Comunicato numero 133. Invio degli Apostoli e morte del Battista

Stimati Associati e gentili Sostenitori, la scorsa settimana abbiamo studiato, grazie alla preziosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Ricciotti, altri tre episodi storici (- La risurrezione della figlia di Jairo; - La guarigione della donna con profluvio di sangue; - La restituzione della vista ai due ciechi) che attestano la divinità di Nostro Signore Gesù-Cristo. Divinità negata, apertamente o dietro sofismi, dai modernisti che, con indicibile abominazione, occupano le nostre chiese pervertendo quasi ogni intelletto. Oggi leggeremo insieme e mediteremo altri due capitoletti del medesimo volume del Ricciotti: 1) «L’invio dei dodici Apostoli» e 2) «La morte di Giovanni il Battista».

• § 352. Fra questi episodi staccati continuava la generica operosità di Gesù in tutta la Galilea, quale è già stata riassunta da San Luca (§ 343). Ma nel frattempo l’affluenza della gente era cresciuta, e nonostante la cooperazione dei dodici, le cure crescevano a dismisura; e Gesù «vedendo le folle s’impietosì per essi, perché erano disfatti e abbattuti come pecore non aventi pastore (cfr. Numeri, 27, 17). Allora dice ai suoi discepoli: “La messe (è) bensì molta, ma gli operai pochi; pregate dunque il signore della messe, affinché invii operai nella sua messe”. E chiamati dappresso i dodici discepoli suoi, dette ad essi autorità sugli spiriti impuri, sì da scacciarli via e da curare ogni malattia e ogni languore» (Matteo, 9, 36; 10, 1). Investiti perciò di tale autorità, i dodici furono inviati da soli senza maestro, come squadra volante, per una missione particolare e con norme ben precise. La missione consisteva nell’annunziare che si era avvicinato il regno di Dio, come già aveva fatto Giovanni il Battista e fino allora anche Gesù; ma la squadra volante era inviata in zone ancora non raggiunte. Tuttavia fu prescritto che queste zone appartenessero al territorio d’Israele, perché ad Israele prima di tutte le altre genti era stata promessa la “buona novella” della salvezza dagli antichi Profeti; i dodici quindi non s’incamminassero verso i paesi dei Gentili né dei Samaritani, ma piuttosto si rivolgessero alle pecore sbandate del casato d’Israele. A dimostrare, poi, la verità del loro annunzio, ed in forza dell’autorità testé ricevuta, essi dovevano curare infermi, mondare lebbrosi, scacciare demonii, e perfino risuscitare morti. Era, insomma, la missione di Gesù la quale passava da uno solo a dodici, ma per lo stesso scopo e con gli stessi metodi. Anche le norme pratiche erano le stesse seguite fino allora da Gesù, e si possono riassumere in una totale noncuranza degli argomenti politici, dei mezzi finanziari, delle preoccupazioni economiche. L’annunzio del regno di Dio doveva ignorare affatto i regni umani, non avendo alcuna connessione con essi. Le finanze spirituali da cui era accreditato il regno di Dio erano i mezzi dimostrativi della sua solvibilità, cioè curare infermi, mondare lebbrosi, scacciare demonii, risuscitare morti; ma siccome i banchieri a cui era stato affidato questo credito lo avevano ricevuto senza pagamento, così dovevano comunicarlo senza pagamento: «gratuitamente riceveste, gratuitamente date» (Matteo, 10, 8). [Precetto, poi, strumentalizzato dall’odioso errore del pauperismo e da quello, più moderno,  del farisaico miserabilismo, ndR]. Le preoccupazioni economiche erano egualmente proibite agli annunziatori del regno di Dio, salvo per quello che era rigorosamente indispensabile. Infine, gli annunziatori dovevano mettersi in giro a due a due, come già usavano fare i messi del Sinedrio, sia per assistenza sia per sorveglianza reciproca, e nelle loro peregrinazioni si dovevano distinguere dagli altri viandanti per varie ragioni.

