Comunicato numero 158. La donna rattrappita e l’uomo idropicoStimati Associati e gentili Sostenitori, vogliate, anche quest’anno, destinare il 5x1000 alla nostra piccola Associazione. È sufficiente indicare nella dichiarazione dei redditi (o in allegato ad altri modelli) il nostro codice fiscale - 01944030764 - nell’apposita casellina: «Sostegno delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, delle associazioni di promozione sociale ...». Grazie, Dio Vi benedica! Veniamo all’Abate Ricciotti ed alla sua «Vita di Gesù Cristo», da cui oggi studieremo il capitolo: «La donna rattrappita e l’uomo idropico. Questioni conviviali».

• § 455. Fecero effetto queste minacce? [«In quest’ultima dilazione concessa all’albero, o esso darà frutti, ovvero finirà sotto i colpi d’accetta», cf. Sursum Corda n° 157]. Divampava l’incendio acceso da quel fuoco che Gesù era venuto a gettare sulla terra? In altre parole, si stava attuando il «cambiamento di mente» che ripudiava il vecchiume formalistico e ricercava lo spirito nuovo? A queste domande San Luca non dà una risposta esplicita, ma sembra bene che ne dia una implicita mediante un aneddoto ch’egli soggiunge alle narrazioni precedenti, e che mostra come il formalismo rabbinico gravasse quale cappa di piombo sugli spiriti e non fosse stato neppure scalfito dalle minacce di Gesù. L’aneddoto è quello della donna rattrappita guarita di sabbato (Luca, 13, 10-17); senonché lo stesso Evangelista, indulgendo alla sua predilezione per i quadretti abbinati, poco dopo questo aneddoto fa seguire l’altro somigliantissimo dell’uomo idropico guarito egualmente di sabbato (14, 1-6). I due quadretti si richiamano logicamente l’un l’altro, come una ripetuta e sfiduciata risposta alle precedenti domande sull’efficacia della predicazione di Gesù, ed è quindi opportuno presentarli affiancati; tuttavia, egualmente dai dati di San Luca confrontato con gli altri Evangelisti, appare che i due fatti sono cronologicamente staccati, e che la donna fu guarita poco prima della festa della Dedicazione e nella Giudea, l’uomo invece poco dopo quella festa e probabilmente nella Transgiordania. Gesù dunque, durante la sua peregrinazione nella Giudea, si recò di sabbato in una sinagoga e si mise a predicare. Tra i presenti vi era una donna malata da diciotto anni - forse di artrite o anche di paralisi - e così rattrappita che non poteva in nessun modo alzare la testa e guardare in alto. Vistala, Gesù la chiamò e le disse: «Donna, sei disciolta dalla tua malattia»; e le impose le mani. Quella, raddrizzatasi all’istante, si dette a ringraziare e glorificare Dio. L’archisinagogo che presiedeva all’adunanza (§ 64) s’indignò per quella guarigione fatta di sabbato; non osando però abbordare direttamente Gesù, se la prese con la folla arringandola stizzito: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare: in essi dunque venite a farvi curare, e non nel giorno del sabbato!». Per quello zelante archisinagogo la guarigione miracolosa non significava nulla, il sabbato invece - che del resto non era stato violato - significava tutto. Gesù allora rispose a lui e agli altri della mentalità di lui: «Ipocriti! ognuno di voi di sabbato non scioglie forse il suo bove o l’asino dalla mangiatoia, e (lo) conduce ad abbeverare?». Infatti, sciogliere o stringere un nodo di fune era compreso in quei 39 gruppi di azioni ch’erano proibite di sabbato (§ 70); ma nella pratica, trattandosi delle bestie domestiche, si provvedeva in una maniera o un altra al loro sostentamento. Messo ciò in chiaro, Gesù argomenta a fortiori concludendo: «E costei ch’è figlia di Abramo, e che il Satana legò or è diciotto anni, non bisognava che fosse sciolta da questo legame nel giorno di sabbato?». Al Satana erano fatte risalire comunemente malattie di ogni genere (§ 78). Se dunque c’era un giorno più opportuno di tutti per dimostrare la vittoria di Dio sul Satana, cioè del Bene sul Male, era appunto il sabbato, il giorno consacrato a Dio: quindi Gesù, meglio d’ogni altro, era penetrato nello spirito del sabbato, operando appunto in esso quella vittoria di Dio sul Satana.

