Comunicato numero 81. Pratiche e credenze del Giudaismo all’epoca di Gesù (prima parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, oggi diamo inizio allo studio del capitolo: «Pratiche e credenze del Giudaismo» all’epoca di Gesù. Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• § 68. Fra tutte le prescrizioni esterne della religione giudaica le due principali ai tempi di Gesù erano il rito della circoncisione e l’osservanza del sabbato. Specialmente contro questi due pilastri del giudaismo aveva indirizzato la sua violenza la persecuzione scatenata in Palestina da Antioco IV Epifane nel 167 av. Cr.; ma i pilastri, sebbene scalfiti, avevano resistito. Succeduta la pace religiosa e l’autonomia nazionale, i due pilastri non solo furono anche più rafforzati, ma per naturale reazione furono fatti scendere tali quali dal cielo. Poco prima del 100 av. Cr. un Giudeo palestinese, molto zelante e forse Fariseo, l’autore dell’apocrifo Libro dei Giubilei, era in grado d’informare che gli angeli in cielo osservano ambedue queste prescrizioni del giudaismo, perché sono circoncisi (XV, 27) e rispettano il sabbato; anzi il sabbato è osservato in cielo da Dio stesso (II, 19, 21). La successiva tradizione rabbinica s’inoltrò su questa strada. Si affermò che nel mondo di là Abramo sederà all’ingresso della Gehenna e non permetterà che vi discenda alcun Israelita circonciso; tuttavia, qualora ad Abramo si presenti tale Israelita che in vita sua sia stato un insigne furfante, il patriarca degli Ebrei prima gli cancellerà miracolosamente le tracce della circoncisione, e solo dopo ciò lo caccerà nella Gehenna (Genesi Rabba, XLVII, 8): con la circoncisione, insomma, non si entrava nella Gehenna, e altrettanto - a quanto pare - si otteneva mediante l’osservanza del sabbato. Si tratta evidentemente di speciali credenze più o meno diffuse fra dotti e plebei, ma che ad ogni modo sono segnalazioni importanti di un dato stato d’animo.

• § 69. La circoncisione era il segno d’appartenere alla nazione prediletta del Dio Jahvè, l’attestato di partecipazione alla discendenza spirituale di Abramo e ai vantaggi dell’alleanza da lui stretta con Jahvè (Genesi, 17, 10 segg.). Perciò il massimo obbrobrio dei pagani, agli occhi di un Israelita, era quello di essere incirconcisi, e con questo appellativo erano essi chiamati quando si voleva infliggere loro la massima umiliazione. Il bambino riceveva la circoncisione l’ottavo giorno dalla sua nascita: l’operazione poteva essere compiuta da qualunque Giudeo, preferibilmente dal padre del bambino, e di solito si praticava in casa. In questa occasione s’imponeva ufficialmente il nome al bambino.

• § 70. L’osservanza del sabbato era soggetto di minutissime prescrizioni da parte dei rabbini: se ne può avere un concetto da molti passi del Talmud, e specialmente dai suoi due trattati Shabbath e Erubin (anche in questo scritto stiamo “accomodando” alcuni caratteri, ndR), dedicati quasi esclusivamente a quest’argomento. Il precetto del sabbato, applicato in tutto il suo rigore, avrebbe importato l’astensione da qualsiasi lavoro d’ogni genere: quindi anche l’astensione dal difendere la propria vita minacciata a mano armata, come non la difesero parecchi Giudei durante la persecuzione di Antioco IV Epifane (I Maccabei, 2, 31-38), e inoltre l’astensione da tutto ciò che è necessario per soddisfare le necessità corporali, come se ne astenevano gli Esseni (Guerra giud., II, 147); (§ 44). Ma, evidentemente, siffatto rigore non poteva conciliarsi con le esigenze della vita sociale: di qui le numerose norme rabbiniche, che cercavano di mantenere per quanto era possibile il principio teoretico pur non escludendo le urgenze pratiche. Sono elencati 39 gruppi di azioni con cui, secondo i rabbini, si violava il sabbato (Shabbath, VII, 2); tali erano i casi di sciogliere o stringere un nodo di fune, di spegnere una lampada, di eseguire due punti di cucito (numericamente due), di scrivere due lettere (d’alfabeto), ecc. Tuttavia la casuistica degli stessi rabbini alleggeriva spesso il rigore delle norme generiche: così, riguardo alla proibizione di sciogliere un nodo di fune, ad esempio della cavezza d’un cavallo, Rabbi Meir sentenziò che se un cammelliere poteva scioglierlo con una sola mano, non c’era violazione del sabbato; parimenti era proibito stringere un nodo per calare una secchia nel pozzo, ma fu sentenziato che se il nodo era fatto non con una fune ma con una benda qualsiasi, non c’era violazione del sabbato. E i casi d’interpretazione benigna si moltiplicarono grandemente. Ad essi è dedicato specialmente il trattato Erubin, che mediante artificiosità giuridiche mira a rendere lecito il trasporto fuor della propria casa o terra di un dato oggetto, mentre ogni trasporto sarebbe stato proibito anche se si trattava di un fico secco (Shabbath, VII, 3 segg.); lo stesso trattato mira anche ad aumentare la misura del passeggio o cammino permessi di sabbato, che regolarmente non doveva superare i 2000 cubiti, cioè circa 900 metri.

