Comunicato numero 82. Pratiche e credenze del Giudaismo all’epoca di Gesù (seconda parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, oggi terminiamo lo studio del capitolo: «Pratiche e credenze del Giudaismo» all’epoca di Gesù. Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• § 79. Non meno dell’angelologia sono sviluppate, ai tempi di Gesù, le credenze nell’oltretomba. Su questo argomento l’antico ebraismo - stando almeno ai documenti pervenuti fino a noi - si era mantenuto in una grande imprecisione di concetti, sebbene qua e là alcune affermazioni solitarie inducano a sospettare che il relativo patrimonio concettuale fosse in realtà più ricco di quanto risulti a noi; ad ogni modo i concetti fondamentali dell’oltretomba erano stati anticamente i seguenti. La dimora dei morti era chiamata Sheol (sempre femminile), immaginata quale immensa caverna posta nei sotterranei del cosmo. Ivi i trapassati, i Rephaim «spossati», «assopiti» vagavano come ombre su una terra di tenebre e di oscurità, terra di buio e di caligine (Giobbe, 10, 21-22), sebbene altrove si parli di quelle ombre come tuttora animate da passioni umane (Isaia, 14, 9 segg.) e suscettibili di entrare in comunicazione con i viventi per mezzo dell’evocazione necromantica (I Samuele, 28, 8 segg.). Dalla Sheol nessuno, che vi sia disceso, può mai risalire (Giobbe, 7, 9-10; 10, 21; tuttavia cfr. il celebre e disputato passo di 19, 23-27). Nessuna sanzione morale di premio o di pena per gli abitatori della Sheol, quale conseguenza della condotta tenuta durante la vita terrena, è attestata in maniera ben chiara e con precisione inequivocabile nei documenti più antichi.

• § 80. Questi concetti vaghi ed incerti si mantennero a lungo anche dopo l’esilio di Babilonia, e li ritroviamo espressi ancora a principio del secolo II av. Cr. da un dotto Scriba quale il Siracida (Ecclesiastico, testo greco, 17, 22-23 al. 27-28; 41, 4 al. 6-7); tuttavia già nell’esilio erano stati sparsi i germi di un nuovo fermento, che doveva man mano trasformare l’aspetto della questione richiedendone una soluzione più adeguata ai tempi nuovi. Nell’esilio Ezechiele (18, 1 segg.) aveva asserito nel campo della morale il principio della retribuzione individuale, in contrapposto alla retribuzione collettivo-nazionale che aveva regolato l’antico ebraismo; e questo nuovo principio doveva necessariamente ripercuotersi anche nella questione dell’oltretomba. Un ignoto solitario di mente elettissima aveva agitato nell’intero libro di Giobbe la questione dei rapporti fra la bontà morale e la felicità terrena, ma era giunto ad una conclusione più negativa che positiva, perché riscontrando che fra i due termini non esiste sempre un collegamento infallibile aveva finito per rifugiarsi in un atto di fede nella somma giustizia di Dio. Tuttavia il fermento lavorava occultamente, e spingeva sempre più a congiungere la questione della retribuzione morale con quella dell’oltretomba, e a chiedersi se dopo la presente vita ottenebrata dall’ingiustizia non ne venisse un’altra illuminata dalla piena giustizia: in altre parole, dalla Sheol non si sarebbe un giorno usciti nuovamente attraverso una resurrezione che avrebbe riparato le ingiustizie presenti? Presso il giudaismo di Alessandria, ch’era in abituali relazioni con la platonizzante filosofia ellenistica, si fece a meno di ricorrere alla resurrezione dei morti: nella vita presente il corpo corruttibile era come una pesante catena imposta all’anima prigioniera (Sapienza, 9, 15), e quindi con la morte l’anima del giusto era liberata dal suo carcere e tornava a Dio presso cui trovava il meritato premio (Ivi, 3, 1 segg.). Ma per il giudaismo palestinese, ignaro di platonismo e invece abituato a vedere nel composto umano un quid unum, era necessaria una soluzione che corrispondesse compiutamente a siffatta visione unitaria dell’individuo umano, e che di questo investisse tanto l’anima quanto il corpo. Già nel passato si erano avute