Comunicato numero 106. La nascita del Bambin Gesù

Stimati Associati e gentili Sostenitori, oggi dedichiamo l’articolo d’apertura alla nascita del Bambin Gesù, secondo gli studi del dotto Abate Giuseppe Ricciotti: riposi in pace. Cogliamo l’occasione per porgere a tutti Voi i più sinceri auguri in occasione della Santa Pasqua 2018.

• § 240. L’appartenenza di Giuseppe e della sua famiglia al casato di David, che era originario di Beth-lehem, ebbe ben presto una conseguenza nel campo civile in occasione del censimento ordinato da Roma ed eseguito sotto Quirinio. Di questo famoso censimento abbiamo trattato a parte (§ 183 segg.), e perciò qui supponiamo già note le osservazioni fatte. In Oriente l’attaccamento al proprio luogo d’origine era, ed è tutt’ora, tenace. Presso gli Ebrei una tribù si divideva in grandi «famiglie», le famiglie si suddividevano in casati «paterni» e i casati paterni si frazionavano man mano in nuovi casati che potevano sciamare dall’alveare umano di loro origine e trasferirsi altrove; ma, ovunque andassero, i nuovi raggruppamenti familiari conservavano tenacemente il ricordo dell’alveare originario, sia demograficamente sia geograficamente. Si sapeva, cioè, che il decimo o il ventesimo antenato della propria famiglia era il Tale figlio del Tale, il quale aveva dimorato nella tale borgata, ivi aveva impiantato il suo casato e di là altre discendenze avevano sciamato. La storia degli Arabi è intessuta di nomi quali Banū X, Banū Y, cioè figli di X, figli di Y, come i Banū Quraish a cui appartenne Maometto; e anche oggi non è affatto difficile trovare un arabo, musulmano o cristiano, emigrato in Europa od America, che sappia dire appuntino a quale grande casato egli appartenga e quale regione o borgata sia il centro geografico originario del suo casato. Questo attaccamento al proprio luogo d’origine formava presso i Giudei la base di un censimento, e i Romani nel primo censimento di Quirinio seguirono questa norma locale, sia per le ragioni politiche che già sappiamo (§ 188), sia per frenare in qualche maniera lo spopolamento delle campagne causato dall’inurbanesimo. Perciò, bandito che fu il censimento, su Giuseppe incombé l’obbligo di presentarsi agli ufficiali dell’anagrafe in Beth-lehem, giacché egli era del «casato» e della «famiglia» di David (Luca, 2, 4) la quale era originaria di Beth-lehem.

• § 241. Beth-lehem è oggi una cittadina di circa 20.000 abitanti, situata 9 chilometri a sud di Gerusalemme all’altezza di 770 metri sul mare. Il suo nome era originariamente Beth-Lahamu «casa del (dio) Lahamu», divinità dei Babilonesi venerata anche dai Cananei del posto; sottentrati poi gli Ebrei ai Cananei, il nome finì per essere interpretato nel senso dell’ebraico beth-lehem, «casa del pane». Con l’avvento degli Ebrei in Palestina, s’insediò ivi il casato di Efrata (I Cronache, 2,50-54; 4,4), quindi il luogo fu chiamato sia Efrata sia Beth-lehem (Genesi, 35, 19; Ruth, 1, 2; 4, 11). Ivi, discendendo dal ramo di Isai (Jesse), era nato David (Ruth, 4, 22; I Cron., 2, 13-15). Se Nazareth era d’importanza così scarsa da non essere menzionata da nessun documento antico (§ 228), Beth-lehem a sua volta era un villaggio assai meschino ai tempi di Gesù. Già nel secolo VIII av. Cr. il profeta Michea (5, I ebr.) aveva chiamato Beth-lehem piccola fra le ripartizioni della tribù di Giuda; il villaggio col territorio circostante doveva albergare poco più di 1000 abitanti, in massima parte pastori o poveri contadini. Era però un luogo di passaggio per le carovane che da Gerusalemme scendevano in Egitto: difatti una sosta per carovane, ossia un caravanserraglio vi fu costruita da Chamaam, ch’era forse figlio d’un amico di David (II Samuele, 19, 37 segg.), e perciò fu chiamata «foresteria di Chamaam» (Geremia, 41, 17). Da Nazareth a Beth-lehem sono per la strada odierna 150 chilometri, e ai tempi di Gesù poteva esservi una piccola differenza in meno: era dunque un viaggio di tre o quattro giorni per le carovane d’allora. Non consta con certezza se a presentarsi personalmente in Beth-lehem fosse obbligato soltanto Giuseppe, ovvero pure Maria; ma anche se Maria non era inclusa nella legge, sta di fatto che Giuseppe vi si recò insieme con Maria, la fidanzata di lui, ch’era gravida (Luca, 2, 5 - Le nozze con la coabitazione già erano avvenute, sebbene non ricordate da Luca; ma sembra che intenzionalmente qui Luca impieghi uno a fianco all’altro i due termini fidanzata e gravida per alludere allo stato tuttora virgineo di una donna regolarmente maritata e gestante. L’aggiunta o la sostituzione di moglie - per es. nella Vulgata o nella Siro-sinaitica - sembra dovuta a copisti preoccupati di facilitare il senso). Queste parole possono benissimo valere come delicato accenno ad una almeno delle ragioni per cui venne anche Maria, cioè la vicinanza del parto in cui essa non doveva essere lasciata sola. Ma un’altra ragione - oltre al possibile obbligo di legge - poté essere che i due coniugi pensassero di trasferirsi stabilmente nel luogo originario del casato di David: poiché l’angelo aveva annunziato che Dio avrebbe dato al nascituro il trono di David padre suo (§ 230), quale pensiero più naturale che far ritorno alla patria di David per aspettare ivi l’attuazione dei misteriosi disegni divini? Già da vari secoli il profeta Michea aveva additato appunto la piccola Beth-lehem come luogo di provenienza di colui che avrebbe dominato su Israele (§ 254).