• § 353. I soliti viandanti, in primo luogo, si servivano possibilmente dell’asino, classico mezzo di trasporto in Oriente; ad ogni modo all’atto della partenza si provvedevano di cibarie, di monete d’oro e d’argento riposte nella cintura o nel turbante, di una seconda tunica per proteggersi meglio dal freddo o cambiarsi dopo un acquazzone, di accurati e solidi calzari per reggere bene sulle strade scabrose, di un nodoso bastone in forma di mazza per difendersi in pericolosi incontri, di una bisaccia da viaggio ove si mettevano altre minute provviste o anche ciò che per caso si veniva acquistando lungo il cammino. Questa bisaccia era importante soprattutto per coloro che viaggiavano a scopo di questue religiose, perché tali questue fruttavano bene in Oriente anche presso i pagani: un’iscrizione greca trovata nella zona orientale dell’Hermon (§ 1) ricorda come un certo Lucio di Aqraba, che andava in giro questuando a nome della dea sira Atargate, riportasse a casa da ogni suo viaggio settanta bisacce ricolme. Ebbene, appunto la mancanza di tutti questi amminicoli [sostegni, supporti, ndR] doveva distinguere da tutti gli altri viandanti i dodici inviati da Gesù: «Non vi procurate oro né argento né (spiccioli di) rame nelle vostre cinture, non bisaccia da viaggio né due tuniche né calzari né bastone» (Matteo, 10, 9-10). A queste prescrizioni San Marco (6, 8-9) aggiunge quella di non provvedersi di cibarie (pane), ma in cambio permette di portare sandali e anche di recare il bastone soltanto.

[Dalla nota 1 alle pagine 418 e 419: Sulla doppia divergenza (§ 147) si è scritto molto, anche troppo. Si è voluto distinguere il sandalo più leggiero dal calzare più pesante e accurato, come pure si è supposto che il bastone permesso in Marco sia quello per appoggiarsi cammin facendo, differente perciò da quello proibito in Matteo che sarebbe il bastone in forma di mazza per difesa personale. La doppia distinzione è certamente possibile; ma, anche se non sia accettata perché giudicata troppo sottile, la suddetta divergenza non dovrebbe ragionevolmente suscitare tanto strepito, salvo che presso gli adoratori della lettera materiale. Chi, invece, avrà presente la dipendenza degli Evangelisti dalla catechesi primitiva (§ 110), preferirà forse la spiegazione proposta, conforme ai principii di Sant’Agostino, dal Maldonato: «Contrariis autem verbis eamdem uterque (evangelista) sententiam eleganter expressit. Uterque enim non Christi verba (e ciò vale contro gli adoratori della lettera materiale), sed sensum exponens voluit significare Christum apostolis praecepisse ne quid haberent, praeter ea, quae essent in praesentem usum necessaria». Questo significato comune ad ambedue gli Evangelisti sarebbe stato espresso, secondo il Maldonato, da Matteo con la formula «Non prendete nemmeno un bastone», perché anche un povero qualsiasi già possedeva almeno un bastone, e da Marco con la formula «Prendete solo un bastone», perché quando non si aveva che quello si aveva il solo necessario, conforme all’esclamazione di Giacobbe: «Avevo con me (solo) il mio bastone» (Genesi, 32, 10) (in Matth., 10, 10). Accettando questa spiegazione, si potrà discutere quale delle due formule, esprimenti lo stesso senso, sia letteralmente più vicina a quella impiegata da Gesù; ad ogni modo questa divergenza di forma è un bell’esempio per dimostrare che gli Evangelisti erano immuni da quel servilismo verbale che fu loro attribuito dalla “Riforma” protestante, ma che gli stessi critici radicali recenti non riconoscono (§ 112). In conclusione, bisognerà dar ragione a Sant’Agostino quando, trattando di siffatte divergenze verbali fra gli Evangelisti, affermava: «Una sententia est, et tanto melius insinuata, quanto quibusdam verbis, manente ventate, mutata» (De consensu evangelist., II, 27, 61) - Ovvero: Identico dunque il senso della frase: il quale senso poi risulta tanto più efficacemente espresso quanto più, nella differenziazione di alcuni termini, resta immutata l’identica verità, ndR].

