Comunicato numero 120. Gesù ritorna in Galilea

Stimati Associati e gentili Sostenitori, passati due giorni con i Samaritani in Sychar - di cui abbiamo parlato la scorsa settimana - Gesù ritorna in Galilea. Ecco come prosegue l’Abate Giuseppe Ricciotti nella sua preziosa ed ortodossa «Vita di Gesù Cristo»:

• § 298. La ragione di questo ritorno è comunicata da San Giovanni (4, 44) con le seguenti parole: «Gesù stesso, infatti, attestò che un profeta nella propria patria non ha onore». Qual è la patria a cui allude qui San Giovanni? I Sinottici attribuiscono la stessa sentenza a Gesù ma in un occasione posteriore, quando cioè egli sarà scacciato in malo modo da Nazareth (Luca, 4, 16-30, e paralleli), e allora si comprende subito che la patria è Nazareth. In Giovanni ciò non è altrettanto chiaro, ma non per questo è da pensare che egli alluda alla Giudea da cui si allontanava per gl’intrighi dei Farisei (§ 292). Si dica piuttosto che Giovanni, presupponendo già noti i Sinottici (§165) e la sentenza di Gesù da essi riportata, la anticipi qui all’inizio della sua operosità in Galilea quasi per preammonire del mesto risultato di essa. Tuttavia, a principio, i Galilei accolsero Gesù con gioia: parecchi di essi erano stati testimoni delle opere straordinarie fatte da Gesù in Giudea, e al loro ritorno ne avevano parlato in Galilea suscitando fierezza fra i compatrioti del profeta. Recatosi nuovamente a Cana, il paese del primo miracolo (§ 281), Gesù fu subito ricercato per la sua fama di taumaturgo. Giaceva gravemente malato a Cafarnao il figlio d’un impiegato della corte reale; suo padre, saputo dell’arrivo di Gesù, andò in fretta a Cana pregandolo di venir subito a guarire il malato, ormai agli estremi. A quella preghiera Gesù si mostrò retrivo, e preoccupandosi soprattutto della propria missione rispose: «Qualora non vediate segni e prodigi, non (sarà) che crediate!».  L’angosciato padre non si preoccupava che del figlio morente, e insistette: «Signore, vieni giù (a Cafarnao) prima che il mio ragazzo muoia!». Per esser sicuro della guarigione il padre esigeva la presenza personale di Gesù, come d’un medico. Gesù gli replicò: «Va’; tuo figlio vive!». Queste ferme parole infusero nel padre la fermezza di credere: se il taumaturgo aveva parlato così, non poteva essere altrimenti. Era l’ora settima, cioè l’una del pomeriggio; dopo il viaggio affannato del mattino da Cafarnao a Cana che sono più di 30 chilometri, non si poteva ripetere subito il percorso inverso spossando le bestie e gli uomini di scorta. Perciò il padre ripartì il mattino seguente. Nell’avvicinarsi a Cafarnao, i familiari gli vennero incontro per annunziargli che il ragazzo stava bene; alla sua domanda, da quando avesse cominciato a riaversi, risposero: «Ieri, all’ora settima, lo lasciò la febbre». L’accurato Giovanni (4, 54) fa notare che questo fu il secondo miracolo di Gesù, dopo quello di Cana egualmente in Galilea, ma astraendo dalla permanenza in Giudea (§ 287, nota seconda). Anche qui appare la mira di San Giovanni di integrare i Sinottici.