• § 71. Il sabbato giudaico cominciava, conforme al computo del calendario ebraico, dal tramonto del nostro venerdì e durava fino al tramonto del nostro sabbato. Il pomeriggio del venerdì era chiamato «vigilia del sabbato» o anche «parasceve» cioè «preparazione»; quest’ultimo appellativo era dovuto al fatto che in quel pomeriggio si preparava tutto l’occorrente per l’inoperoso sabbato, a cominciare dai cibi, giacché una delle 39 azioni proibite di sabbato era quella d’accendere il fuoco. Il rigore del riposo sabbatico poteva bensì cedere a ragioni di natura superiore, ma anche qui continuava la minuziosità casuistica dei rabbini. Di sabbato, quindi, era permessa la circoncisione, ma con talune limitazioni riguardo agli atti accessori; era lecito preparate il sacrificio della Pasqua, ma tralasciando ciò che non era strettamente necessario; il sacerdote di servizio nel Tempio poteva compiere gli atti materiali della liturgia prescritta, e se si feriva un dito poteva medicarselo dentro il Tempio stesso, ma non già fuori. Riguardo all’assistenza sanitaria si era stabilita la norma che il riposo del sabbato era superato dal pericolo di vita, ma come al solito la norma riceveva precisazioni di vario genere: il Talmud permette a chi abbia dolor di denti di sciacquarseli con aceto, purché dopo lo inghiottisca (giacché ciò è prender cibo), ma non gli permette di risputarlo fuori (giacché ciò sarebbe prendere una medicina) (Tosefta Shabbath, XII, 9): parimente permette a chi abbia la mano o il piede lussati di bagnarli nell’acqua fredda come al solito (lavanda quotidiana), ma non già di agitarveli dentro (lavanda medicinale) (Shabbath, XXII, 6). Astrazione fatta da questa soffocante legislazione, il sabbato era per il giudaismo giorno di letizia e di religiosa spiritualità. Il Talmud stesso prescrive di riserbare a questo giorno i cibi migliori, preparati però alla vigilia; si usavano anche ornamenti e vesti festive. Buona parte del tempo si impiegava in pratiche religiose alla sinagoga o in casa propria, o in pie letture favorite anche dalla forzata inoperosità.

