Comunicato numero 101. I razionalisti e la vita di Gesù (Quarta parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, la scorsa settimana abbiamo festeggiato il numero 100 del nostro settimanale: Dio sia benedetto! Quanto tempo ci dona il Padre Eterno per consentirci di riparare, con le buone opere, ai peccati commessi e di fare penitenza. Anche oggi andiamo a studiare le forbite ricerche del Ricciotti sulle tante «Interpretazioni razionaliste della vita di Gesù». Il libro utilizzato è: «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941 - dell’Abate Giuseppe Ricciotti: riposi in pace.

• § 208. Un efficace attacco contro la dominante Scuola liberale fu mosso nel 1901 da W. Wrede col suo studio sul Segreto messianico nei Vangeli. Base delle costruzioni di quella Scuola era specialmente il Vangelo di Marco, ritenuto più antico e primitivo, e quindi più fedele nel delineare il vero Gesù storico; il quale avrebbe predicato una religione tutta interna e personale, senza però preoccuparsi - come vorrebbero specialmente gli altri Vangeli - di fondare una stabile società esterna, senza attendere un regno di Dio visibile, e tanto meno attribuirsi un’origine soprannaturale. Senonché il Wrede mostrò che il Gesù delineato in Marco, se è storico sotto certi aspetti, sotto altri non è meno «soprannaturale» di quello dei restanti Vangeli, ed è egualmente incaricato di una missione divina e con piena coscienza della sua messianità fin dal principio; perciò il Wrede suppose che, in Marco stesso, alla figura del Gesù storico sia già stata sovrapposta quella del Gesù dogmatico, e il collegamento delle due figure contrastanti sia stato ottenuto mediante l’artificio del «segreto», che Gesù avrebbe serbato per un certo tempo sulla sua qualità di Messia. Ora, questo parziale ritorno alle conclusioni negative di Bruno Bauer minava quel tanto di base oggettiva che la Scuola liberale aveva ancora lasciato alla storicità di Gesù, ed a cui essa teneva moltissimo; ma tanto più difficile era a detta Scuola difendersi dal nuovo assalto, in quanto la coerenza logica non era certo la dote di cui difettasse lo studio del Wrede (come non ne avevano difettato quelli del Bauer), il quale in sostanza partiva dagli stessi principii filosofici ed applicava gli stessi metodi critici della Scuola liberale.

• § 209. Ma quando apparve lo studio del Wrede già si era delineata e prendeva sempre più forza un’altra corrente, che doveva finire col mettere alle strette la Scuola liberale. Nel 1892 Giovanni Weiss, figlio del liberale conservatore Bernardo (§ 204), aveva pubblicato un breve studio circa La predica di Gesù sul Regno di Dio (riapparso molto ampliato nel 1900), in cui dava il massimo rilievo ad un elemento che, nelle precedenti ricerche sulla biografia di Gesù e sul cristianesimo primitivo, era stato toccato solo incidentalmente e superficialmente, cioè l’elemento escatologico. In realtà, di escatologia giudaica si erano occupati a parte già l’Hilgenfeld (1857), il Colani (1864), il Weiffenbach (1873), il Volkmar (1882), il Baldensperger (1888, 1892, 1903), e tutti, salvo il primo, si erano posti il problema delle relazioni fra l’insegnamento di Gesù e l’apocalittica contemporanea, risolvendolo in vari modi; Giovanni Weiss, ritornandovi sopra, lo spiegò considerando come quintessenza della dottrina di Gesù le idee escatologiche contenute nell’apocalittica giudaica dei suoi tempi (§ 84 segg.). Il Gesù storico, diceva in sostanza il Weiss, non era stato già quel pastore protestante, illuminato dall’illuminismo e nutrito di filosofia kantiana, quale l’aveva dipinto la Scuola liberale: egli era stato figlio dei suoi tempi, ne aveva condiviso concetti e speranze, e ne aveva anche preso in prestito espressioni sbocciate da quelle speranze. Ora, ai tempi di Gesù, il mondo giudaico attendeva spasmodicamente un grandioso intervento di Dio che distruggesse d’un colpo l’impero del male stabilitosi sulla terra e lo sostituisse con un’epoca di giustizia, di pace e di felicità. Questo era il «Regno di Dio» da attuarsi per mezzo del «Figlio dell’uomo», il cui concetto, già adombrato nel canonico libro di Daniele, è sempre più sviluppato nei successivi libri apocrifi d’indole apocalittica: questo stesso Regno, in sostanza, sarebbe stato anche l’oggetto della predicazione di Gesù. Ma siffatto «Regno di Dio» Gesù non avrebbe potuto, né voluto, fondare: egli lo avrebbe solo annunziato come imminente, quale subitanea palingenesi grandiosa (improvvisa rigenerazione, ndR). Tuttavia, allorché egli vide respinto il suo annunzio dai Giudei contemporanei, si sarebbe convinto che la sua morte avrebbe affrettato l’avvento del Regno, che essa sarebbe stata per lui il ponte di passaggio per entrare nella gloria messianica, che quindi egli stesso come «Figlio dell’uomo» e come Messia sarebbe tornato sulle nuvole del cielo per giudicare gli empi e i giusti, e ad inaugurare il regno eterno di questi ultimi. Pervaso da questa aspettativa e tutto vibrante per essa, Gesù avrebbe anche predicato una dottrina morale; ma fu una morale provvisoria, interamente subordinata all’imminente palingenesi e che si potrebbe rassomigliare al regolamento momentaneo, improntato lì per lì, per gente rimasta su una nave che affondi o dentro un palazzo che bruci: secondo Gesù, infatti, affondava e bruciava il mondo intero. La vera morale stabile, giammai predicata da Gesù - essi sostengono - doveva essere quella del futuro Regno.