• § 299. Tornato così in Galilea, Gesù iniziò senz’altro la sua missione predicando la «buona novella» d’Iddio e dicendo: «Si è compiuto il tempo e si è avvicinato il regno d’Iddio; cambiate di mente (= pentitevi; § 266) e credete alla “buona novella”». In questo tempo egli dovette recarsi volta a volta un po’ dappertutto nei vari centri della Galilea, poiché ci si dice che insegnava nelle sinagoghe di quelli ed era ascoltato da tutti con molta deferenza, e sicuramente anche con una certa fierezza regionale (Luca, 4, 14-15). Tuttavia i soggiorni più lunghi e più frequenti avvenivano a Cafarnao, ch’egli già aveva praticamente sostituita alla sua Nazareth (§ 285). Nulla vieta, anzi tutto induce a supporre che nel corso di queste peregrinazioni egli si recasse anche a Nazareth; ma l’episodio della sua predica nella sinagoga di Nazareth che si concluse con la sua cacciata dal villaggio (§ 357 segg.) dovette avvenire al termine e non al principio di questa operosità in Galilea, perché in quella occasione sono espressamente ricordati i miracoli fatti da lui a Cafarnao (Luca, 4, 23). Perciò, sebbene San Luca ponga questo episodio a principio, è da preferirsi l’ordine cronologico qui seguito dagli altri due Sinottici (Matteo, 13, 54-58; Marco, 6, 1-6), i quali lo pongono sul finire di questo periodo di tempo, quando cioè Gesù era già stato lungo tempo a Cafarnao. Nelle varie borgate ove si recava, Gesù parlava soprattutto nella sinagoga del posto. Come già sappiamo (§ 2), ogni minimo centro palestinese ne era provvisto, e ivi puntualmente gli abitanti s’adunavano il sabbato e talvolta anche altri giorni; ma, oltre all’uditorio bell’e pronto, c’era anche l’opportunità di parlare ad esso in piena conformità con le norme tradizionali, quando cioè l’archisinagogo, dopo la lettura della Bibbia, invitava qualcuno dei presenti a tenere l’usuale discorso istruttivo (§ 67): è naturale che Gesù si offrisse frequentemente per tale incombenza, che rispondeva così bene ai suoi scopi. Altre volte, tuttavia, egli parlava all’aperto o in edifici privati, quando si presentava l’opportunità o si era adunata presso di lui una certa folla. I suoi ascoltatori, infatti, crescevano rapidamente, perché avevano notato subito che egli «insegnava loro come avente autorità e non come gli Scribi»  (Marco, 1, 22; Luca, 4, 32; cfr. Matteo, 7, 29). Anche la plebe, nel suo semplice buon senso, trovava una profonda differenza fra le dottrine di Gesù e quelle degli Scribi; costoro si rifugiavano sempre sotto l’autorità degli antichi, e il loro ideale era di trasmettere integralmente gl’insegnamenti ricevuti senza nulla aggiungere e nulla tralasciare: Gesù invece apriva certi forzieri di cui egli possedeva l’unica chiave e sui quali egli solo «aveva autorità», non rifuggendo neppure dal contraddire agli insegnamenti degli antichi quand’era necessario perfezionarli. «Fu detta agli antichi» la tal cosa; «io invece vi dico» la tal altra (Matteo, 5, 21 segg.). Gli Scribi, insomma, erano la voce della tradizione; Gesù invece era la voce di se stesso, e si attribuiva il diritto tanto di approvare quella tradizione quanto di respingerla e correggerla. Indubbiamente chi si attribuiva questo diritto, sotto la dittatura spirituale degli Scribi e dei Farisei, agiva come «avente autorità». 

• A Cafarnao e altrove. § 300. Ma il nuovo predicatore, se era avente autorità nel campo delle dottrine, si mostrava fornito di non minore autorità nel campo della natura operando «segni» straordinari; e questa seconda autorità, mentre confermava la prima, attirava sempre più l’attenzione delle folle, le quali su questo punto dovevano ragionare come Nicodemo: «Nessuno può fare questi “segni” ... se non sia Iddio con lui» (§ 288). Ai due «segni» di Cana, il cui ricordo era recente, ne tennero dietro altri in altri luoghi. A Cafarnao un giorno di sabbato, dopo aver predicato nella sinagoga, Gesù guarì pubblicamente un uomo indemoniato che, al comando di lui, prima dette in grida convulsive e poi rimase libero dall’ossessione; la gente che aveva udito la predica e visto la liberazione, ricollegando i due fatti si domandava: «Che è ciò? Un insegnamento nuovo secondo autorità! inoltre, comanda gli spiriti impuri e gli obbediscono!» (Marco, 1, 27). Mentre ancora risuonano queste esclamazioni, che diffondendosi porteranno altrove la fama di Gesù, egli esce dalla sinagoga e subito si reca alla casa di Simone Pietro (§ 285) e di suo fratello Andrea, dove trova la suocera di Pietro che giace malata: l’Evangelista medico fa notare che essa era in preda a «febbre grande» (Luca, 4, 38), la quale secondo la terminologia clinica d’allora era di genere diverso dalla «febbre piccola» (cfr. Galeno, Diflerent. febr., 1, 1). Insieme con Gesù stanno Giacomo e Giovanni, i due figli di Zebedeo, e certamente anche altre persone che hanno assistito alla liberazione del-l’indemoniato e forse pregano il liberatore di far del bene anche alla vecchia malata: Gesù si curva sul giaciglio di lei, la prende per mano, e la rialza che è guarita. Sta così bene la donna appena in piedi, che si dà subito da fare per preparare qualcosa all’ospite straordinario e per servirlo. In paese si sta ancora parlando dell’indemoniato guarito, quando sopraggiunge la notizia che pure la suocera di Pietro è stata guarita. Avere un uomo di tal fatta in paese e non servirsene, sarebbe la massima delle stoltezze: basterà portare alla sua presenza i malati che stanno per le case, e saranno guariti. Ma è sabbato, e non si può trasportare alcunché né fare più d’un limitato numero di passi (§ 70); ebbene, si aspetterà il tramonto del sole, con cui cessa il riposo sabbatico e si può trasportare un malato. La sera, infatti, i malati d’ogni sorta e gli indemoniati furono radunati presso la casa di Pietro, e tutta la città si era radunata presso la porta (Marco, 1, 33). Gesù, «su ciascuno di essi imponendo le mani, li guariva; uscivano poi da molti i demonii gridando e dicendo: “Tu sei il figlio d’iddio!”. E intimando (Gesù), non permetteva loro di parlare perché sapevano esser lui il Cristo (Messia)» (Luca, 4, 40-41). Quel Gesù che in terra di Samaritani aveva spontaneamente dichiarato di essere il Messia (§ 296), qua in terra di Giudei non permetteva che la stessa dichiarazione fosse fatta da un testimonio autorevole in materia, quale il demonio; ma qua appunto esisteva il pericolo che là mancava, ed era che i presenti, seguendo la corrente comune, considerassero quel Messia come condottiero politico: mentre, come poco prima Giovanni il Battista non si era occupato di politica, così adesso non se ne occupava Gesù, né egli predicava un regno del mondo o dell’uomo, bensì il regno dei cieli e di Dio.