Neppure dell’alloggio dovevano preoccuparsi i dodici. Giunti che fossero ad un gruppo di case, si dovevano informare di qualche capo di famiglia degno e di buona fama, e poi rimanere in casa sua senza più cambiare. Il caravanserraglio (§ 242) col suo andirivieni era luogo inadatto per quegli araldi del regno di Dio, i quali si dovevano occupare soltanto di affari spirituali, ed in nessun modo di negozi politici o commerciali. Il loro prezioso tempo doveva esser impiegato tutto nella loro missione; quasi certamente anche a questi dodici, come più tardi ai settantadue discepoli (§ 437), fu proibito di perdere il loro tempo per «salutare» quanti incontrassero nel cammino (Luca, 10, 4). In Oriente il “saluto” fra viandanti, specialmente se s’incontravano in luoghi solitari, poteva prolungarsi per ore ed ore parlandosi di tutto un po’ in segno di confidenza e quasi per obbligo di buona creanza: anche oggi, del resto, il beduino che si presenta per la prima volta allo sportello d’una stazione ferroviaria si crede spesso obbligato a chiedere dapprima al bigliettaio se sta bene di salute, se i figli crescono floridi, se il gregge o il raccolto sono soddisfacenti, e solo dopo questi e altri segni di buona educazione domanda il biglietto per il treno. Gli inviati del regno di Dio dovevano fare a meno di siffatti convenevoli, valendo per loro la norma Maiora premunt [lat. «urgono cose maggiori, più importanti», ndR]. Se qualche borgata non avesse accolto gli inviati del regno o avesse prestato loro scarsa attenzione, essi dovevano allontanarsi senza rimostranze, ma nello stesso tempo attestare che la responsabilità dell’allontanamento ricadeva su quella gente. A tale scopo dovevano compiere il gesto simbolico, appena usciti dalla borgata, di scuotere dai propri piedi la polvere raccolta in quel luogo: era come polvere di terra pagana, da non riportarsi sul sacro territorio d’Israele. • § 354. Ricevute queste istruzioni, i dodici partirono per la missione; è probabile che, nello stesso tempo ma separatamente da essi, partisse anche Gesù (cfr. Matteo, 11, 1). La missione non poté durare che poche settimane, sugli inizi dell’anno 29 (§ 355). Anche il suo risultato non ci viene comunicato; è detto solo in genere che i missionari predicando il «“cambiamento di mente”, scacciavano via molti demonii e ungevano con olio molti malati e (li) guarivano» (Marco, 6, 13). La loro predicazione del regno di Dio è dunque accompagnata, come presso Gesù, da segni miracolosi; come tali indubbiamente sono presentate le guarigioni qui accennate, pur essendo riconnesse con l’unzione d’olio. L’unzione d’olio aveva allora notevole importanza come medicamento usuale (§ 439); ma qui il contesto mostra chiaramente che il suo impiego non era quello fattone dalla terapia comune, bensì da una più alta e spirituale, che tutt’al più si serviva di quell’unzione come di simbolo materiale: analogamente l’usuale lavanda corporale era già stata impiegata da Giovanni, e anche dai discepoli di Gesù, per simboleggiare la mondezza spirituale del “cambiamento di mente” (§ 291). Più tardi, nel cristianesimo pienamente istituito, questa unzione d’olio sarà un rito particolare e stabile (Giacomo, 5, 14-15).