• § 72. Se la circoncisione riguardava il Giudeo una sola volta nella vita e il sabbato una sola volta la settimana, esisteva un complesso di leggi che non lo lasciavano immune giammai, accompagnandolo in ogni sua azione e in ogni ora del giorno e della notte: erano le leggi sulla purità e l’impurità. Per il Giudeo la macchia morale del peccato non avveniva senza una specie di macchia anche fisica, come per contrario il contatto fisico con determinati oggetti ch’erano effetto di peccato o in qualche maniera rispecchiavano il peccato, produceva in chi li toccava una minorazione spirituale, una specie di macchia morale. I casi erano innumerevoli, e ben più del riposo del sabbato fornirono argomento inesauribile alla legislazione rabbinica. Dei sei «ordini» o grandi sezioni in cui è divisa la Mishna - cioè la parte fondamentale del Talmud e commentata da esso - un intero ordine, Tohoroth «purità», composto di 12 trattati, tratta di questo argomento. Per avere una vaga idea del contenuto, basterà citare i nomi dei trattati. Kelim, «vasi»; sui vasi e altri oggetti di famiglia e la loro purità. Ohaloth, «tende»; sulla purità delle abitazioni specialmente in caso della presenza d’un cadavere. Nega’im, «piaghe»; sulle manifestazioni della lebbra. Parah, «vacca»; sulla vacca rossa (cfr. Numeri, 19). Tohoroth, «purità»; sulle impurità che cessano col tramontare del sole. Miqwa’oth, «bagni»; sui requisiti dei serbatoi d’acqua. Niddah, «mestruazione»; su tale argomento. Makshirin, «preparazioni»; sui liquidi che comunicano impurità. Zabin, «effondenti»; su uomini affetti da perdite sessuali. Tebul’jom, «immerso nel giorno»; su chi ha subito l’immersione purificatrice, ma non è puro fino al tramonto. Jadajim, «mani»; sulle purità delle mani. Uqsin, «picciuoli»; sui picciuoli delle frutta come trasmettitori d’impurità. Ognuno di questi 12 trattati, contenenti da un minimo di 3 capitoli a un massimo di 30, scende a tale minuziosità di casi e di relativi precetti, che è impossibile riassumerli anche sommariamente. Né è da credere che siffatta congerie di prescrizioni fosse suggerita da mire semplicemente igieniche, o si potesse prendere alla leggiera; al contrario, lo spirito che le dettava era strettamente religioso e chi non le avesse osservate avrebbe violato precetti sacri. Troviamo infatti sentenze rabbiniche di questo genere: Chi mangia pane senza lavarsi le mani, è come uno che frequenta una meretrice; (...) chi trascura di lavarsi le mani, sarà sradicato dal mondo (Sotah, 4 b). Altrove si domanda chi sia uno del «popolo della terra», cioè uno di coloro che secondo il grande Hillel non temevano il peccato e non erano pii (§ 40), e si risponde che è tale chi mangia il suo cibo profano non in stato di purità, cioè senza lavarsi le mani (Berakhoth, 47 b). Altrove ancora sono riportate sentenze di scomunica pronunziate contro chi trascurava di lavarsi le mani prima del pasto (Berakhoth, 19 a; Edujjoth, V, 6). Si estendano queste prescrizioni, e le loro relative sanzioni, dalla lavanda delle mani alle varie specie di cibi puri o impuri, e alle mille altre azioni della vita quotidiana contemplate nei suddetti 12 trattati, e si avrà una qualche idea della rigidissima clausura che la casuistica dei rabbini imponeva alla vita sociale in forza d’un principio religioso. Su tutta quella fioritura di sentenze si adagiavano come su un letto di rose i legisti Farisei, i quali invitavano il pio Israelita a fare altrettanto se voleva osservare davvero i comandamenti del Dio Jahvè; ma il pio Israelita, che provava effettivamente ad adagiarvisi, ci si ritrovava come su un letto di spine, le quali laceravano ogni momento la sua ansiosa coscienza senza dargli alcun refrigerio di religiosità intima.

• § 73. Ciò avveniva nell’enorme maggioranza dei casi, in cui non si andava più in là del puro formalismo. Tuttavia non mancarono spiriti eletti che, scendendo più profondamente, raggiunsero la spiritualità religiosa da cui avrebbero dovuto essere animate le osservanze di quella purità legale che già era stata stabilita nell’Antico Testamento. In tal senso un maestro di poco posteriore a Gesù, cioè Johanan ben Zakkai morto verso l’80 dopo Cristo poté ammonire i suoi discepoli: Nella vostra vita né il morto rende impuro, né l’acqua rende puro, bensì è la prescrizione del Re dei re; Iddio ha detto: “Io ho stabilito una norma, io ho imposto una prescrizione; nessun uomo ha il diritto di trasgredire la mia prescrizione” (Pesiqta, 40 b). Disgraziatamente perle siffatte sono estremamente rare nell’oceano della causistica rabbinica.