• § 242. Il viaggio dovette essere spossante per Maria, ch’era al nono mese di gravidanza. Le strade della regione, non ancora tracciate e mantenute dai Romani maestri in materia, erano cattive e appena adatte per carovane di cammelli e asini; in quei giorni poi, col subbuglio del censimento, saranno state più frequentate del solito e quindi anche più scomode. I due coniugi, nella migliore delle ipotesi, avranno avuto a loro disposizione un asino, che sarà stato caricato anche delle cibarie e degli oggetti più necessari, uno di quegli asini che ancora oggi in Palestina si vedono precedere una fila di cammelli o seguire un gruppetto di pedoni: i tre o quattro pernottamenti del viaggio saranno stati fatti o in qualche casa amica, o più probabilmente nei luoghi pubblici di sosta sdraiandosi a terra fra gli altri viandanti in mezzo a un cammello ed un asino. Giunti a Bethlehem, le condizioni furono peggiori. Il piccolo villaggio rigurgitava di gente, che si era allogata un po’ dappertutto a cominciare dal caravanserraglio. Questo era forse la vecchia costruzione di Chamaam (§ 241) riattata lungo i secoli; Luca la chiama l’albergo, ma la parola italiana non deve trarre in errore facendo pensare a un’azienda che rassomigli anche lontanamente a una modestissima locanda dei nostri villaggi. Il caravanserraglio d’allora era in sostanza l’odierno khān palestinese (§ 439), cioè un mediocre spazio a cielo scoperto recinto da un muro piuttosto alto e fornito di un’unica porta; internamente, lungo uno o più lati del muro, correva un portico di riparo che per un certo tratto poteva esser chiuso da muretti, e così formava uno stanzone con a fianco qualche altra cameretta più piccola. L’«albergo» era tutto qui; le bestie erano radunate in mezzo, nel cortile a cielo scoperto, e i viandanti si ricoveravano sotto il portico o dentro lo stanzone finché c’era posto, altrimenti s’accampavano fra le bestie: le camerette più piccole, se esistevano, erano riservate a chi poteva permettersi quella comodità pagando. E là, fra quell’ammasso di uomini e di bestie, tutto alla rinfusa si questionava d’affari e si pregava Dio, si cantava e si dormiva, si mangiava e si defecava, si poteva nascere e si poteva morire, tutto fra quel sudiciume e quel lezzo che appestano ancora oggi gli accampamenti di beduini palestinesi in viaggio.