affermazioni della resurrezione dei morti (presso Henoch, 22, 10-13; 51, 1-2; 90, 33; ecc. IV Esdra, 7, 32; Apocalisse di Baruch, 30, 1 segg.; Testamenti dei XII Patriarchi: Giuda, 25; Beniamino, 10; Shemone’esre, 2a preghiera; ecc.), ma piuttosto d’indole poetica (Isaia, 26, 19) o simbolica (Ezechiele, 37, 1-14); in seguito essa è affermata nettamente (Daniele, 12, 1-3), e da parte dei Farisei si sosterrà in polemica contro i Sadducei che è utile pregare per i morti nella sicura attesa della loro resurrezione (II Maccabei, 12, 43-46; cfr. 7, 9). Ai tempi di Gesù la fede nella resurrezione era generale nel giudaismo palestinese, con la sola eccezione dei Sadducei (§ 34), ed è nettamente attestata sia presso vari apocrifi composti dal secolo II av. Cr. in poi, sia presso scritti rabbinici. Tuttavia nelle particolarità di questa fede esistevano divergenze: ad esempio, sembra che parecchi negassero la resurrezione degli empi, i quali invece sarebbero stati annientati. Negli stessi apocrifi troviamo divergenze anche più numerose quando passano a descrivere, con minuziosità interminabile, la topografia e l’apparato materiale dell’oltretomba, sia che trattino degli scompartimenti riservati ai giusti sia di quelli degli empi: ma, quasi in compenso, si assiste ad una vera fantasmagoria di labirintiche costruzioni innalzate dall’immaginativa di generazioni intere. Antichissimi concetti cosmologici sono confluiti in tali descrizioni, mentre poi molti loro elementi si trasmetteranno costantemente in seguito fino ad essere inclusi anche nella Divina Commedia.

• § 81. Ma il giudaismo palestinese insegnava che prima dell’oltretomba dovevano accadere due grandi fatti: la venuta del Messia e il dramma dei tempi estremi. Spessissimo poi i due fatti, che per sé apparivano distinti, furono congiunti e mescolati insieme, ed offrirono inesauribile materia alla letteratura apocalittica che fiori in pieno a quei tempi. Il grande Eletto in greco «unto», ch’era stato promesso dagli antichi profeti come liberatore e glorificatore d’Israele, era atteso nei due secoli anteriori e in quello posteriore a Gesù in maniera ansiosissima. La sua venuta era messa in relazione con le condizioni in cui si trovava la nazione. Questo Messia avrebbe dovuto instaurare in Israele un’epoca di felicità, la quale sarebbe stata anche una giusta ricompensa per le tante umiliazioni fino allora sofferte; il Dio Jahvè, liberando per mezzo del Messia la sua prediletta nazione e facendola trionfare di tutti i suoi nemici, avrebbe procurato anche il suo proprio trionfo: il dominio d’Israele su tutte le nazioni pagane sarebbe stato anche il dominio del vero Dio su tutti i figli dell’uomo, il Regno di Dio sulla terra. Perciò tutti gli sguardi erano protesi verso quel grande Venturo: si speculava sul tempo della sua venuta, sul modo della sua azione, sulle sue gesta fra le nazioni pagane, e anche sui rapporti che il regno messianico avrebbe avuto col mondo fisico odierno e con le leggi che lo governano. Ai tempi di Gesù si ritiene concordemente che il Messia discenderà dalla stirpe di David, come ha affermato l’antica tradizione; spesso lo si chiama «figlio d’uomo», come è stato chiamato in Daniele, 7, 13. Se quattro grandi regni si sono succeduti nel passato crollando tutti successivamente, il regno del Messia che sarà il quinto permarrà in eterno (Daniele, 2); se nel passato quattro regnanti in forma di quattro grandi fiere sono sorti dal mare e un corno della quarta fiera (Antioco IV Epifane) ha fatto strage dei santi dell’Altissimo, tutte queste forze ostili a Dio saranno distrutte da Uno che è «come figlio d’uomo», che riceve in cielo ogni potenza dall’«Antico dei giorni», e scende poi sulla terra a stabilirvi vittoriosamente il suo regno imperituro in cui domineranno i santi dell’Altissimo, e riceveranno l’omaggio di tutti gl’imperi (Daniele, 7). Su questi fondamentali temi biblici ricamano i vari scritti apocrifi, intrecciandovi molti altri elementi.