• § 301. Ad ogni modo, se Gesù era veramente il Messia ed era venuto per farsi riconoscere come tale dai suoi connazionali, bisognava pur che una buona volta annunziasse apertamente ad essi questa sua qualità. Senza dubbio: e difatti questi annunzi palesi e ripetuti verranno da parte di Gesù, ma solo più tardi. Da principio invece, cioè durante questa sua prima operosità in Galilea, egli non fa che prolungare la predicazione del precursore Giovanni, annunziando soltanto che si è avvicinato il regno di Dio (Matteo, 4, 17; Marco, 1, 15); parla cioè del regno ma non del suo capo, dell’istituzione ma non dell’istitutore. Quando poi in seguito egli avrà radunato attorno a sé un piccolo nucleo di seguaci, i quali abbiano compreso genericamente che il suo regno non è un’istituzione politica e che ha per suo istitutore un re spirituale, allora a questi migliori intenditori egli confiderà di essere il Messia, sebbene anche a costoro da principio imporrà di non svelare ad altri questo segreto. L’affermazione messianica, dunque, avvenne realmente e chiaramente da parte di Gesù, ma fu graduale: dapprima egli annunziò il regno messianico, quindi il Messia ad alcuni pochi in segreto, infine a tutti palesemente. Ora, questa graduazione d’annunzio fu cagionata soprattutto dalla preoccupazione d’evitare entusiasmi politici, che sarebbero stati troppo spontanei fra gente abituata da lungo tempo a raffigurarsi il futuro Messia nelle maniere nazionali-militaresche che già vedemmo (§ 83). In quel deposito di materie incendiarie, ch’era politicamente il giudaismo d’allora, troppo spesso venivano gettati accesi tizzoni da esaltati pseudoprofeti, mentre Gesù non voleva in nessuna maniera accomunarsi con essi; anzi espressamente seguì una condotta che era proprio l’opposta alla loro, circondando a principio di segreto la sua persona con la mira di fare accettare l’idea. Quando poi Gesù dovrà necessariamente parlare della sua persona, allora applicherà anche certi correttivi molto efficaci per raffreddare i bollenti spiriti degli stessi suoi confidenti: annunzierà perciò loro che egli è il Messia, sì, ma anche che è destinato ad una morte violenta e ignominosa, e che pure i discepoli i quali formano la sua corte sono destinati a ignominie e tribolazioni d’ogni genere. Era una delusione ben amara e una prospettiva assai mesta, per focosi messianisti giudei, quella di un re Messia che muore ammazzato invece di ammazzare i nemici d’Israele, e che ha per cortigiani un’accolta di miseri umiliati invece che di potenti umiliatori dei gojīm!  Ma appunto questo era il correttivo necessario per far comprendere l’indole del Messia Gesù e del regno da lui predicato. La serata di quel sabbato era stata laboriosa, ma finalmente Gesù aveva potuto ritirarsi nella casa di Pietro. La mattina seguente, molto prima dell’alba, egli ne uscì segretamente e si appartò in un luogo solitario a pregare. Poco dopo cominciarono ad arrivare visitatori della borgata che avevano qualcosa da chiedere al taumaturgo, e soprattutto da pregarlo che non si allontanasse mai più da loro. Pietro e gli altri familiari, non trovando Gesù in casa, si dànno a cercarlo fuori; finalmente lo trovano, e gli comunicano l’aspettativa e il desiderio di tutti. Gesù risponde che anche altrove egli deve annunziare la buona novella del regno di Dio, e che appunto per questo egli è stato inviato. E riprese a recarsi qua e là per la Galilea, probabilmente senza avere con sé alcun discepolo. Libro utilizzato: «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941, dell’Abate Giuseppe Ricciotti - riposi in pace!.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.