Comunicato numero 80. Il grande Sinedrio e la Sinagoga all’epoca di Gesù

Stimati Associati e gentili Sostenitori, andiamo avanti nello studio dei capitoli: «Il gran Sinedrio» e «La Sinagoga» all’epoca di Gesù. Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• § 57 Dopo il sommo sacerdozio, l’istituzione massima del giudaismo ai tempi di Gesù era il gran Sinedrio, supremo consesso nazionale-religioso. Sebbene la tradizione rabbinica ne attribuisca la fondazione a Mosè, le sue vere origini non risalgono più in su del secolo II av. Cristo, allorché i monarchi Seleucidi, che dominavano in Palestina, sancirono anche in Gerusalemme la forma di governo locale già in vigore in molte città ellenistiche: attribuirono, cioè, autorità legale al consiglio degli anziani che presiedeva agli affari della città, riconoscendo ad esso la potestà di legiferare in materia civile e religiosa subordinatamente al supremo potere monarchico; quindi le decisioni di quel consiglio, come della città principale del giudaismo, ebbero valore normativo anche per altri centri giudaici della monarchia Seleucida, sebbene questi avessero e conservassero i loro consigli locali chiamati anch’essi «sinedri» (cfr. Matteo, 10, 17; Marco, 13, 9). Il gran Sinedrio, dunque, sorse come forma di governo limitatamente autonoma concessa da monarchi stranieri: era perciò inevitabile che la sua autorità effettiva diminuisse, qualora sorgessero o una monarchia nazionale o un potere dispotico interno. Così, difatti, avvenne dapprima sotto i nazionali Maccabei-Asmonei, allorché il gran Sinedrio godé di vera potenza nei periodi in cui declinava quella della monarchia, e più tardi sotto il dispotico Erode, allorché al gran Sinedrio non rimase che un’ombra di potere. Al contrario, sotto i procuratori romani l’autorità del gran Sinedrio crebbe grandemente; i Romani, infatti, seguendo anche in Palestina la loro norma costante di lasciare ai popoli soggetti una libertà ch’era piena nel campo religioso e subordinata in quello degli affari civili interni, trovarono che al gran Sinedrio di Gerusalemme si poteva opportunamente affidare l’amministrazione di questa doppia libertà; inoltre il gran Sinedrio era composto in prevalenza di tre elementi aristocratici, che nelle province erano graditi ai Romani ben più degli innovatori rappresentanti del basso popolo.

• § 58. Il gran Sinedrio era composto di settantun membri, compreso il presidente ch’era il sommo sacerdote. I membri si spartivano in tre gruppi. Il primo gruppo era formato dai «sommi sacerdoti», e comprendeva sia coloro che erano già stati insigniti di tale ufficio, sia i membri principali delle famiglie da cui erano stati estratti i sommi sacerdoti; era dunque il gruppo dell’aristocrazia sacerdotale, seguace di princìpi sadducei, e il più potente ai tempi di Gesù. Il secondo gruppo era formato dagli Anziani, rappresentanti l’aristocrazia laica; erano quei cittadini che, per il loro censo o per altre ragioni, avevano acquistato un’autorità eminente nella vita pubblica e quindi potevano recare un contributo efficace nella direzione degli affari. Anche costoro appartenevano alla corrente sadducea. Il terzo gruppo era quello degli Scribi, o Dottori della Legge: formato in massima parte da laici e da Farisei (§ 41), contava tuttavia fra i suoi membri taluni sacerdoti e Sadducei. Era il gruppo popolare e dinamico per eccellenza, di fronte agli altri due aristocratici e statici: per conseguenza, con la catastrofe dell’anno 70, gli altri due gruppi scomparvero travolti dalla reazione popolare, e il gran Sinedrio restò costituito da soli Scribi. La giurisdizione del gran Sinedrio s’estendeva, in teoria, sul giudaismo di tutto il mondo: in pratica, ai tempi di Gesù, la sua autorità era ordinaria ed efficace in Palestina, straordinaria e fiacca nelle comunità giudaiche che stavano fuori della Palestina, e risultava tanto più debole quanto più queste comunità erano esigue o lontane. A quel supremo consesso nazionale i Giudei lontani ricorrevano solo eccezionalmente, di solito quando non potevano ottenere giustizia dai consessi o sinedri locali.