• § 82. Di particolare importanza è quella sezione del Libro di Henoch designata come «Libro delle parabole» (capp. 37-71), che fu scritta probabilmente verso l’80 av. Cr. Il Messia è l’Eletto di Dio, e presso Dio attualmente egli dimora; il nome del «figlio dell’uomo» è pronunziato davanti al Signore degli spiriti (cioè il Messia esiste effettivamente davanti a Dio) prima che siano creati il sole e le stelle. Egli sarà bastone di sostegno per i giusti, lume delle nazioni; davanti a lui si prostreranno tutte le genti (48, 2 segg.), in lui dimora lo spirito di sapienza e lo spirito che rischiara, lo spirito di scienza e di forza, e lo spirito di coloro che si sono addormentati nella giustizia (49, 3; cfr. Isaia, 11, 2); egli giudicherà tutte le genti, ripagando coloro che hanno oppresso i giusti, e alla sua venuta risorgeranno i morti (51, 1 segg.; 62), cielo e terra si trasmuteranno, e i giusti rimarranno insieme con lui nella vita eterna diventando angeli celestiali. Di poco posteriori a Henoch sono i cosiddetti Salmi di Salomone, i quali contemplano il Messia sotto una luce un po’ meno celestiale e un po’ più terrena. Essi, specialmente il XVII e il XVIII, pregano Dio d’inviare ad Israele il suo «re, figlio di David», affinché regni su di esso, schiacciando i dominatori ingiusti, purificando Gerusalemme dai pagani, mettendo in fuga le nazioni; dopo di ciò egli raccoglierà Israele, governandolo in pace e con giustizia, e allora tutti i pagani verranno dall’estremità della terra a contemplare la gloria di Gerusalemme. Egli è «puro da peccato», e «Dio lo renderà forte per mezzo dello Spirito santo». Concetti analoghi si ritrovano nei Testamenti dei XVI Patriarchi, nel IV Esdra (cap. 13), nell’Apocalisse di Baruch (39, 7 segg.; 70, 2 segg.), ecc.

• § 83. In queste elucubrazioni si ritrovano i tradizionali temi messianici dei profeti, ma adattati alle diverse circostanze storiche e tendenze spirituali. Lo speculativo scrittore di Henoch li impiega per dar corpo alla sua costruzione mistico-escatologica; il Fariseo autore dei Salmi di Salomone, che scrive sotto gli ultimi decadenti Asmonei, vi ricerca una specie di rivincita religioso-nazionale fra lo sbandamento dello Stato e dopo la conquista di Gerusalemme fatta da Pompeo nel 63 av. Cr. Da quel tempo, infatti, si pensò sempre più al Messia come a un vindice nazionale e a un conquistatore politico. Gli stessi Zeloti (§ 42), nel suscitare e condurre avanti la paradossale insurrezione degli anni 66-70 contro Roma, non furono sostenuti da speranze umane, bensì da quella del Messia, invincibile condottiero che sarebbe apparso improvvisamente a sbaragliare i Romani, per poi assidersi glorioso sul trono di Gerusalemme. A qualcosa di simile sembra che pensasse anche la madre dei due discepoli di Gesù, quando voleva assicurare ai suoi figli i due migliori posti, uno a sinistra e l’altro a destra di lui (Matteo, 20, 21). Lo stesso alessandrino Filone (De Proemis et Poenis, 15-20) pare che abbia condiviso, almeno parzialmente, l’idea del Messia conquistatore politico, senza però giungere all’aberrazione di Flavio Giuseppe; costui, nel suo servilismo verso i Romani, affermò che le sacre Scritture ebraiche, parlando del futuro Messia, avevano alluso all’imperatore Vespasiano (Guerra giud., VI, 312-313). È superfluo dire che della febbrile aspettativa comune s’approfittarono, ai tempi di Gesù e dopo, moltissimi ciurmadori ricordati occasionalmente da Flavio Giuseppe, i quali si spacciavano alle ansiose plebi come inviati di Dio. I loro tentativi finivano naturalmente in maniera o tragica, sotto le spade dei Romani, o ridicola, tra le beffe dei connazionali eppure, tanta era la fiducia riposta in essi dal popolino, che perfino quando Gerusalemme era già invasa dai Romani e il Tempio era già in fiamme, cotesti falsi profeti messianici trovavano seguaci disposti a credere imminente l’intervento taumaturgico di Dio (cfr. Guerra giud., VI, 285-288). Diffondendosi ulteriormente, il messianismo nazionalistico invase anche il campo dell’escatologia, e intrecciandosi più o meno strettamente con le credenze dei tempi estremi offrì ampio materiale alla letteratura apocalittica contemporanea.

