Stimati Associati e gentili Sostenitori, a Dio piacendo concluderemo la breve dissertazione iniziata con il numero 216 di Sursum Corda e dedicata alla donna e la Chiesa: contro le aberrazioni e le falsificazioni del pensiero moderno. Utilizzeremo, anche oggi, l’opuscolo di approfondimento del Padre Giulio Monetti S.J., «Che cosa deve la donna a la Chiesa Cattolica?», Collana S.O.S., Serie III, numeri 30 e 31, imprimatur 1942. Preghiamo per l’anima dei nostri Autori.

• 5. La Madre cristiana. Veniamo adesso alla madre, tanto anch’essa nobilitata dagli splendori della luce Evangeli: anch’essa è grande, se vuole imitare gli esempi della Madre di Dio: anche ad essa incombe una sublime missione, non meno preziosa e necessaria al mondo di quella purificatrice e consolatrice propria delle vergini consacrate a Dio. E qui cominciamo dal punto fondamentale: dal concetto stesso della madre nella cristiana dottrina. Qui non abbiamo più nella madre soltanto una propagatrice dell’umana vita; la madre cristiana è qualche cosa di ben più eccelso. Se dalla natura (da Dio) essa fu disposta a rifornire man mano il mondo di nuovi abitatori ragionevoli, dal Sacramento del Matrimonio essa è chiamata al compito gloriosissimo di popolare il Cielo di nuovi Santi, educando i figliuoli non solo alla vita terrena, ma più specialmente alla vita eterna. Quel bimbo che essa genera, diverrà, grazie al Santo Battesimo, figlio anche di Dio, e Principe ereditario del Paradiso: quindi, se la madre sarà all’altezza del suo mandato, serberà sacro a Dio il caro deposito, e, con sollecita cura e gelosa, veglierà affinché quel cuoricino d’angelo non si disponga alla corruttela del vizio, ma col crescere in età diventi fecondo d’ogni affetto virtuoso. Fatto adolescente, il suo figliuolo verrà dal Sacramento della Cresima armato soldato di Gesù Cristo, difensore della sua fede e della sua Chiesa; toccherà di nuovo alla buona madre, con saggia e assidua educazione domestica, addestrarlo alle prime battaglie, e confortavelo col vivifico nutrimento della devota pietà, agguerrirlo contro le proprie passioni: sia con l’insegnamento che con l’esempio... E lei felice, se il giovane atleta par opera di lei entrerà generoso nel cammino della vittoria! Quando entrambi saranno entrati nei confini dell’eternità, un medesimo trionfo li renderà per sempre gloriosi: anzi m’immagino che il fortunato figliuolo ben volentieri farà omaggio alla madre della sua corona trionfale, poiché giustamente la riconoscerà da lei! Che prospettiva luminosa presenta dunque alle madri il Cristianesimo! E quali consolazioni ineffabili, imperiture, va preparando al loro cuore! Né manca di premunirle contro l’eventuale ingratitudine e riottosità dei figliuoli, cosa purtroppo non nuova in questo povero mondo.... Chè la Chiesa, presentando loro le Sacre Scritture, parola di Dio, fa leggervi ai figliuoli questi ammonimenti: «Quando tua madre sarà incanutita, guardati bene dal perderle il rispetto o dall’averla in non cale». «Non porre in dimenticanza i gemiti di mamma tua!». «L’occhio che si sia volto alla mamma con disprezzo, sia divelto dall’orbita da corvi del torrente, sia privo dal più vedere la luce, sia divorato dagli uccelli di rapina!». « Guardati dal meritare la materna maledizione; perché la maledizione di una madre dirocca sino dalle fondamenta le fortune meglio stabilite!». Chè se poi il figlio sciagurato traviasse, straziando il cuore della madre sua, la Chiesa sa alla povera madre suggerire ancora un rimedio; il rimedio così potente della preghiera e dei sacrificii; se la voce materna è sì potente presso Dio nel maledire, è almeno altrettanto potente nel supplicare a prò dell’anima dei proprii figliuoli. E la madre; veramente cristiana pregherà per essi; e imiterà l’esempio di S. Monica: piangente e supplicante per i traviamenti del suo povero Agostino, ed errante sui passi di lui, nell’ansia di riscattarlo alla fine e salvarlo. E lo salverà davvero anche lei, dovesse per ben 17 anni attendere l’ora della grazia come la attese Santa Monica... Anche di lei un altro Sant’Ambrogio dirà che figli di tante lacrime non possono andare perduti!

• Ricapitolando... Possiamo dunque dire, in generale, che la donna cristiana, sia nello stato verginale, sia a capo di una famiglia, è una creatura trasumanata, cara visione consolatrice... Diremo anche di più: essa è dappertutto una visione sovranamente benefica, consolatrice... Nella famiglia essa è, per la sua delicata e sollecita pietà figliale, il dolce conforto dei vecchi genitori; cresciuta alla longanimità amorevole, avvezza insieme al sacrificio, sarà il buon angelo di quel fortunato che la condurrà in isposa; e per i figliuoli, preziose perle da Dio piovutele in seno, la sua tenerezza, tutta fatta di divina carità e di operosa sollecitudine, non conoscerà confine. Ma più specialmente nel saio religioso rivelerà al mondo la poderosa efficacia, l’inesausta energia  benefica che sa comunicarle l’amore divino; in forza di questa, la vergine a Dio consacrata sarà a volta a volta la madre dell’orfano, la provvidenza del povero, il conforto dell’infermo, il sostegno dell’affranto vegliardo; e persino tra il fragore delle tonanti artiglierie, là, nell’ambulanza da campo, raccoglierà, pietosa infermiera, l’ultimo sospiro del guerriero morente. Certo ci vorrebbero molti volumi a ben lumeggiare simili eroismi; ma il miglior panegirico che se ne potesse fare sarebbe comunque al disotto del merito; adeguato, perfetto, lo fara solo Cristo Giudice nel giorno estremo! Per ora accontentiamoci di riconoscere in tutto vere le magnifiche parole del Lacordaire.