• § 59. Qualsiasi causa religiosa e civile, avente attinenza con la Legge giudaica, poteva essere giudicata dal gran Sinedrio; ma, nelle varie epoche, avvennero in pratica le limitazioni di potere che già rilevammo. All’epoca dei procuratori romani le sentenze del gran Sinedrio avevano senz’altro valore esecutivo, e potevano essere applicate anche con ricorso alle forze di polizia giudaica o romana: soltanto un caso Roma aveva sottratto alla potestà esecutiva del gran Sinedrio, ed era il caso di sentenza capitale, la quale poteva bensì essere pronunziata da quel consesso, ma non già eseguita se non fosse stata individualmente confermata dal magistrato rappresentante di Roma. Del resto era una solenne norma giudiziaria di evitare il più possibile sentenze capitali, e sembra che effettivamente questa norma fosse seguita e che condanne a morte fossero rarissime; rabbini affermarono che un Sinedrio era troppo severo e rovinoso se pronunziava una sentenza capitale ogni sette anni, anzi secondo Rabbi Eleazar figlio d’Azaria ogni settanta anni, mentre Rabbi Tarphon e Rabbi Aqiba asserivano: Se noi fossimo membri del Sinedrio, nessuno mai verrebbe messo a morte (Makkoth, 1, 10 - Anche in questo caso stiamo adattando alcuni caratteri, ndR). Il Sinedrio era convocato dal sommo sacerdote, e teneva le sedute in un luogo chiamato l’«aula della pietra squadrata», ch’era situato presso l’angolo sud-occidentale del Tempio interno, quello accessibile ai soli Israeliti (§ 47); da quell’aula, verso l’anno 30 dopo Cr., si sarebbe trasferito in un luogo chiamato «taverna» , ma della situazione di questo luogo non si sa nulla e forse la notizia è inesatta. In casi speciali d’urgenza il Sinedrio poteva essere convocato anche nella dimora del suo presidente, il sommo sacerdote. Nei giorni di sabbato o di festività non si tenevano sedute.