• § 74. Oltre al sabbato, festa settimanale, il giudaismo osservava altre feste periodiche, di cui le principali erano la Pasqua, la Pentecoste e i Tabernacoli. Queste tre erano chiamate «feste di pellegrinaggio», perché ogni Israelita maschio giunto a una certa età (nel fissare la quale non erano ben d’accordo i rabbini) era obbligato a recarsi al Tempio di Gerusalemme. La solennità della Pasqua si celebrava nel mese chiamato Nisan, che andava circa dalla metà del nostro marzo alla metà di aprile. La Pasqua cadeva la sera del giorno 14 di detto mese, ma si riconnetteva immediatamente con «la festa degli azimi» che si celebrava nei sette giorni seguenti (15-21 Nisan); perciò praticamente questi otto giorni (14-21) erano chiamati sia Pasqua sia Azimi. Fin dalle ore 10 o 11 del giorno 14 Nisan ogni minimo frammento di pane fermentato era fatto scomparire da tutte le case giudaiche, essendo di stretto rigore per il resto di quel giorno e per tutti i sette giorni seguenti l’uso del pane azimo. Nel pomeriggio dello stesso giorno 14 avveniva l’immolazione delle vittime pasquali, cioè degli agnelli. L’immolazione era fatta nell’atrio interno del Tempio, dal capo di famiglia o di gruppo che recava l’agnello; il sangue delle vittime era raccolto e quindi consegnato ai sacerdoti, i quali lo spargevano presso l’altare degli olocausti; subito dopo l’immolazione, nell’atrio stesso del Tempio la vittima era spellata e privata di alcune parti interne, e dopo questa preparazione era riportata nella famiglia o nel gruppo a cui apparteneva. In quel pomeriggio del 14 Nisan gli atrii del Tempio diventavano necessariamente tutto un carnaio sanguinolento. Enorme, infatti, era l’affluenza di Giudei provenienti sia dalla Palestina sia dalla Diaspora, e non potendo l’atrio del Tempio contenere tutti insieme coloro che vi venivano a scannare l’agnello, si stabilivano da circa le 2 pomeridiane in poi tre turni d’accesso, e fra un turno e l’altro si chiudevano le porte d’entrata. Flavio Giuseppe ci fornisce occasionalmente un computo preciso fatto nell’interesse delle autorità romane ai tempi di Nerone, probabilmente nell’anno 65, da cui risulta che nel solo pomeriggio pasquale di quell’anno furono scannate ben 255.600 vittime (Guerra giud., VI, 424); un gregge siffatto, benché di agnelli, era bastevole a produrre come un lago di sangue da far rosseggiare tutti i lastricati e i muri del Tempio.

• § 75. Riportato in famiglia, l’agnello immolato era arrostito la sera stessa per il banchetto pasquale. Questo cominciava dopo il tramonto del sole per prolungarsi regolarmente fino alla mezzanotte, ma talvolta anche oltre. A ciascuna mensa partecipavano non meno di dieci persone e non più di venti, che prendevano posto su bassi divani sdraiandovisi per lungo in maniera concentrica alla tavola delle vivande. Era di prescrizione che vi circolassero almeno quattro coppe di vino rituali, tuttavia anche altre non rituali potevano circolare prima della terza rituale, ma non già fra la terza e la quarta: non risulta con sicurezza se tutti i commensali bevessero a una stessa coppa, d’ampie dimensioni, ovvero ciascuno avesse la propria; forse ambedue le usanze erano ammesse. Si cominciava mescendo la prima coppa e recitando una preghiera, con cui si benediceva in primo luogo la giornata festiva e poi il vino (o viceversa, secondo un’altra scuola rabbinica). Quindi si recavano in tavola, insieme con il pane azimo, erbe agresti e una salsa speciale (haroseth) nella quale s’intingevano le erbe; dopo ciò, si recava l’agnello arrostito. Si mesceva allora la seconda coppa, e il capo famiglia, di solito dopo una domanda convenzionale del figlio, faceva un piccolo discorso per spiegare il significato della festa, ricordando i benefizi del Dio Jahvè verso la prediletta nazione e la liberazione di questa dall’Egitto. Si consumava quindi l’agnello arrostito insieme con le erbe agresti, mentre circolava la seconda coppa. Si passava poi a recitare la prima parte dell’Hallel, inno costituito dai Salmi ebraici 113-118 (Vulgata 112-117); dopo di che si recitava una benedizione con cui cominciava un vero banchetto, preceduto dalla usuale lavanda di mani ma non regolato da particolari cerimonie e costituito da vivande varie. Si mesceva quindi la terza coppa, e si pronunziava una preghiera di ringraziamento; poi si recitava la seconda parte dell’Hallel, e infine si mesceva la quarta coppa. Questo è il rito della Pasqua giudaica qual è descritto, pur con talune imprecisioni, dalla tradizione rabbinica (Pesahim, X, 1 segg.); si può ritenere che esso rispecchi, almeno nelle linee generali, l’uso seguito ai tempi di Gesù dalla corrente dei Farisei, e perciò anche dalla gran maggioranza del popolo che le andava appresso.