• § 456. Al ragionamento di Gesù la folla assenti cordialmente; quanto ai suoi avversari, San Luca dice che rimasero confusi, ma ciò non significa che assentissero al ragionamento. Già vedemmo che l’osservanza rabbinica del sabbato era uno dei piloni su cui troneggiavano i Farisei e che non doveva mai crollare (§ 431). Anche se i fatti miracolosi smentivano quell’osservanza, ciò non significava nulla: si trascurassero i fatti e si bestemmiasse lo Spirito santo (§ § 444, 446), purché rimanesse il sabbato farisaico. Il quadretto corrispondente si svolge, non in sinagoga, ma in casa di un insigne Fariseo che ha invitato Gesù a prender cibo da lui. È di sabbato, e i Farisei stanno spiando. Ecco che un uomo idropico si presenta a Gesù, attirato forse dalla sua fama di taumaturgo e sperando d’esser guarito. Gesù allora si rivolge ai legisti e ai Farisei dicendo: «È lecito di sabbato curare o no?». Quelli rimasero in silenzio, sebbene per molti casi la questione fosse già stata trattata e decisa dai dottori della Legge (§ 71). Continuando il silenzio, Gesù tira per mano a sé l’idropico, lo guarisce e lo licenzia; quindi dice ai silenziosi: «Chi di voi avendo il figlio o il bove che cada in un pozzo, non lo ritira su subito in giorno di sabbato?» [Si tratta di azioni che, anche oggi, il cristiano può compiere lecitamente di domenica, senza per questo venire meno all’ordine di Dio di santificare la festa, ndR].  - Ma anche questa domanda rimane, secondo San Luca, senza risposta. Appare a prima lettura che i due aneddoti sono somigliantissimi; solo che in quello dell’idropico gli avversari di Gesù non si mostrano acrimoniosi e si limitano a tacere. Poiché questo fatto sembra avvenuto in Transgiordania, bisognerebbe concludere che i Farisei e i legisti di quella zona, più remota da Gerusalemme, fossero un po’ meno fanatici e gretti di quelli della Giudea, i quali stavano sotto l’immediata influenza della capitale.

• § 457. La mancanza d’acrimonia in questi Farisei d’oltre Giordano appare anche dalla circostanza che il convito si protrasse a lungo e vi furono trattate senza astio varie questioni, cominciando da quella dei primi posti. Quei bravi Farisei non sarebbero stati Farisei se non fossero venuti a diverbio per occupare a mensa i posti più vicini al padrone di casa e più onorifici: Quel divano spetta a me! - Spetta invece a me, che sono più degno! - Più degno tu? Chi credi di essere? - Io sono più anziano e più dotto di te; cedimi il posto! - E così di seguito. Per gente che viveva soprattutto di esteriorità, siffatte questioni di etichetta erano capitali. Gesù intervenne commentando il diverbio, e volle confondere i litiganti mostrando come la loro vanità non fosse neppure abbastanza sagace nello scegliere i mezzi per trionfare. Disse egli: «Quando (tu) sia invitato da alcuno a nozze, non ti adagiare sul primo divano, affinché non (avvenga) per caso che uno più degno di te sia invitato da lui, e venuto colui che invitò te e lui ti dica: “Da’ posto a costui!” e allora (tu) cominci ad occupare con vergogna l’ultimo posto. Quando invece (tu) sia invitato, va’ ad adagiarti all’ultimo posto, affinché quando venga chi ti ha invitato ti dica: “Amico, sali più in alto!”. Allora avrai gloria al cospetto di tutti i tuoi commensali: poiché chiunque s’innalza sarà abbassato, e chi s’abbassa sarà innalzato». Confusa in tal modo la vanità degli invitati con la considerazione della loro propria imperizia, restava da mettere a posto l’atteggiamento dell’invitante, e in genere di tutti gli invitanti che troppo spesso agivano per vanagloria congiunta col tornaconto materiale; inoltre, agli invitati e agli invitanti, la lezione sul convito materiale poteva giovare per una sfera più alta, ricordando loro le norme e i vantaggi di un certo convito spirituale. Perciò Gesù, rivolgendosi all’invitante, proseguì: «Quando (tu) faccia un pranzo o una cena, non chiamare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né ricchi vicini, affinché non (avvenga) per caso che pure essi ti invitino alla loro volta, e tu abbia il contraccambio. Ma quando (tu) faccia un ricevimento, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e beato sarai, perché non hanno da contraccambiarti! Il contraccambio infatti ti sarà dato nella resurrezione dei giusti». Strettamente affine a questa norma è quella contenuta nel logion ignoto ai quattro Vangeli ma attribuito a Gesù da San Paolo: «È cosa più beata dare che ricevere» (§ 98). La base comune a tutte queste norme è sempre quella del Discorso della montagna, cioè una sanzione non terrena ma ultraterrena (§ 319): qui essa è chiamata «resurrezione dei giusti», altrove «regno dei cieli» oppure «venuta del figlio dell’uomo», ma è in sostanza la stessa base che sorregge tutto l’edificio della dottrina di Gesù, mentre tolta questa base l’edificio crolla e la dottrina non ha più senso. Erano perfettamente logici e conseguenziari gli antichi pagani di cui parla San Paolo, i quali, dal momento che negavano questa base ultraterrena alla dottrina di Gesù (cfr. Atti, 17, 32), trovavano che la stessa dottrina era una stoltezza (I Corinti, 1, 23). Ancora oggi, le posizioni dialettiche non sono affatto mutate, e la dottrina di Gesù è ancora definita o stolta o divina, a seconda che si respinge o si accetta quella sua base.