• § 60. Ecco poi alcune notizie rabbiniche circa le usanze delle sedute e le norme dei processi. Il Sinedrio sedeva a semicerchio, in modo che (i suoi membri) si potevano vedere fra loro. Il presidente sedeva nel centro e gli anziani sedevano (per anzianità) a destra ed a sinistra di lui (Tosefta Sanhedrin, VIII, 1). Due segretari dei giudici sedevano dinanzi a loro, uno a destra e l’altro a sinistra, e raccoglievano i voti di coloro che pronunciavano assoluzione e di coloro che pronunciavano condanna. Rabbi Giuda diceva che ce n’erano tre; (oltre ai due) ce n’era un terzo che raccoglieva i voti di chi assolveva ed anche di chi condannava. La corte dell’aula della pietra squadrata, sebbene fosse composta di settantun membri, non ne aveva (mai presenti) meno di ventitré. Se qualcuno doveva uscire, dava prima uno sguardo: se erano in ventitré, usciva; altrimenti non usciva fino a che fossero in ventitré. Sedevano essi dall’«olocausto perenne» del mattino fino all’«olocausto perenne» della sera (che si offrivano nel Tempio circa alle 9 antimeridiane e alle 4 pomeridiane) (Tosefta Sanh., VII, 1). Le cause civili possono iniziarsi con la difesa o con l’accusa; le cause penali possono aprirsi solo con la difesa. Nelle cause civili è sufficiente la maggioranza di uno, sia per l’attore sia per il convenuto; nelle cause penali la maggioranza di uno assolve, ma per condannare è necessaria la maggioranza di due. Nelle cause civili i giudici possono rivedere la sentenza in favore sia dell’attore sia del convenuto; nelle cause penali possono rivedere la sentenza per assolvere non per condannare. Nelle cause civili i giudici possono tutti [concordemente] addurre argomenti in favore sia dell’attore sia del convenuto; nelle cause penali possono addurre argomenti per l’assoluzione, non per la condanna. Nelle cause civili il giudice che adduce argomenti a carico del convenuto può addurre a carico dell’attore, e viceversa; nelle cause penali il giudice che ha addotto argomenti per la condanna può in seguito addurne per l’assoluzione, ma chi ne ha addotti per l’assoluzione non può disdirsi e addurne per la condanna. Le cause civili si discutono di giorno e si concludono di notte; le cause penali si discutono di giorno e si concludono di giorno. Le cause civili possono essere concluse lo stesso giorno, sia con una sentenza di assoluzione sia con una condanna; le cause penali possono essere concluse il giorno stesso purché la sentenza non sia di condanna; se la sentenza è di condanna, il giorno seguente: per questa ragione non si discutono la vigilia del sabbato e delle feste. Nelle cause civili e nelle questioni di purità ed impurità rituale i giudici esprimono la loro opinione cominciando dal più anziano; nelle cause penali cominciando dai lati (ov’erano i più giovani, affinché su essi non influisse la sentenza dei più anziani) (Sanhedrin, IV, 1 segg.). I testimoni erano interrogati su sette punti: (Il fatto avvenne) in quale ciclo sabbatico? In quale anno? In quale mese? In quale giorno del mese? In quale giorno della settimana? In quale ora? In quale luogo?... Riconosci tu quest’uomo? Lo preavvisasti?... (Escussi poi i vari testimoni, i giudici) ascoltano pure l’accusato che affermi d’avere alcunché da dichiarare in sua difesa, purché nelle sue parole vi sia qualche fondamento. Se i giudici lo riconoscono innocente, lo liberano; altrimenti rimandano la sentenza al giorno appresso. Si uniscono a due a due, prendono parco cibo senza bere vino per l’intero giorno, e discutono nell’intera notte; il mattino appresso vanno di buon’ora al tribunale. Chi è per l’assoluzione dice: «Ero per l’assoluzione e rimango nella stessa opinione». Chi è per la condanna dice: «Ero per la condanna e rimango nella stessa opinione». Il giudice che già sostenne la colpabilità dell’accusato può adesso sostenere l’innocenza, ma non viceversa. Se commettono un errore nell’opinione che esprimono (affermando il contrario di quanto hanno affermato prima), i due scrivani dei giudici li correggono. Se dodici assolvono e undici condannano, l’accusato è dichiarato innocente. Se dodici condannano, e undici assolvono; come pure se undici assolvono, undici condannano, e uno si astiene; ovvero se ventidue assolvono e condannano, e uno si astiene: si aumenti il numero dei giudici. Fino a che numero? Per coppia fino a settantuno in tutto (il numero del gran Sinedrio in pieno). Se trentasei assolvono e trentacinque condannano, si dichiara innocente; se trentasei condannano e trentacinque assolvono, discutono fino a che uno dei propensi a condannare muti sentenza (Sanhedrin, V, 1-5). Queste, e molte altre norme, valevano in teoria, e ad ogni modo furono messe in iscritto molto dopo l’epoca di Gesù. All’atto pratico, e all’epoca di Gesù, si può ben credere che le cose andassero diversamente, specie in tempi turbinosi, o anche in tempi normali quando i giudici erano sotto l’influenza di passioni varie. Per i tempi turbinosi abbiamo l’esempio del beffardo processo svoltosi, sulla fine del 67 dopo Cr., contro Zacharia figlio di Baris (Baruch) davanti ad un burlesco tribunale di settanta membri adunato nel Tempio; nel Tempio stesso l’imputato, sebbene dichiarato innocente, fu ucciso (Guerra giud., IV, 335-344). Per i tempi normali abbiamo l’esempio del processo di Gesù.