• § 76. La festa successiva alla Pasqua era quella detta delle (sette) Settimane, o Pentecoste quest’ultimo appellativo è greco «cinquantesima giornata» e designa, come il precedente, lo spazio di tempo che divideva la Pentecoste dalla Pasqua. La festa durava un sol giorno, in cui si offrivano al Tempio i nuovi pani della messe testé compiuta, insieme con sacrifizi speciali; non era festa di carattere molto popolare, tuttavia era assai frequentata da Giudei che venivano dalle varie regioni lontane della Diaspora, cadendo la festa nella stagione propizia alla navigazione e ai lunghi viaggi. Circa sei mesi dopo la Pasqua veniva la festa detta dei Tabernacoli o delle Capanne, che cadeva ai 15 del mese Tishri, cioè tra la fine di settembre e il principio di ottobre, e durava otto giorni. Era festa gaia e popolarissima, e poiché ricordava la dimora degli antichi Ebrei nel deserto e insieme celebrava la fine della vendemmia e delle raccolte agricole, il popolo sulle piazze e sulle terrazze costruiva con verdi rami capanne a guisa di tabernacoli, e ivi s’intratteneva: donde il nome della festa. Inoltre si andava al Tempio recando con la mano destra un fascetto di palma con mirto e salice (il Lulab o Lolab, frequentemente raffigurato nelle catacombe giudaiche), e con la sinistra un frutto di cedro. Nella notte del primo giorno della festa il Tempio era illuminato sfarzosamente, e nelle mattine dei primi sette giorni un sacerdote spandeva sull’altare una piccola quantità d’acqua attinta processionalmente alla fonte di Siloe.

• § 77. Ai 10 dello stesso mese Tishri cadeva la solennità dell’Espiazione o del Kippur, ch’era di riposo e di digiuno assoluto. In essa officiava il sommo sacerdote in persona, che entrava - questa sola volta in tutto l’anno - nel «santo dei santi» del Tempio (§ 47), e compieva la simbolica liturgia del capro espiatorio (Levitico, 16; Ebrei, 9, 7). Feste di carattere popolare erano anche altre due. Quella delle Encenie o della Dedicazione, che cadeva ai 25 del mese Kislew (fine di dicembre), durava otto giorni e ricordava la riconsacrazione del Tempio fatta da Giuda Maccabeo nel 164 av. Cristo: si chiamava anche «festa dei lumi», per le grandi luminarie che vi si accendevano, ed aveva l’indole di un trionfo nazionalistico. La festa dei Purim «sorti», che scadeva ai 14 e 15 del mese Adar (febbraio-marzo), ricordava la liberazione dei Giudei per mezzo delle sorti ai tempi di Esther. Sebbene solo in occasione del Kippur fosse d’obbligo il digiuno per ogni Giudeo, tuttavia si osservavano anche altri digiuni pubblici o privati. Molti digiunavano spontaneamente quando cadevano gli anniversari di calamità passate, ad esempio della distruzione di Gerusalemme fatta da Nabucodonosor nel 586 av. Cr.; ma digiuni pubblici potevano essere anche prescritti dal gran Sinedrio in occasione di calamità presenti, come epidemie, siccità e simili. Frequenti erano anche i digiuni fatti per devozione privata; specialmente i Farisei tenevano molto al digiuno del lunedì e del giovedì.