• § 210. Il libretto del Weiss aveva prodotto grande impressione sui dotti; tuttavia il seme da lui gettato non germogliò propriamente che alcuni anni più tardi, forse perché mancò a bella prima il coraggio per trarre le ultime conseguenze da siffatta ipotesi: essa in realtà, se cancellava totalmente l’oleografia di un Gesù spiritualista moraleggiante dipinta dalla Scuola liberale, la sostituiva con il ritratto di un autentico esaltato o, come allora si disse per eufemismo, di un «illuminato». Ma, nello stesso anno che apparve il già visto studio del Wrede, usci uno Schizzo della vita di Gesù, in cui l’autore, A. Schweitzer, partendo da una ricerca sul segreto di Gesù circa la propria messianità e la sua futura passione, in parte contraddiceva ai risultati ottenuti dal Wrede, e in parte li sviluppava ed integrava. L’idea fondamentale dello Schizzo fu ripresa e ampliata largamente dallo stesso Schweitzer, nel 1906, con una storia delle ricerche sulla vita di Gesù, intitolata Dal Reimarus al Wrede, riapparsa in una nuova edizione nel 1913; ivi l’autore, dopo aver fatto un’acuta ed erudita disamina dei precedenti sistemi, propugna in pieno il sistema escatologico. Mentre il Weiss aveva ritrovato l’idea escatologica soltanto nella dottrina di Gesù, lo Schweitzer la ritrova anche come principio animatore di tutta la sua vita e condotta; ciò spiega, secondo Schweitzer, la doppia figura contrastante di Gesù che il Wrede aveva scorto in Marco, e che corrisponderebbe al Gesù predicatore escatologico e al Gesù attore escatologico. Gesù attore escatologico (che corrisponderebbe al Gesù «soprannaturale» di Marco) è convinto della propria messianità, ma da principio vuole velarla di «segreto» perché, secondo una diffusa opinione, l’atteso Messia doveva compiere la sua carriera terrena ignoto e spregiato: perciò anche egli predica ricorrendo a parabole, per manifestare la verità ma senza poter essere ben compreso. Tuttavia il Regno tarda a venire, non essendo comparso neppure quando Gesù invia gli Apostoli in missione nelle città d’Israele (Matteo, 10, 23); allora Gesù si convince che la suprema «prova» richiesta da Dio prima dell’avvento del Regno è, non già estesa a tutto il popolo, ma riservata a lui solo, e in tale persuasione s’avvia a Gerusalemme per affrontarvi la morte, sicuro che essa apporterà la salvezza provocando la venuta del Regno. Davanti ai suoi ultimi giudici, infatti, Gesù svela apertamente il segreto, affermando di essere il Messia, e per questo è condannato a morte. La sostanza di questa teoria, già nel 1903, era difesa così decisamente da uno studioso appartenente allora al campo cattolico, da esser presentata come conditio sine qua non per affermare l’esistenza storica di Gesù: «Se è certo che, tutto ciò che nel Vangelo esprime o suppone l’imminenza del giudizio di Dio, non risalga al Salvatore, quasi tutta la tradizione sinottica dovrà essere abbandonata. La predicazione del Cristo, nei tre primi Vangeli, non è altro che un avvertimento a prepararsi al giudizio universale che sta per compiersi e al Regno che sta per venire... Il Vangelo non era il Vangelo, non era “la buona novella”, se non perché annunziava questo avvenimento. Io vado anche oltre, ed affermo senza paura che Gesù non è stato condannato a morte se non per questo motivo. Se egli non avesse predetto che il regno della carità, Pilato non ci avrebbe trovato un grave inconveniente. Ma l’idea del regno messianico, per quanto fosse spiritualizzata nel Vangelo di Gesù, non lasciava d’implicare in un avvenire prossimo una rivoluzione generale delle cose umane e la regalità del Messia. Togliete dal Vangelo l’idea del grande avvenimento e quella del Cristo-Re, e io vi sfido a provare l’esistenza storica del Salvatore, giacché avrete tolto ogni senso storico alla sua vita e alla sua morte» (A. Loisy, Autour d’un petit livre, pagg. 69-70). Questa teoria, sviluppata pienamente nell’accordo tra la dottrina e l’azione di Gesù («escatologismo conseguente»), sconvolse le posizioni tenute fino allora dai critici, e moltissimi l’accettarono come la vera risoluzione finalmente raggiunta nel problema di Gesù. Nella lenta e conservatrice Inghilterra essa incontrò una inaspettata calorosa simpatia. Nei paesi cattolici fu largamente diffusa dalla corrente modernista, presso