• § 61. Oltre al gran Sinedrio di Gerusalemme, esistevano i sinedri minori, propri alle singole comunità giudaiche di Palestina e dell’estero. Ogni comunità ben costituita doveva averlo. Ne facevano parte i Giudei più eminenti del luogo, sotto la presidenza dell’archisinagogo. Questo sinedrio locale provvedeva all’amministrazione degli affari particolari alla sua comunità, applicando però le norme generali stabilite dal gran Sinedrio di Gerusalemme. Poteva anche costituirsi in tribunale, giudicando cause di minor importanza riguardanti i soggetti di sua giurisdizione: il giudizio poteva concludersi con condanne a multe pecuniarie o anche a pene corporali, quali la flagellazione fino a trentanove colpi (cfr. II Corinti, 11, 24). Chi si fosse ribellato alla sentenza del sinedrio locale, era escluso dalla comunità per un tempo più o meno lungo; l’esclusione perenne, pronunziata in realtà assai raramente, importava la maledizione ufficiale del condannato e la sua esclusione dal giudaismo.

• § 62. L’edificio chiamato oggi «sinagoga» fu essenzialmente un luogo di preghiera e d’istruzione religiosa: giustamente i pagani usavano chiamare questo edificio, che ai tempi di Gesù si era largamente diffuso nelle loro regioni, col nome di «oratorio». La funzione della sinagoga fu della massima importanza nella storia del giudaismo. Il suo scopo non fu già quello di sostituire l’unico Tempio israelitico, bensì di confermare ed estendere la sua efficacia quando esso esisteva ancora e di compensarla parzialmente dopoché fu distrutto. La sinagoga dunque non fu un contraltare al Tempio: ne fu piuttosto quasi un pronao spirituale e una cappella sussidiaria. La liturgia sacrificale al Dio d’Israele non si poteva compiere legittimamente se non nel Tempio di Gerusalemme, e tale norma rimase sempre inconcussa per gli Israeliti ortodossi. Ma sta di fatto che quell’unico Tempio era troppo distante per molti Israeliti della Palestina stessa, e tanto più divenne remoto e difficilmente accessibile quando la nazione giudaica con la sua Diaspora cominciò a sciamare dalla Palestina e ad inserirsi nelle varie regioni straniere; questi lontani fedeli avranno potuto inviare frequentemente pensieri affettuosi ed offerte preziose al loro unico santuario, ma piuttosto raramente potevano visitarlo di persona e risentirne direttamente l’efficacia spirituale. Bisognava quindi estendere sempre più quell’efficacia fra i Giudei sia della Palestina sia della Diaspora, e inoltre trovare ad essa, quando eventualmente mancava, un qualche compenso che fosse compatibile con la più stretta ortodossia. Per tali ragioni sorse la sinagoga. Le sue prime origini, infatti, vanno ricercate fra i Giudei esuli in Babilonia, allorché il Tempio di Gerusalemme non esisteva affatto perché distrutto. A quei tempi certamente non si poté avere la sinagoga vera e propria (come pretenderebbe la tradizione rabbinica), tuttavia le varie riunioni che gli esuli facevano presso Ezechiele ed altri insigni personaggi lasciano intravedere già il nucleo della sinagoga futura. Ma in seguito, anche dopo la ricostruzione del Tempio, i Giudei sia fuori che dentro la Palestina usarono sempre più riunirsi in determinati luoghi o in appositi edifici, per praticarvi quella preghiera ed istruzione religiosa ch’era impossibile praticare nel lontano Tempio ed era meno opportuno praticare in un qualsiasi posto comune. Così nacque e prese fisionomia ben distinta l’istituto sinagogale. Già al secolo III av. Cristo si hanno sicure attestazioni archeologiche di edifici sinagogali, e nei secoli seguenti essi si moltiplicano a dismisura dentro e fuori la Palestina. Ai tempi di Gesù si può ritenere per certo che in Palestina nessun centro abitato, anche se di scarsa importanza, fosse sprovvisto di sinagoga; sarà poi una leggenda l’affermazione rabbinica che in Gerusalemme si contassero quattrocentottanta sinagoghe di cui una nel recinto del Tempio stesso, tuttavia la leggenda nacque da una buona dose di realtà. Fuori della Palestina, nelle varie regioni dell’Impero romano, sono noti circa centocinquanta centri abitati provvisti di sinagoga: la sola Roma nel secolo I dopo Cr. ha fornito la prova di tredici distinte comunità giudaiche, ciascuna delle quali aveva certamente almeno una sinagoga, ma in tutto le comunità dovevano essere più numerose di quelle oggi attestate.