• § 243. Luca ci fa sapere che, quando Giuseppe e Maria giunsero a Bethlehem, non c’era posto per essi nell’albergo (2, 7). Questa frase è più studiata di quanto sembri all’apparenza. Se Luca avesse voluto dire soltanto che il caravanserraglio non poteva contenere più alcuno, gli sarebbe bastato dire che ivi non c’era posto; egli invece aggiunge per essi, non senza riferirsi implicitamente alle loro particolari condizioni, cioè a quelle di Maria nell’imminenza del parto. Potrà sembrare una sottigliezza, ma non è. In Bethlehem Giuseppe avrà avuto senza dubbio conoscenti o anche parenti a cui domandare ospitalità; sia pure che il villaggio era gremito, ma un angoletto per due persone così semplici e dimesse si poteva sempre trovare in Oriente: quando a Gerusalemme affluivano centinaia di migliaia di pellegrini in occasione della Pasqua (§ 74), la capitale rigurgitava non meno che la Bethlehem del censimento, eppure tutti trovavano posto adattandosi. Ma naturalmente, in circostanze di quel genere, diventavano simili a caravanserragli anche le squallide case private, che consistevano di solito in un unico stanzone a pianterreno: tutto vi era in comune, tutto si faceva in pubblico, non c’era riserbo o segretezza di sorta. Perciò si comprende perché Luca specifichi che «non c’era posto per essi»: nell’imminenza del parto, ciò che Maria ricercava era soltanto riserbo e segretezza. E avvenne che, mentre essi erano colà, si compirono i giorni per il parto di lei, e partorì il suo figlio primogenito, e lo infasciò e lo pose a giacere in una mangiatoia (Luca, 2, 6-7). Qui si parla solo di mangiatoia, ma questo è un indizio ben sicuro alla luce delle costumanze contemporanee. La mangiatoia svela una stalla, e la stalla esige secondo le costumanze d’allora una grotta, una piccola caverna, scavata sul fianco di qualche collinetta nei pressi del villaggio: grotte di questo genere e destinate a questo uso si trovano tuttora in Palestina nei dintorni di gruppi di case. Quella stalla su cui misero gli occhi i due coniugi sarà stata forse occupata parzialmente da bestie, sarà stata tetra e sudicia di letame, ma era alquanto discosta dal villaggio e quindi solitaria e tranquilla; ciò bastava alla futura madre. Perciò, giunti i due a Beth-lehem e vista quell’affluenza di gente, si alloggiarono alla meglio in quella grotta solitaria, in attesa sia di compiere le formalità del censimento, sia del parto che la gestante sentiva imminente. Giuseppe avrà predisposto alla meglio un angolo meno disadatto e meno sudicio, vi avrà preparato un giaciglio di paglia pulita, avrà estratto dalla bisaccia di viaggio le provviste e qualche altra cosa più necessaria disponendole sulla mangiatoia fissata al muro, e tutto fu lì: altre comodità non potevano esigere allora in Palestina quei due viandanti di quel grado sociale, i quali per di più si erano segregati spontaneamente in una grotta da bestie. In conclusione, povertà e purità furono le cause storiche per cui Gesù nacque in una grotta da bestie: la povertà del suo padre legale, che non aveva denaro per affittarsi fra tanti concorrenti una stanza appartata; la purità della sua madre naturale, che volle circondare il suo parto di riverente riserbo.

• § 244. La grotta, fra i luoghi archeologici della vita di Gesù, è quello che ha in suo favore testimonianze più antiche e autorevoli, fuor dei Vangeli. Anche astraendo da vari Apocrifi che ci ricamano attorno molto, nel secolo II Giustino martire, ch’era palestinese di nascita, offre questa preziosa testimonianza: Essendo nato allora il bambino in Bethlehem, poiché Giuseppe non aveva in quel villaggio dove albergare, albergò in una certa grotta dappresso al villaggio e allora, essendo essi colà, Maria partorì il Cristo e lo pose in una mangiatoia, ecc. (Dial. Cum Tryph., 78). Nei primi decenni del secolo III Origene attesta egualmente la grotta e la mangiatoia, e si appella alla tradizione notissima in quei posti e anche presso gli alieni dalla fede (Contra Celsum, 1, 51). Sulla base di questa tradizione Costantino nel 325 ordina che si costruisca sulla grotta la grandiosa basilica (cfr. Eusebio, Vita Constantini, III, 41-43), che nel 333 è ammirata dal pellegrino di Bordeaux e che rispettata nel 614 dai Persiani invasori è tuttora superstite.

