ebbe sempre pene maggiori. Egli protestava e ragionava così: - La mia colpa è sempre identica; io non dico mai se non questa parola: «cretino»; perché dunque questa diversità di pene e di castighi? È un’ingiustizia bell’e buona. - Essendo egli un Bertoldino, non sapeva capacitarsi che la gravità dell’offesa la si deduce soprattutto dalla dignità della persona ingiuriata; eppure la cosa è evidente. Orbene, quando noi commettiamo un peccato, Colui che viene offeso è Dio, d’una dignità infinita. La gravità, dunque, del peccato, è in certo qual modo infinita. E questo, fra l’altro, spiega l’eternità dell’inferno: ad una colpa di una gravità infinita risponde una pena eterna. Lo stato del peccatore. Da quanto abbiamo accennato, appare tutta la tragicità della condizione dell’uomo peccatore. Da una parte essendo creato da Dio e destinato ad essere Suo figlio, l’uomo tende a Dio; dall’altra, col peccato ha un debito di una gravità infinita da saldare ed ha perduto una grazia che non appartiene all’ordine naturale, ma supera tutte le forze della natura. L’uomo peccatore - di conseguenza - è simile ad un’aquila che vorrebbe volare verso il sole, ma alla quale fossero state tagliate le ali. S. Caterina - sempre geniale - nel suo Libro della divina Dottrina, ha un pensiero felicissimo. Fra il cielo e la terra, fra l’uomo e Dio, v’è un ponte ed il peccato lo spezza. Dopo la rottura di questo ponte per colpa di Adamo in riguardo all’umanità - e per colpa di ogni e qualsiasi nostro peccato mortale in riguardo a noi - siamo impotenti ad ottenere il perdono, a ricongiungere ancora la terra col cielo. E noi, allora, ci rivolgiamo alle cose create, amandole e possedendole fuori di Dio e contro di Dio. «Queste cose create rassomigliano alle acque che continuamente corrono, e l’uomo  è trascinato come lo sono esse. Egli crede che passino le cose create che ama, ed è lui che va continuamente verso la morte. Vorrebbe tener sé e le cose che ama, ma tutto gli sfugge» e va verso «l’eterna dannazione». Dobbiamo, adunque, disperarci? No, perché diceva il Signore alla santa: «Del Figliuolo mio ho fatto un ponte, affinché tutti possiate giungere al fine vostro...  Guarda il ponte dell’Unigenito mio Figliuolo e vedrai la Sua grandezza che si estende dal cielo alla terra, avendo unita con la grandezza della Deità la terra della vostra umanità... Questo ponte è levato in alto e non è separato dalla terra. Lo sai quando si levò in alto? Quando fu levato sul legno della santissima Croce, non separandosi più la natura divina dalla bassezza della terra della vostra umanità...». A questo ponte di vita dobbiamo ora rivolgere lo sguardo lieto: a Gesù Cristo, Re della storia.

Riepilogo. Nella scala degli esseri - dalla materia sino a Dio - noi troviamo gli Angeli e l’uomo. La storia, sia degli Angeli, come dell’uomo, ci presenta la loro elevazione allo stato soprannaturale e la caduta. 1. Quanto agli Angeli, non tutti caddero. I ribelli furono condannati all’inferno e sono i demoni che ci assalgono con le tentazioni; gli Angeli, invece, fedeli alla prova, sono eternamente beati nella felicità soprannaturale e molti di essi sono nostri custodi. Come dobbiamo respingere gli assalti dei primi, così dobbiamo ricordare e pregare gli Angeli Custodi. 2. Anche l’uomo venne creato, elevato allo stato soprannaturale e sottoposto ad una prova. I nostri progenitori rappresentavano tutta l’umanità ed avevano una triplice classe di doni: a) naturali; b) praeternaturali; c) soprannaturali. Ribellandosi a Dio, essi perdettero per sé e per tutta la loro discendenza i doni praeternaturali e soprannaturali. Noi, quindi, nasciamo oggi col peccato originale, ossia senza la grazia, che avremmo dovuto avere. Veniamo, cioè al mondo, non con una natura divinizzata, ma con una natura decaduta. 3. La gravità del peccato dei progenitori e di ogni peccato grave, se è finita dal punto di vista del soggetto ed è indefinita dal punto di vista degli effetti, è infinita dal punto di vista di Dio. La gravità, infatti, d’una colpa è in proporzione alla dignità della persona offesa; ed essendo Dio - ossia l’infinito - Colui che è offeso, è evidente che la gravità d’un peccato mortale è in certo qual modo infinita. L’uomo decaduto, di conseguenza, si trovava nell’impossibilità di riparare adeguatamente al male fatto ed alle disastrose conseguenze, poiché non c’è proporzione fra le sue forze finite da un lato, e la gravità infinita del peccato, come anche l’ordine soprannaturale perduto, dall’altro. Il Redentore promesso rende possibile la soluzione del problema. Per questo Egli divenne il centro della storia.