• § 63. Sotto l’aspetto architettonico la sinagoga era essenzialmente costituita da una sala, che di solito era rettangolare e disposta in modo che i convenuti fossero rivolti con la faccia verso Gerusalemme e il suo Tempio: in Galilea, paese di Gesù, quasi tutte le sinagoghe di cui rimangono ruderi hanno l’ingresso al lato meridionale, cioè verso Gerusalemme, e perciò i convenuti erano rivolti verso l’ingresso. La sala poteva essere divisa in navate da colonne, e sopra queste poteva poggiare alla periferia un’impalcatura elevata, riservata forse alle donne (matroneo); talvolta avanti all’ingresso della sala s’apriva un atrio con una vasca in mezzo per le abluzioni, ed ai lati dell’edificio erano addossate stanze minori destinate a scuola dei fanciulli e ad ospizio dei pellegrini. La sala poteva essere decorata con pitture e mosaici; i motivi ornamentali nei templi più antichi si limitavano alla raffigurazione di esseri inanimati (palme, candelabro a sette bracci, stella a cinque o a sei punte, ecc.), ma più recentemente rappresentarono anche animali e uomini (Mosè, Daniele, ecc.), contro la nota proibizione in vigore ai tempi di Gesù. Nell’interno della sala l’oggetto principale era l’armadio sacro, ove si custodivano i rotoli delle Scritture sacre; era collocato in una specie di cappelletta, protetto da un velo, e ,davanti ad esso, sembra che ardessero una o più lampade. La sala era anche provvista di un pulpito, mobile o fisso, su cui saliva il lettore della Scrittura e poi il successivo oratore; lo spazio rimanente della sala era occupato da sgabelli, la cui prima fila era oggetto di comuni ambizioni da parte dei frequentatori come più onorifica: talvolta seggi speciali erano disposti a parte, fra l’armadio sacro e il pulpito, e destinati a personaggi insigni.

• § 64. L’edificio sinagogale era affidato ad un archisinagogo scelto fra gli anziani della comunità locale; egli curava sia la buona conservazione degli oggetti, sia il regolare svolgimento delle adunanze. Alle sue dipendenze stava un «ministro», quasi un sacrestano, che accudiva a varie faccende materiali, come suonare la tromba al principio ed alla fine del sabbato, estrarre i rotoli della Scrittura dall’armadio, eseguire la flagellazione di qualche colpevole condannato dal sinedrio locale (§ 61), e simili; talvolta questo sacrestano faceva anche da maestro di scuola per i fanciulli, che si adunavano in una stanza attigua.

• § 65. Nella sinagoga le adunanze si tenevano in tutti i sabbati mattina e pomeriggio, e negli altri giorni festivi, ma, oltre a queste adunanze di prescrizione, se ne potevano tenere altre specialmente il lunedì e il giovedi, e in occasioni particolari. La sinagoga, infatti, divenne sempre più la roccaforte spirituale del popolo: in essa si ravvivavano continuamente quei princìpi nazionali-religiosi che dovevano distinguere Israele da tutte le altre nazioni; in essa si leggevano quelle Scritture, si ricordavano quelle tradizioni, si recitavano quelle preghiere che sono rimaste, ancora oggi, il principale patrimonio morale del giudaismo; in essa si cementava l’unione, sia tra i Giudei di una stessa comunità, sia tra le varie comunità di una data regione e anche di tutto il mondo, la quale unione fu la massima forza del giudaismo specialmente dopo la catastrofe del 70. Perché un’adunanza fosse regolare dovevano essere presenti non meno di dieci uomini: per essere sicuri di tale numero, in tempi assai posteriori, si sussidiarono dieci Giudei della comunità affinché, anche fuori del sabbato e dei giorni festivi, si tenessero liberi da altre occupazioni onde intervenire alle adunanze.