• § 245. Venuto alla luce Gesù in questa grotta, Maria l’infasciò e lo pose a giacere in una mangiatoia. Queste parole del delicato Evangelista medico fanno intendere abbastanza chiaramente che il parto avvenne senza l’usuale assistenza d’altre persone: la madre da se stessa accudisce al neonato, l’infascia e lo ripone sulla mangiatoia. Neppure Giuseppe è nominato. Soltanto le successive narrazioni apocrife s’affanneranno a far venire la levatrice, inviando in giro Giuseppe a cercarla (Protovangelo di Giacomo, 19-20); ma nel racconto di Luca non c’è posto per essa, come già aveva rilevato San Girolamo: Nulla ibi obstetrix, nulla muliercularum sedulitas intercessit; ipsa pannis involvit infantem: ipsa et mater et obstetrix fuit (Adv. Helvidium, 8). Non per nulla la futura madre aveva cercato con cura sì premurosa un luogo solitario e tranquillo. Così dunque Maria partorì il suo figlio primogenito, che l’angelo le aveva preannunziato come erede del trono di David padre suo (§ 230). Senonché il futuro regno del neonato - stando almeno a quelle prime manifestazioni - si prevedeva ben diverso dai regni d’allora, giacché questo erede dinastico aveva per aula regia una stalla, per trono una mangiatoia, per baldacchino le ragnatele pendenti dal soffitto, per nubi d’incenso le esalazioni del letame, per cortigiani due creature umane senza casa. Tuttavia il regno di quell’erede dinastico si annunziava fin d’allora con talune note caratteristiche davvero nuove e del tutto ignote ai regni contemporanei: delle tre persone componenti quella corte stalliera, una rappresentava la verginità, una l’indigenza, tutte e tre l’umiltà e l’innocenza. Esattamente nove chilometri più a settentrione sfolgoreggiava la corte indorata di Erode il Grande, in cui la verginità era parola affatto sconosciuta, l’indigenza era aborrita, l’umiltà e l’innocenza si manifestavano nell’attentare alla vita del proprio padre, nel mettere a morte i propri figli, nell’adulterio, nell’incesto e nella sodomia. Il vero contrasto storico fra le due corti non era tanto fra il letame dell’una e gli ori dell’altra, quanto fra le loro caratteristiche morali.

• § 246. Ad ogni modo al neonato discendente di David spettava bene un omaggio di cortigiani, i quali fossero in condizione sociale non troppo differente da quella di David, già pastore di pecore, e da quella dei due cortigiani fissi che stavano presso al suo trono-mangiatoia; inoltre, poiché l’angelo aveva detto che il neonato sarebbe stato chiamato figlio dell’Altissimo, gli spettava anche più un omaggio di cortigiani dell’Altissimo che si accomunassero in quell’ossequio con i cortigiani bassissimi della terra. Ora, Bethlehem era ed è ancora oggi sui limiti della steppa, ossia di quell’estensione abbandonata e incolta che può essere sfruttata solo a pascolo di greggi. I pochi ovini posseduti dagli abitanti del villaggio erano fatti rientrare durante la notte nelle stalle circostanti, ma i greggi numerosi rimanevano continuamente all’aperto là nella steppa con qualche uomo di guardia: fosse giorno o notte, estate o inverno (§ 174), quelle molte bestie e quei pochi uomini formavano tutta una collettività che viveva della steppa e nella steppa. Pecorai di tal genere riscotevano pessima reputazione presso i Farisei e gli Scribi: in primo luogo la loro stessa vita nomade nella steppa scarseggiante d’acqua li rendeva lerci, fetenti, ignari di tutte le fondamentalissime leggi sulla lavanda delle mani, sulla purità delle stoviglie, sulla scelta dei cibi, e quindi: essi più di chiunque altro costituivano quel «popolo della terra» ch’era degno per i Farisei del più cordiale disprezzo (§ 40); inoltre, passavano per ladri tutti quanti, e si consigliava di non comperare da loro né lana né latte che potevano essere cose refurtive. D’altra parte non si poteva insistere troppo con loro per ricondurli alle osservanze della «tradizione», persuadendoli a lavarsi bene le mani e a sciacquare bene le stoviglie prima di mangiare; erano infatti uomini di nerbo e di fegato, e come non temevano di spaccare col loro bastone la testa al lupo che infastidiva il gregge, così non avrebbero esitato a spaccarla al Fariseo od allo Scriba che avesse infastidito la loro coscienza. Perciò questi esseri abietti e maneschi erano esclusi dai tribunali, e la loro testimonianza - al pari di quella dei ladri e dei rei d’estorsione - non era accettata in giudizio.