• § 78. I concetti religiosi del giudaismo ai tempi di Gesù sono stati oggetto di ampi ed accurati studi recenti, i quali giustamente hanno messo a profitto i vari scritti apocrifi e rabbinici che nel passato erano di solito trascurati. Si ritrova pertanto che in quei concetti i princìpi fondamentali dell’antica religiosità ebraica sono generalmente conservati, ma spesso sono stati modificati, talvolta anche travisati, e soprattutto hanno ricevuto applicazioni e sviluppi di cui non esiste traccia negli antichi scritti dell’ebraismo. Esamineremo brevemente alcuni di quei concetti che abbiano più attinenza con la vita di Gesù. La fede nel mondo degli spiriti è assai più sviluppata che ai tempi immediatamente successivi all’esilio di Babilonia e più ancora che ai tempi ad esso anteriori. Occasione a questo sviluppo fu il contatto avuto durante e dopo l’esilio con i Persiani, il cui mazdeismo aveva un’ampia angelologia tuttavia la fede giudaica negli spiriti si contiene sempre dentro l’ortodossia di un rigoroso monoteismo, perché ignora il principio dualistico del mazdeismo, considera tutti gli spiriti come esseri subordinati all’unico Dio, né estende agli spiriti il culto proprio alla Divinità. Innumerevoli sono gli spiriti e distinti in due categorie, buoni e cattivi: i primi sono ministri particolari della Divinità e amici dell’uomo, i secondi sono subordinati alla potenza divina ma ostili ad essa e nemici dell’uomo. Gli uni e gli altri, benché spirituali, non sono totalmente immateriali, bensì provvisti come d’una sostanza eterea e fluente, che è luminosa od opaca a seconda delle qualità buone o cattive dei singoli spiriti. Specialmente gli scritti apocrifi, che rappresentano spesso le credenze più divulgate e popolari, sono informatissimi circa il mondo degli spiriti. Di quei buoni, alcuni sono chiamati «angeli della Faccia», perché stanno perennemente dinanzi alla faccia di Dio, altri sono gli «angeli del Ministero», perché inviati per ministero presso gli uomini. Di questi ultimi, una parte è addetta al governo degli astri e della terra, un’altra a quello delle varie stirpi e nazioni umane o anche dei singoli individui; taluni fanno da guida alle anime dei morti nel loro cammino d’oltretomba, altri hanno l’incarico di tormentare i demonii. Esiste anche una gerarchia fra gli spiriti buoni: oltre alle classi dei Seraphim e dei Kerubim, già note all’antico ebraismo, appare la classe degli Ophanim, i quali non dormono mai facendo la guardia al trono della maestà (divina) (Henoch, 71, 7 segg.). Sette particolari spiriti si tengono sempre alla presenza della Divinità, e quattro di essi sono Michele, Rafaele, Gabriele e Uriel: quest’ultimo è scambiato spesso con Fanuel (cfr. Henoch, 9, 1; 20, 1-8; 40, 9-10; ecc.). Ordinariamente Michele è il vindice della gloria di Dio; Rafaele è l’angelo delle guarigioni corporali; Gabriele è l’angelo delle rivelazioni particolari; UrieI è il conoscitore dei fatti occulti. Si era incerti a quale dei sei giorni della creazione assegnare la creazione degli angeli: taluni l’assegnavano al primo giorno, altri al secondo, altri al quinto. Incerta era anche l’origine degli spiriti cattivi: secondo alcuni, essi erano gli spiriti dei «giganti», nati dal commercio di alcuni angeli che si lasciarono sedurre dalle figlie degli uomini (cfr. Genesi, 6, 1 segg.); ma più attestata è l’altra opinione secondo cui gli spiriti cattivi sono antichi angeli decaduti dal loro stato di gloria. Loro capo è un essere che dapprima era stato chiamato con appellativo comune il satan, cioè «l’accusatore», «l’avversario», sempre preceduto dall’articolo: più tardi, invece, questo appellativo divenne nome proprio, perdendo l’articolo, Satan; altri suoi appellativi più recenti sono quelli di Belial (Beliar), Beelzebul (Beelzebub), Asmodeo, Mastema, e qualche altro di provenienza varia. Gli spiriti cattivi vagano negli strati aerei più bassi, o dimorano in luoghi deserti, fra ruderi, nelle tombe, in altri luoghi impuri, talvolta anche in edifici abitati dall’uomo: spesso prendono sede nel corpo stesso dell’uomo, impossessandosi di lui. Dentro e fuori queste dimore agiscono essi, a preferenza di notte, sempre per insidiare e danneggiare gli uomini. I mali, fisici o morali, sono causati o favoriti da essi, che arrecano malattie, infortuni, demenza, scandali, discordie, guerre: essi tentano i giusti, guidano gli empi, diffondono l’idolatria, insegnano la magia, si oppongono insomma sistematicamente alla Legge del Dio d’Israele. Prosegue ...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.