• § 355. Verso il tempo della missione dei dodici avvenne l’uccisione di Giovanni (il Battista), forse tra il febbraio e il marzo dell’anno 29. Se egli era stato chiuso in prigione verso il maggio del 28 (§ 292), erano già passati una decina di mesi; ma ne sarebbero passati molti di più, se non fosse avvenuto un caso imprevisto. [Erode] Antipa, infatti, s’intratteneva volentieri col venerato prigioniero e non voleva in realtà la morte di lui (Marco, 6, 20, greco); la voleva invece Erodiade, l’uno e l’altra per i motivi che già sappiamo (§ 17). Nel contrasto fra i due, prevalse l’astuzia e il rancore femminile. Erodiade, che stava in agguato, colse per agire l’occasione in cui Antipa festeggiava il suo giorno genetliaco. La festa era solenne, e vi erano stati invitati i maggiorenti della corte e dell’intera tetrarchia: tutta gente autorevole e danarosa, ma provinciale e ansiosissima di tenersi al corrente nel conoscere ed ammirare le ultime finezze dell’alta società metropolitana. L’occasione era opportunissima per Erodiade, giacché aveva sotto mano il mezzo per far rimanere sbalorditi quei provincialoni e nello stesso tempo ottenere ciò che agognava: aveva presso di sé Salome, figlia del suo vero marito di Roma, la quale nell’alta società dell’Urbe aveva imparato a ballare stupendamente, ad eseguire danze tali di cui quella gente grossolana non aveva neppur l’idea. La madre risvegliò l’amor proprio della ragazzetta, e la ragazzetta messa sul punto si comportò egregiamente. Introdotta che fu nella sala del gran banchetto al momento buono, quando i fumi del vino e della lussuria avevano già annebbiato i cervelli, la ballerina con le sue gambe piroettanti e lanciate in aria in tutti i sensi suscitò fra quegli imbambolati un delirio. Antipa ne fu addirittura intenerito. Con simili spettacoli la sua corte dimostrava di essere veramente “up to date”, aggiornata, e superiore alle altre corti orientali; soltanto in essa si davano esibizioni che appena nella corte del Palatino e in qualcuna delle più aristocratiche domus di Roma era possibile ammirare. L’infrollimento del monarca fu tanto, che fattasi venir dappresso la ballerina tuttora ansante e sudata le disse: «Chiedimi quello che vuoi e te lo darò!». E per maggior solennità aggiunse alla promessa un giuramento: «Qualunque cosa (tu) mi chieda te la darò, fin la metà del mio regno!» (Marco, 6, 23). Tra gli applausi frenetici dei convitati e le mirabolanti offerte del monarca la ballerina tornò ad essere inesperta fanciulletta, e si sarebbe forse smarrita: ma appunto questo momento delicato era già stato previsto dalla navigata madre, che le aveva dato consigli in proposito. Di quei “saggi” consigli materni si ricordò ella nel suo smarrimento, e subito riavutasi attraversò di corsa la sala per andare a consultarsi da sua madre, che teneva banchetto nella sala riservata alle dame: Mamma, il re è disposto a darmi fin la metà del suo regno, e l’ha giurato pubblicamente. «Che cosa chiederò?» (Marco, 6, 24). La navigata femmina capì che il suo uomo era caduto in trappola, e quindi ch’ella aveva vinto. Rivolta allora alla ballerina, fra una carezza e l’altra, le disse recisamente: Lascia tutto il resto, che non conta, e chiedi una cosa sola: «la testa di Giovanni il Battista» (ivi). L’adultera, per essere sicura nel suo adulterio, aveva bisogno dei servigi di una prosseneta e di un carnefice, ed affidava queste nuove incombenze all’inconscia sua figlia. Anche questa volta la ragazzetta si comportò egregiamente. «Ed entrata subito in fretta dal re, chiese dicendo: “Voglio che all’istante (tu) mi dia sopra un vassoio la testa di Giovanni il Battista!”. E, (pur) divenuto afflittissimo il re per i giuramenti fatti e (per) i commensali, non volle dare a lei un rifiuto. E subito, inviato il re un boia, ordinò di portare la testa di lui. E (il boia) partitosi, lo decapitò nella prigione, e portò la testa di lui su un vassoio e la dette alla ragazzetta e la ragazzetta la dette a sua madre» (Marco, 6, 25-28). L’afflizione del tetrarca, che si ritenne impegnato dal giuramento fatto in presenza dei convitati, non impedì che tutto si svolgesse con la massima naturalezza, come se si fosse trattato di accontentare il capriccio di una bambina che desidera un frutto maturo pendente da un albero: si manda un servo a staccare il frutto per porgerlo alla bambina, come allora si mandò il boia a tagliare la testa a Giovanni per porgerla alla ballerina. Dalle mani della ballerina, a cui non interessava affatto, quella testa ancora calda e grondante sangue passò nelle mani della madre, a cui interessava moltissimo: secondo una tardiva notizia data da San Girolamo, l’adultera avrebbe sfogato il suo odio forando con uno stiletto la lingua di quella testa, come già aveva fatto Fulvia con la testa di Cicerone (Adv. Rufinum, in, 42). Più tardi i discepoli del Martire riuscirono a ricuperare la salma, e le dettero sepoltura.

[Dalla nota 1 a pagina 422: Se nessuno studioso moderno avesse negato la storicità del racconto evangelico circa la morte di Giovanni, avremmo avuto una piacevole stranezza; per evitare la quale, la storicità è stata negata da pochissimi e per pretesti che si riducono ai seguenti: sarebbe stato indecoroso per la principessina erodiana far da ballerina in un convito, e la decapitazione del prigioniero ordinata durante il convito sarebbe stata un fatto di crudeltà inaudita e inverosimile; tutto il racconto quindi - dicono alcuni - è artificioso e falso. Certamente è molto cavalleresco difendere il decoro delle principesse erodiane, tuttavia lo studioso dei fatti reali darà ascolto piuttosto a Flavio Giuseppe quando narra pur con un certo ritegno le turpitudini di quelle principesse, per citare un solo esempio quelle dell’autorevole sorella di Erode il Grande, chiamata anch’essa Salome (cfr. Guerra giud., I, 498; Antichità giud., XVI, 221 segg.)].