• § 66. L’adunanza s’iniziava con la recita del tratto scritturale chiamato, dalla parola con cui comincia, Shema’ «Ascolta...». Era un tratto composto da tre passi del Pentateuco, nel primo dei quali (Deuteronomio, 6, 4-9) si comanda l’amore di Dio, nel secondo (Deuter., 11, 13-21) l’osservanza dei comandamenti di Dio, e nel terzo (Numeri, 15, 37-41) s’impone che anche le frange delle vesti rammentino i comandamenti di Dio. Questo tratto scritturale era come il primo e fondamentale atto religioso dell’Israelita, l’atto di fede con cui egli affermava solennemente di credere nel Dio unico e di amarlo: non diversamente Gesù, allo Scriba che gli aveva domandato quale fosse il primo dei comandamenti, rispose citando appunto l’inizio dello Shema’ (Marco, 12, 29). Dopo lo Shema’ si recitava lo Shemòne esré («Diciotto»), cioè una serie di diciotto brevi preghiere esprimenti adorazione, sudditanza e speranza verso il Dio d’Israele. È molto probabile che questa serie di preghiere fosse recitata nelle sinagoghe già ai tempi di Gesù; ma in tal caso essa doveva essere alquanto differente e più breve della recensione (babilonese) oggi ufficialmente in uso, la quale consta in realtà di diciannove preghiere ed è posteriore di molto alla catastrofe del 70, a cui pure allude. Più antica è un’altra recensione (palestinese) ritrovata da alcune decine d’anni, ma anch’essa non può risalire ai tempi di Gesù, perché la dodicesima preghiera contiene un’imprecazione contro i cristiani in questi termini: Per gli apostati non vi sia speranza, e il regno superbo (certamente l’Impero romano) sradica Tu ben tosto ai nostri giorni! E i nazareni (cristiani) e gli eretici periscano all’istante: siano essi cancellati dal libro della vita, e insieme con i giusti non siano iscritti. Benedetto sii Tu, o Jahvè, che curvi i superbi! Questa maledizione diretta espressamente contro i cristiani è scomparsa nella recensione posteriore (babilonese), in cui è stata sostituita con una maledizione contro i superbi e gli empi in genere; tuttavia l’impiego della formula di maledizione contro i cristiani è attestato ancora al secolo IV da San Girolamo (in Isaiam, 5, 18-19; 49, 7). Probabilmente la formula fu introdotta ai tempi di Rabbi Gamaliel II verso l’anno 100 (cfr. Berakoth, 28 b), mentre il testo complessivo presumibilmente in uso ai tempi di Gesù ne era evidentemente privo.

• § 67. Dopo lo Shemòne esré si procedeva alla lettura delle Scritture sacre. Si cominciava con la Torah (Pentateuco), la quale era divisa in 154 sezioni (eccezionalmente anche di più), in modo che la sua lettura continuativa si compiva interamente in tre anni; seguiva la lettura dei libri chiamati «Profeti» nel canone ebraico - cioè i libri da Giosuè fino ai Profeti minori - la quale era fatta con una certa libertà di scelta e di ampiezza. I testi si leggevano nella lingua originale ebraica: ma poiché ai tempi di Gesù il popolo parlava aramaico e ben pochi comprendevano l’ebraico, i singoli passi letti erano man mano tradotti in aramaico. Queste traduzioni, che già ai tempi di Gesù avevano assunto una forma tipica tradizionale, furono più tardi messe in iscritto e costituirono i Targum(im) biblici. Terminata la doppia lettura con traduzione, seguiva un discorso istruttivo che si aggirava su qualche tratto della lettura fatta, spiegandolo e traendone insegnamenti pratici. Questo discorso poteva essere tenuto da chiunque dei presenti; di solito l’archisinagogo invitava a tale incombenza i presenti da lui giudicati più adatti, ma chi lo desiderasse poteva anche offrirsi spontaneamente: in pratica gli oratori erano ordinariamente persone versate nella conoscenza delle Scritture e tradizioni sacre, cioè Scribi e Farisei. L’adunanza terminava con la benedizione sacerdotale contenuta in Numeri, 6, 22 segg. Se tra i presenti si trovava un sacerdote, egli recitava la benedizione e gli altri rispondevano Amen; altrimenti era recitata a guisa d’implorazione da tutti i presenti.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.