• § 458. Con l’idea della ricompensa ultraterrena quegli invitati erano stati sollevati - come appunto voleva Gesù - al pensiero di un convito spirituale. Allora uno di essi esclamò: «Beato chi mangerà cibo nel regno d’iddio!». Gesù prese occasione per presentare il regno di Dio quale un convito servendosi di una parabola, la quale è riportata sia da Luca (14, 16-24) sia da Matteo (22, 2-14). Le due recensioni sono differenti fra loro in parecchi accessori, ma soprattutto perché quella di Matteo ha per aggiunta uno sviluppo abbastanza lungo (22, 11-14) che non trova corrispondenza nella recensione di Luca. Recitò Gesù una sola volta la parabola nella forma più ampia di Matteo, che poi fu accorciata da Luca? Oppure la recitò nella forma più corta di Luca, che poi fu ampliata da Matteo con un frammento di altra parabola affine? Oppure la recitò più volte in forme diverse? Si è molto discusso su queste domande; la risposta più probabile sembra essere che Gesù abbia impiegato più volte nelle sue parabole questo tema generico del convito - come del resto facevano anche i rabbini - pur con mire alquanto diverse secondo le circostanze. La recensione pertanto di Matteo risulterebbe dalla fusione di due parabole conviviali di Gesù: la prima (22, 2-10) corrisponde sostanzialmente a quella di Luca; la seconda (22, 11-14) sarebbe soltanto la parte conclusiva di un’altra parabola, il cui antefatto manca perché nella redazione odierna si giudicò che la somigliante parabola di Luca lo sostituisse bastevolmente. Nella recensione lucana la parabola è la seguente.

• § 459. Un uomo fece una gran cena e invitò molti. All’ora opportuna spedì il suo servo agli invitati pregandoli di venire perché ogni cosa era pronta; senonché tutti cominciarono ad addurre pretesti per non venire. Uno disse: «Ho comprato un campo, e devo andare ad esaminarlo; scusami!» - Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi, e vado a provarli; scusami!» - Un terzo si sbrigò con poche parole: «Ho preso moglie, e quindi non ne parliamo nemmeno!» - Ottenute tali risposte, il servo le riportò al padrone. Costui allora si adirò, e dette ordine al servo: «Va’ per le piazze e le strade della città, e fa’ entrare al banchetto poveri, storpi, ciechi e zoppi!» - L’ordine fu eseguito, e il servo ne informò il padrone aggiungendo: «Quei disgraziati sono entrati, ma ci sono ancora posti vuoti.» - Il padrone allora replicò: «Esci ancora per la campagna, e fai entrare quanti troverai lungo i sentieri e le siepi; perché la mia casa dovrà essere gremita di quei disgraziati, mentre nessuno degli invitati di prima gusterà la mia cena!». Evidentemente il convito simboleggia il regno di Dio, gl’invitati riluttanti sono i Giudei, e i poveri che li sostituiscono sono i Gentili: ciò che appare anche meglio dalla recensione di Matteo. Luca termina qui; ma in Matteo la scena ha il seguito già accennato. Riempita la sala di quei miserabili, l’invitante (il quale in Matteo è un re che fa il convito di nozze a suo figlio) viene in persona nella sala a vedere i commensali. Ad un tratto scorge fra essi un tale che non ha indossato la prescritta veste nuziale (della quale, tuttavia, non è stato fatto cenno in precedenza). Il re perciò gli dice: «Amico, come mai sei entrato qui senza avere la veste nuziale?» - Quello tace confuso. Allora il re ordina agli inservienti: «Legategli mani e piedi, e gettatelo nella tenebra esteriore: ivi sarà pianto e stridor di denti!» - Gesù infine concluse dicendo: «Molti infatti sono chiamati, pochi tuttavia eletti». La parte finale di questo tratto singolare esce già dalla sfera simbolica e si riferisce direttamente all’oggetto vero della parabola (“pianto e stridor di denti”). Inoltre esso aggiunge un elemento nuovo alla parabola comune a Luca e Matteo, ed è che non tutti i nuovi invitati sono degni del convito, ma solo quelli che hanno la veste nuziale: fuori di allegoria, non tutti i Gentili che hanno sostituito i Giudei nel regno del Messia sono degni del regno, ma solo quelli che hanno le opportune disposizioni spirituali. Gesù, infatti, già aveva ammonito Nicodemo che se alcuno non sia nato da acqua e (da) Spirito, non può entrare nel regno d’Iddio (§ 288); questa rinascita interna era la condizione essenziale per entrare legittimamente nel convito messianico. L’esclamazione del commensale di Gesù: «Beato chi mangerà cibo nel regno d’Iddio!» era stata anche un’interrogazione, cercando in qualche maniera di sapere chi avrebbe goduto di quella beatitudine. Gesù ha risposto all’interrogazione mostrando chi avrebbe respinto e chi accettato l’invito al convito messianico, e fra quelli che l’avrebbero accettato chi se ne sarebbe mostrato degno e chi indegno.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.