Interrompiamo per un attimo la nota del Ricciotti e vediamo il “nobile comportamento” di queste principesse erodiane: «Alessandro, quando vide che non era possibile far cambiare idea al padre, decise di affrontare la situazione e scrisse un atto di accusa in quattro fascicoli contro i suoi nemici, in cui confessava il complotto ma ne denunziava come complici la maggior parte di loro, a cominciare da Ferora e Salome; quanto a quest’ultima, poi, dichiarava che una notte aveva voluto per forza unirsi con lui, nonostante le sue resistenze», ndR.

[Riprendiamo la nota:  Quanto alla crudeltà della decapitazione ordinata durante un banchetto, senza ricorrere a scrittori di cose orientali, basta leggere Cicerone il quale narra di L. Flaminino,. fratello di T. Flaminino, l’identico fatto: «Cum esset consul in Gallia, exoratus in convivio a scorto (si noti la persona!) est, ut securi feriret aliquem eorum, qui in vinculis essent damnati rei capitalis; (e la domanda fu appagata, ma) mihi... neutiquam probari potuit tam flagitiosa et tam perdita libido, quas cum probro privato coniungeret imperii dedecus» (De senectute, XVII, 42; lo stesso racconto con variazioni è ripetuto da Plutarco, Flaminino, XVIII). Se ciò accadeva presso i Romani, molto peggio poteva accadere presso gli Orientali. Del resto Erodoto (IX, 108-113) narra del persiano Serse un aneddoto di crudeltà somma benché diversa, ma in cui appare ugualmente la promessa fatta con giuramento da Serse a una donna di concederle tutto ciò che gli avesse domandato: anche questa volta il giuramento, sebbene a malincuore, fu mantenuto].

• § 356. Il luogo del martirio non è nominato dagli Evangelisti, ma secondo Flavio Giuseppe (Antichità giud., XVIII, 119) prigionia e martirio avvennero a Macheronte. Ivi, dunque, si svolse anche l’infame banchetto: dalla narrazione evangelica, infatti, risulta chiaramente che il prigioniero stava a pochi passi dai banchettanti, cosicché la domanda della ballerina poté essere appagata immediatamente. La circostanza non deve meravigliare: Macheronte era bensì una fortezza che faceva da baluardo contro gli Arabi Nabatei - anzi Plinio (Natur. hist., V, 16, 72) la chiamava la fortezza più agguerrita della Giudea, dopo Gerusalemme - ma era una di quelle costruzioni nello stesso tempo ben salde e ben comode che Erode il Grande aveva innalzato un po’ dappertutto nei suoi dominii; Giuseppe Flavio che la descrive a lungo (Guerra giud.,VII, 165 segg.) dice, fra le altre cose, che Erode costruì nel mezzo del recinto fortificato una reggia suntuosa per grandezza e bellezza di appartamenti, fornendola anche di molte cisterne e di magazzini d’ogni genere. Vi si stava dunque benissimo, e proprio in quel tempo Antipa vi doveva rimanere volentieri per sorvegliare più da vicino gli Arabi Nabatei, con i quali era in rotta per il divorzio della sua legittima moglie (§17). Oggi il fortunato viaggiatore che riesce a spingersi fino al luogo di Macheronte non vi trova che desolazione e squallore. Dell’antica costruzione, circondata da una larghissima zona totalmente deserta, non resta che un cono mozzato alla cima e interrato; sulla vetta affiorano basamenti d’antiche torri; alla sua base si aprono ampie caverne, che sono forse le antiche cisterne della fortezza e oggi servono a ricoverare d’inverno greggi di beduini nomadi. In qualcuna di quelle caverne, o li dappresso, Giovanni il Battista stette rinchiuso per molti mesi aspettando. Improvvisamente una sera in quel sotterraneo, dopo che vi era giunto il prolungato frastuono d’un lontano tripudio, giunse anche un boia con una spada in mano. Il prigioniero capì, denudò e protese il collo; un lampeggio, un tonfo, e il figlio di Zacharia e di Elisabetta non era più. Oggi il solitario beduino a cui il viaggiatore si rivolge in quel deserto per essere indirizzato, addita da lontano il cono mozzato di Macheronte, e ne pronunzia con ribrezzo il nome arabo: al-Mashnaqa («luogo d’impiccagione», «patibolo»). Sembra che da quel cono, come da un vulcano, parta una vampa esiziale che faccia desolazione all’intorno; la sagoma del cono si presenta proiettata all’ingiù, verso occidente, e le fa da sfondo il Mar Morto e la regione di Sodoma. 

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.