• § 247. Senonché, esclusi dalla corte giudiziaria dei Farisei, questi bassissimi pecorai entrano nella corte regale del neonato figlio di David, e vi sono invitati dai celestiali cortigiani dell’Altissimo. C’erano pastori in quella stessa contrada, che dimoravano sul campo e facevano la guardia nella notte sul loro gregge. E un angelo del Signore s’appressò a loro, e la gloria del Signore rifulse attorno a loro, e temettero di gran timore; e l’angelo disse loro: Non temete! Ecco, infatti, vi do la buona novella d’una grande gioia la quale sarà per tutto il popolo, perché fu partorito per voi oggi un salvatore, che è Cristo signore, nel(la) città di David; e segno per voi sia questo: troverete un bambino infasciato e giacente in una mangiatoia. E ad un tratto fu insieme con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodavano Dio e dicevano: Gloria negli altissimi a Dio, e sulla terra pace negli uomini di beneplacito! (Luca, 2, 8-14). Questa scena segue immediatamente il racconto della nascita, e senza dubbio è intenzione del narratore far intendere che tra i due fatti non intercorse se non qualche ora. Dunque Gesù nacque di notte, come notturna è l’apparizione ai pastori.

• § 248. A costoro, dopo la dovuta lode a Dio nei cieli altissimi, si annunzia soltanto una cosa, la pace sulla terra. Veramente la pace allora c’era (§ 225); ma era una pace transitoria, di pochi anni, che equivalgono a pochi secondi sul grande orologio dell’umanità. Di quei pochi secondi aveva approfittato, come di un’istantanea tregua nella procella, per nascere tra gli uomini il salvatore cioè il Cristo (Messia) signore, e cominciava col fare annunziare dai suoi cortigiani celestiali la pace. Ma la sua era una pace di nuovo conio, sottoposta a una nuova condizione. La pace di quei pochi anni era sottoposta alla condizione dell’impero di Roma; era la pax Romana, garantita da 25 legioni, le quali tuttavia qualche anno dopo si mostrarono insufficienti a Teutoburgo amareggiando gli ultimi anni di Augusto. La nuova pace del Cristo signore era sottoposta alla condizione del beneplacito di Dio: coloro che con le loro opere si rendono degni di quel beneplacito e sui quali esso viene a posarsi (i due fatti si richiamano l’un l’altro) otterranno la nuova pace. Costoro sono gli operanti pace e saranno proclamati beati perché ad essi spetta l’appellativo di figli d’Iddio (§ 321). Dalla mirabile apparizione dell’angelo e dalle sue parole i pastori compresero ch’era nato il Messia. Erano uomini rozzi, sì, che non sapevano nulla dell’immensa dottrina dei Farisei; ma, da Israeliti semplici e d’antico stampo, sapevano del Messia promesso dai profeti al loro popolo, e ne avranno spesso parlato durante le lunghe veglie di guardia al gregge. L’angelo, adesso, ne aveva dato anche il segno, un bambino infasciato e giacente su una mangiatoia; forse avrà anche indicato la direzione da prendere per giungere alla grotta. Quei pecorai continuarono cosi a ritrovarsi nel loro ambiente: nelle grotte, se potevano, si rifugiavano anch’essi quand’era gran pioggia o gran freddo; forse più d’uno aveva ricoverato la propria moglie sopra parto egualmente in una grotta, e aveva deposto il suo neonato egualmente dentro una mangiatoia. E adesso sentivano, da chi non poteva ingannare, che pure il Messia si trovava nelle stesse loro condizioni. Andarono quindi verso di lui frettolosi, dice Luca (2, 16), di quella fretta cioè ch’è mossa da familiarità gioiosa: mentre forse con la lentezza appesantita da perplessità ritrosa si sarebbero avviati verso la corte di Erode, se là fosse nato il Messia. Giunsero alla grotta. Trovarono Maria, Giuseppe e il neonato. Ammirarono. Essendo poveri di denaro ma signori di spirito non chiesero nulla, e ritornarono senz’altro alle loro pecore: soltanto sentirono un gran bisogno di lodare Dio e di far sapere ad altri del posto quanto era accaduto. Prima di terminare, l’accorto Luca ammonisce: Maria però conservava tutte queste parole convolgendole nel suo cuore. Già sappiamo che ciò è una delicata allusione alla fonte delle notizie (§142). Fine. 

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.