Teologia Politica n° 27. La questione dell’immigrazione secondo la Chiesa cattolica

Le questioni dell’immigrazione e dell’accoglienza, particolarmente sentite ai nostri giorni, furono affrontate con sapiente lungimiranza dalla Chiesa e, a seguito della civilizzazione dei popoli, dai nobili Sovrani e Principi cattolici.

Si rassegnino i negazionisti di professione, gli scribacchini pseudo storici ed i tanti tuttologi rigurgitati dalle logge che hanno in odio le legittime Autorità, poiché la Chiesa, in quanto designata custode della morale (2° diritto/dovere) e vigile dell’ordine sociale, ha sempre indirizzato i Re ed i Governanti alla responsabile amministrazione delle migrazioni.

I tanti muri che le Comunità erigevano, tutti insieme, figuravano, sotto il segno della Croce, quella equilibrata carità tanto gradita a Dio, parimenti così fruttuosa per i popoli dell’Impero. Così fu e così è stato, a tratti più o meno evidenti, fin dal fatidico episodio di Ponte Milivio con la frase narrata da Eusebio di Cesarea nella Vita di Costantino: «In hoc signo vinces»!

San Pietro ha affermato: “È proprio vero che Dio non fa distinzione di persone; ma che tra qualunque gente, chi lo teme e pratica la giustizia gli è accetto” (S. Th. Iª-IIae q. 105 a. 3 arg. 1). Nell’Esodo si legge: “Non opprimere il forestiero e non l’affliggere: anche voi infatti foste forestieri nella terra d’Egitto”; ed ancora: “Non darai molestia al forestiero: voi infatti conoscete il suo stato d’animo, perché foste voi pure forestieri in Egitto” (Ibid., 3 arg. 3).

Spiega l’Angelico che «a quelli che sono più vicini dobbiamo mostrare un affetto e un amore più grande», secondo le parole dell’Ecclesiastico: “Ogni animale ama il suo simile: così come ogni uomo il suo vicino” (a. 3 arg. 4). La società dove si “ama” troppo il lontano a discapito del vicino dimostra, difatti, di essere crudele: usa la filantropia per “ripulire”, certo solo apparentemente, le coscienze!

L’Aquinate insegna: «Con gli stranieri ci possono essere due tipi di rapporti: l’uno di pace, l’altro di guerra». Infatti «gli ebrei avevano tre occasioni per comunicare in modo pacifico con gli stranieri. Primo, quando gli stranieri passavano per il loro territorio come viandanti. Secondo, quando venivano ad abitare nella loro terra come forestieri». E sia nell’un caso come nell’altro «la legge impose precetti di misericordia; infatti nell’Esodo si dice: “Non affliggere lo straniero”; e ancora: “Non darai molestia al forestiero”». Terzo: «quando degli stranieri volevano passare totalmente nella loro collettività e nel loro rito. In tal caso si procedeva con un certo ordine».

Veniamo al terzo caso (di pace). Il sommo san Tommaso asserisce: «[…] non si ricevevano subito come compatrioti: del resto anche presso alcuni gentili era stabilito, come riferisce il Filosofo, che non venissero considerati cittadini, se non quelli che lo fossero stati a cominciare dal nonno, o dal bisnonno. E questo perché, ammettendo degli stranieri a trattare i negozi della nazione, potevano sorgere molti pericoli; poiché gli stranieri, non avendo ancora un amore ben consolidato al bene pubblico, avrebbero potuto attentare contro la nazione» (Iª-IIae q. 105 a. 3 co.).

Ecco perché, dice il Dottore, la legge stabiliva «che si potessero ricevere nella convivenza del popolo alla terza generazione alcuni dei gentili che avevano una certa affinità con gli ebrei: cioè gli egiziani, presso i quali gli ebrei erano nati e cresciuti […] Invece alcuni, come gli ammoniti e i moabiti, non potevano essere mai accolti, perché li avevano trattati in maniera ostile. Gli amaleciti, poi, che più li avevano avversati […] erano considerati come nemici perpetui; infatti nell’Esodo si legge: “La guerra di Dio sarà contro Amalec, di generazione in generazione”».

Qualcuno «poteva essere ammesso nella civile convivenza del popolo con una dispensa, per qualche atto particolare di virtù: si legge infatti nel libro di Giuditta, che Achior, comandante degli Ammoniti, “fu aggregato al popolo d’Israele, egli e tutta la discendenza della sua stirpe”» (a. 3 ad 1).

 Come insegna il Filosofo, commemora l’Aquinate, si può essere cittadini (di uno Stato) in due maniere: «primo, in senso pieno e assoluto; secondo, in senso relativo. È cittadino in senso pieno chi ha la facoltà di compiere le funzioni dei cittadini; e cioè di partecipare ai consigli e ai giudizi del popolo. È invece cittadino in senso relativo chiunque abita in uno stato» e […] «non [è] in grado di trattare le cose che interessano la comunità». Ecco perché «spurii, propter vilitatem originis, excludebantur ab Ecclesia, idest a collegio populi, usque ad decimam generationem» (Iª-IIae q. 105 a. 3 ad 2).

Papa Pio XI nella Studiorum Ducem (29 giugno 1923) comanda: «Come dunque un giorno fu detto agli Egiziani, nel loro estremo bisogno di vivere, “Andate da Giuseppe” perché avessero da lui in abbondanza il frumento per alimentare il loro corpo, così ora a tutti gli affamati di verità Noi diciamo: “Andate da Tommaso” (san Tommaso d’Aquino testé citato, ndA) per aver da lui, che ne ha tanta abbondanza, il pascolo della sana dottrina e il nutrimento delle loro anime per la vita eterna» (cf. Officiorum omnium, Pio XI; Aeterni Patris, Leone XIII; Doctoris Angelici, san Pio X).

Carlo Di Pietro da Imola Oggi

Articolo proposto a ControSenso ma non pubblicato