• § 84. L’apocalittica è una particolare forma letteraria che si presenta - come dice il suo nome («svelo cose segrete» da parte di Dio) - quale rivelatrice di fatti futuri, specialmente delle ultime sorti dell’umanità intera e d’Israele. Ha perciò molte analogie con la letteratura «profetica», ma ha pure rilevanti divergenze da essa. L’apocalittica fu in realtà un succedaneo allo scritto «profetico», e mirò anch’essa ad assicurare il trionfo finale del bene sul male e d’Israele sulle nazioni pagane; ma si ritrovò in altre circostanze storiche, ed impiegò artifizi letterari differenti. L’antico profetismo si era proposto di correggere la nazione contemporanea, riferendosi ai tempi presenti e preparando i futuri: l’apocalittica invece fu più radicale, e con un pessimismo fondamentale proclamò il fallimento di tutto il mondo contemporaneo, che doveva essere rinnovato ab imis (totalmente, ndR) ed attraverso una palingenesi doveva far posto a nuovi cieli e nuova terra, in cui finalmente avrebbero trionfato il bene ed Israele. Il profetismo aveva bensì appellato all’epoca messianica ma in funzione correttiva dei tempi presenti, presentandola quale condizionato premio del rinsavimento d’Israele: l’apocalittica, al contrario, ne parlò incondizionatamente come di oggetto d’un assoluto decreto divino, e soprattutto contemplò quell’epoca come affatto indipendente dalla condotta attuale d’Israele. Siffatto atteggiamento, così sfiduciato del presente e così proteso verso il futuro, era conseguenza sia delle sciagure politiche, le quali dai tempi dei Seleucidi in poi si erano rovesciate periodicamente sulla nazione, sia della progressiva decadenza interna cagionata dal dilagante ellenismo. Evidentemente, un mondo - o come si diceva un «secolo» - così tenacemente iniquo non poteva sussistere più oltre; doveva ben venire dies irae, dies illa (Sofonia, 1, 15), che solvet saeculum in favilla, e appunto questa conflagrazione cosmica sarebbe stata l’inizio dell’auspicata palingenesi! Ma quanto alla data di questa palingenesi, l’apocalittica andò spesso a ritroso all’ansiosa attesa diffusa, relegando il solenne avvenimento in un vago ma remoto futuro; si mostrava con ciò nuovamente il pessimismo cagionato dalle circostanze storiche contemporanee, ma insieme la fiducia che le antiche promesse non sarebbero fallite.