cui ebbe cordiali accoglienze. Il Loisy, principale rappresentante di questa corrente, pur non accettando la teoria in tutte le sue parti (e di ciò gli fece un appunto lo Schweitzer), ne prese moltissimi elementi, soprattutto riguardo alla dottrina di Gesù, e li contrappose alle conclusioni dell’Harnack col suo celebre (nel senso di famigerato, ndR) libretto su L’evangile et l’Eglise (1902) difeso col successivo Autour d’un petit livre (1903); gli stessi elementi applicò poi egli metodicamente nei suoi commentari al IV Vangelo (1903), a cui negava ogni valore storico, e ai Vangeli sinottici (1907-1908), tutte opere diffuse nei paesi latini molto più che in quelli tedeschi.

• § 211. Passato il primo momento di entusiasmo, cominciarono anche le critiche riguardo alla nuova teoria. La prima critica fu sul metodo con cui la nuova teoria trattava le fonti evangeliche, e che - sebbene diretto da norme diverse - rassomigliava moltissimo al metodo già applicato dalla Scuola liberale. I liberali avevano sorvolato in maniera sbrigativa su tutto ciò che i Vangeli riferivano, non solo circa i miracoli di Gesù, ma anche circa le sue affermazioni di messianità, di soprannaturalità, di figliolanza divina, ecc.: tutto ciò doveva essere o interpretato in senso blando ed evanescente, oppure sfrondato senz’altro e gettato via, come frascame aggiunto attorno alla figura del Gesù storico dalla posteriore elaborazione cristiana. Ora, gli escatologisti facevano altrettanto, con la sola differenza che sfrondavano e gettavano via come frascame quasi tutto ciò che i liberali avevano conservato, e conservavano invece gelosamente il frascame dei liberali. La strada era la stessa, sebbene battuta in senso inverso. E in realtà i Vangeli, se attribuiscono a Gesù la predicazione dell’imminente regno di Dio, gli attribuiscono nello stesso tempo e sullo stesso piano il proposito di fondare una precisa religione, di costituire una stabile società visibile, di mettere a capo di essa persone da lui stesso scelte, di prescrivere ad essa riti religiosi ben definiti e da osservarsi scrupolosamente in futuro, di fornirla di un codice morale ben distinto da ogni altro e del tutto nuovo, di aver curato la formazione di discepoli con la precisa mira di propagare illimitatamente questa sua società, insomma di aver fatto queste e molte altre cose che presuppongono inevitabilmente una stabilità duratura della sua società visibile. Ora, è evidente che una persona la quale aspetti - come il Gesù degli escatologisti - di giorno in giorno e di ora in ora la frantumazione del mondo intero, non ha né tempo né voglia di spingere lo sguardo tanto nel futuro, al punto di preoccuparsi di ciò che avverrà nelle future generazioni e di fondare per esse una società: né quelle generazioni né quella società potranno giammai esistere, perché domani il mondo andrà in pezzi. Questa elementare considerazione fu ammessa francamente anche dagli escatologisti; i quali perciò, coerentemente ai loro principii, tolsero di mezzo la difficoltà sfrondando e gettando via tutte le affermazioni evangeliche in questione: nulla vi sarebbe in esse che possa realmente riportarsi al Gesù storico, ma tutte sarebbero creazioni del cristianesimo primitivo attribuite falsamente a lui. Né questo sfrondamento si limitò ad aforismi e a detti isolati, attribuiti a Gesù: c’erano di mezzo, infatti, anche le parabole a cui Gesù ricorreva spessissimo nella sua predicazione, e che in maniera più o meno esplicita svelano l’idea di una stabilità duratura preannunziata da Gesù riguardo alle sue istituzioni; perciò anche le parabole evangeliche furono sottoposte, specialmente da parte del liberale radicale Jülicher seguito dal Loisy (§ 360, nota seconda), a un metodico lavoro di disarticolazione che, dopo avere distaccato in esse il nucleo originario attribuibile a Gesù, ne rigettò i suddetti preannunzi di stabilità come aggiunte intrecciatevi dalla successiva tradizione. In conclusione anche gli escatologisti, come i liberali, «estraevano» dai Vangeli una loro particolare figura di Gesù, ripudiando tutti quei lineamenti ch’erano offerti sì dai Vangeli, ma che non s’addicevano a quella figura. Ora, quale garanzia assicurava che questa selezione degli escatologisti fosse meno arbitraria e meno soggettiva di quella dei liberali?