• § 85. Letterariamente, l’apocalittica non inventò di sana pianta le sue forme, ch’erano già state impiegate parzialmente da precedenti scritti, ma le sviluppò ed accrebbe grandemente. Essa attribuisce quasi sempre le proprie rivelazioni a venerati personaggi dell’antichità (Henoch, Mosè, Elia, ecc.), e fa annunziare da essi in forma profetica avvenimenti apparentemente futuri, i quali sono in realtà avvenimenti passati per il vero compositore dell’apocalisse: questa falsa attribuzione era una commendatizia per lo scritto, conciliandogli in parte quell’autorità che non si poteva più avere dopo il tramonto del profetismo. Artifizi letterari frequentissimi dell’apocalittica sono la «visione» e il simbolo, che spesso si fingono rimanere incompresi dagli uditori a cui si rivolge il personaggio che parla (in Zacharia, cap. 4 segg., un angelo funge da interprete dei simboli), mentre per i contemporanei del vero autore sono allegorie ben chiare di avvenimenti passati. Le descrizioni escatologiche sono minuziose, e il «secolo futuro» è analizzato nelle minime particolarità. Assai sviluppata è pure l’angelologia, e gli spiriti buoni o cattivi appaiono in funzioni di cooperatori o di avversari di Dio nella sua lotta contro il male, che finirà sconfitto. I temi più frequenti, entro il gran quadro degli avvenimenti messianici, sono la lotta degli imperi pagani contro Dio e contro Israele, l’adunata delle dodici tribù disperse, il cataclisma dell’intero cosmo, il trionfo dei giusti nel regno del Messia, la resurrezione dei morti e il giudizio di tutto il genere umano, lo stato finale dei giusti e degli empi.

• § 86. Crediamo opportuno, per dare un’idea concreta, aggiungere qui un riassunto del più ampio ed antico scritto apocalittico apocrifo già più volte allegato, l’etiopico Libro di Henoch. È una produzione non di getto ma di compilazione, nella quale sono confluiti vari scritti precedenti, sorti fra il II e il I secolo av. Cr. in Palestina, in lingua ebraica od aramaica: l’intera compilazione fu poi tradotta in greco, e di qui in etiopico verso il secolo V. Servì da repertorio a scrittori di apocalissi posteriori Libro dei Giubilei; Testamenti dei XII Patriarchi; ecc.), fu allegata con venerazione da Padri cristiani, ed ha pure stretta parentela con un passo del Nuovo Testamento (cfr. Giuda, vers. 14-15, con Henoch, 1, 9). Eccome il riassunto. CAPP. 1-5: Servono da introduzione. Il protagonista Henoch descrive il giudizio futuro, secondo notizie comunicategli dagli angeli con l’incarico di trasmetterle agli uomini; nel giudizio si assegnano pene agli angeli prevaricatori e agli uomini empi, e premi ai giusti. CAPP. 6-16: Duecento angeli prevaricano avendo commercio con le figlie degli uomini, e svelano ad esse gran quantità di segreti magici, terapeutici, ecc.; perciò sono puniti. CAPP. 17-36: Henoch viaggia nel cosmo superiore e inferiore, guidato da un angelo che spiega le cose misteriose: fra altro, egli vede in alto i magazzini delle varie meteore, le camere degli astri, ecc.; visita il paradiso terrestre e il luogo dei dannati; conosce i nomi e gli uffici dei sette arcangeli, il peccato delle sette stelle incatenate per diecimila secoli, ecc. CAPP. 37-71: È il «Libro delle parabole». La prima descrive la lotta fra il mondo superiore e quello inferiore, che rimane sopraflatto nel giorno del giudizio quando si rivela il Regno dei santi; la seconda presenta l’avvento e il trionfo del «figlio dell’uomo» e la vittoria messianica sugli empi; la terza parabola descrive la beatitudine degli eletti dopo l’attuazione del Regno messianico; infine (CAPP. 70-71) Henoch è assunto in cielo ad ammirare le meraviglie. CAPP. 72-82: È il cosiddetto «Libro astronomico», che tratta del moto degli astri, delle varie leggi cosmiche e fisiche, ecc. CAPP. 83-90: Vi si contengono visioni avute in sogno: la prima tratta del diluvio universale; l’altra presenta personaggi e periodi della storia ebraica, da Adamo fino a Giuda Maccabeo, sotto simboli di animali: il Messia è simboleggiato in un toro bianco con grandi corna, emblema di potenza. CAPP. 91-105: Vi è contenuta dapprima (con alcuni spostamenti) una visione di dieci settimane corrispondenti a dieci periodi della storia del mondo, quindi una serie di esortazioni e minacce rivolte da Henoch ai suoi figli. FINE.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.