• § 212. A questa preliminare critica di metodo s’aggiunse subito l’altra anche più grave, dell’argomentazione storica. Giacché il fulcro della teoria escatologica erano le idee apocalittiche predominanti ai tempi di Gesù, queste idee divennero oggetto di nuovi e più accurati studi; si ricercò se veramente il giudaismo dei tempi di Gesù fosse tutto sconvolto dall’attesa dell’imminente fine del mondo e di una palingenesi totale; se queste idee, testimoniate qua e là da Apocrifi ch’erano stati addotti, rappresentassero uno stato d’animo assai diffuso e predominante, oppure fossero patrimonio di una minoranza numerica e morale: se, a fianco a queste idee, che potevano essere di estrema sinistra, non ve ne fossero altre da assegnarsi al centro o alla destra. Gli escatologisti si erano limitati, nelle loro ricerche, agli Apocrifi apocalittici (§ 84 segg.), trascurando quasi del tutto l’immensa tradizione rabbinica, i cui primi dati risalgono più in su dell’Era Cristiana o le sono contemporanei: e tale incompiutezza d’indagine poteva essere assai dannosa, tanto più che nuovi raffronti avevano messo in luce sempre più chiara quanto il metodo didattico di Gesù fosse somigliante a quello dei rabbini suoi contemporanei. Per conoscere quindi il pensiero di costoro s’investigò a fondo il gran mare degli scritti rabbinici, e in queste ricerche ogni altro lavoro fu superato dal voluminosissimo commento al Nuovo Testamento di (Strack e) Billerbeck (voll. I-IV, 1-2, 1922-1928 che illustra i singoli passi neotestamentari con tutti i relativi testi del Talmud, dei Midrashīm e degli altri scritti rabbinici, aggiungendovi trattazioni a parte su argomenti più importanti: il quale commento incontrò accoglienze freddissime e quasi ostili dagli escatologisti, per ragioni ben comprensibili. Ora, da questi contributi nuovi risultò che la teoria escatologica aveva troppo semplificato e troppo generalizzato. È vero che in alcuni Apocrifi, ad esempio nell’Assunzione di Mosè di circa l’anno 10 dopo Cr., si identifica regno di Dio, messianismo ed escatologia, attendendosi da un momento all’altro la loro violenta attuazione in mezzo alla catastrofe mondiale, ma queste visioni costituivano il patrimonio e il conforto di persone religiosamente sfiduciate e politicamente disperate, che non scorgevano via d’uscita dalle condizioni tristissime del giudaismo contemporaneo se non in una distruzione totale seguita dalla palingenesi. Senonché, già il carattere cosi’ radicale di siffatte opinioni indurrebbe a supporre che esse non potevano rappresentare l’opinione predominante e comune; la quale difatti è rispecchiata sia in altri Apocrifi, sia specialmente nelle sentenze del Talmud e dei Midrashīm. I più, cioè, ritenevano che il mondo o «secolo» presente, tutto malvagità e miseria, doveva essere realmente sostituito da uno futuro di giustizia e felicità, chiamato in ebraico il «secolo veniente»; ma questo secolo futuro non era l’epoca del Messia, come già si era creduto nel passato Israele e come continuavano tuttora a credere i messianisti politici più accesi, bensì era il regno della retribuzione individuale dopo morte, il glorioso regno celestiale, in cui sarebbero stati accolti i fedeli Israeliti dopo la resurrezione e il giudizio universale. Fra i due «secoli» contrastanti, il presente e il futuro, faceva in qualche modo da ponte di passaggio l’epoca del Messia, la quale sarebbe stata di trionfo e di gloria per tutto Israele. Ad ogni modo questo trionfo messianico era del tutto distinto dal «secolo» futuro, ed apparteneva rigorosamente al «secolo» presente, in cui avrebbe costituito una particolare èra, quella dei «giorni del Messia». Riguardo alla durata di questa èra esistevano opinioni diverse, da quella di Rabbi Aqiba che la restringeva a 40 anni, fino a quella di Rabbi Abbahu che la prolungava a 7000 anni, mentre l’opinione più comune stava per 2000 anni: ma l’èra messianica costituiva sempre un periodo ch’era strettamente storico, non già eterno, ch’era strettamente terreno, non già ultraterreno, sebbene per gli Israeliti che vi fossero pervenuti quell’èra costituiva una specie di deviazione dal presente «secolo» malvagio e un preludio al futuro «secolo» beato. Prosegue ...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.