• «Per una delegazione speciale, e quale impiego del suo tempo, e della sovrabbondanza delle sue virtù, alla donna cristiana sono stati affidati lutti i poveri, tutte le miserie, tutte le piaghe, tutte le lacrime. Essa è che in nome e in luogo di Gesù Cristo deve visitare gli ospedali, penetrare sino alle soffitte, sorprendere i gemiti, i sospiri anche più furtivi, esplorare il regno tanto e tanto vasto del dolore. Ad altri è commessa la cura della dottrina; a lei quella dei soccorsi; ad altri il rappresentare Gesù colla spada della parola; a lei il rappresentarlo colla gravità della tenerezza affettuosa! E, senza aggiungere altro (che ce ne vorrebbe troppo), vuoisi un paragone che in poco dica molto? Eccolo: tra il mondo pagano e il mondo cristiano, quanto alla donna, corre la stessa differenza che tra la sacerdotessa di Venere e la Suora di San Vincenzo de Paoli; andate al famoso tempio di Corinto, e vedetevi la sgualdrina che non ha più nulla da perdere: entrate nei nostri ospedali e vedrete la nostra Suora di Carità; ecco i due mondi, le due società!». [Purtroppo oggigiorno, a causa delle ribalderie politiche laiciste, delle Rivoluzioni, dei “risorgimenti” e, soprattutto, a causa del funesto ed ereticale Vaticano Secondo, la società si è gradualmente trasformata in peggio: tendendo sempre più al paganesimo. Ed ecco che sovente, anzi quasi sempre e dovunque, dobbiamo riconoscere sgualdrine in luogo delle Suore di Carità. Questa è la triste eredità delle società di fatto senza Dio, anche se nelle chiacchiere millantano fede e carità, ndr.].

• Conclusione. Qui ormai possiamo concludere: ce n’è a sufficienza per provare quanta riconoscenza la donna rigenerata debba alla Chiesa! Chè da questa essa riebbe la sicurezza personale, la dignità, la guarentigia dell’onore, la sollecitudine dei delicati riguardi, la stima, l’amore, l’equo riconoscimento dei diritti civili (dei veri diritti civili, non dei diritti incivili che le vengono concessi oggi per pervertirla, ndr.), il suo posto di regina nella famiglia oltre alla missione più invidiabile che ottenne nella società; per non ridire della più lusinghiera glorificazione che ebbe nella persona di Colei, cui il poeta cantava: «Vergine bella che di sol vestita. Coronata di stelle, al sommo Sole. Piacesti sì, che in Te sua luce ascose... e cui tuttora l’universo cristiano inneggia innamorato: “Salve Regina, Madre di misericordia, vita, dolcezza, speranza nostra!”». Perciò ripetiamo che tra lei genti infellonite che si levano in fremito tumultuoso contro la Chiesa: tra i popoli macchinanti stoltezza contro il Signore e il Cristo suo; tra quelle voci blasfeme, tra quelle fronti proterve, non dovrebbe gemmai udirsi la voce, scorgersi la fronte di una donna: troppo la donna deve a Gesù Cristo, troppo alla sua Chiesa!

• Un po’ di contraddittorio. — «Cicero pro  domo sua!» — Sarà relativamente facile lo spigolare qua e là qualche tratto di privato autore cattolico, e persino qualche fatto più o meno eloquente che deponga in qualche modo in favore dell’interesse della Chiesa Cattolica per la donna: anche nei più fanatici il buon senso si prende a quando a quando la sua brava rivincita: — così pure la voce del cuore impone alla mente le sue leggi imprescrittibili di benevolenza al proprio simile, di simpatia per il debole oppresso, di cooperazione al bene comune, di convivenza più o meno armonizzata.... E così la Chiesa, specialmente dopo il fallimento delle istituzioni pagane riguardanti la donna, trovò opportuno — ecco il calcolo politico utilitario sufficiente a spiegare tutto — cambiare rotta e surrogare ai sistemi vecchi i sistemi nuovi, con un po’ di comodo modernismo pratico... Ma, se si sta ai domini ufficiali, alle dottrine solennemente definite — vale a dire alle teorie che si vorrebbero immutabili — le cose cambiano: bisognerebbe poter cancellare certe pagine della storia che stanno lì a dimostrare che, proprio la Chiesa Cattolica, con tutto il suo preteso riguardo verso la donna, col suo culto alla Vergine ed alle Sante del suo calendario, proprio essa lanciò in faccia alla donna l’ingiuria più cocente, negandole nientemeno che un’anima umana, e quindi la dignità di persona, con tutte le degradazioni, e private e pubbliche e consuetudinarie e giuridiche, che ne conseguono... — Sentiamo che ne dice il Guizot, scrittore peraltro assai benevolo al Cattolicesimo: egli dice testualmente («Memoires relatifs a l’histoire de France», I- 449): «Ci fu un Concilio, nel quale da uno dei Vescovi si proclamò che non si doveva annoverare la donna nella categoria degli uomini» — È chiaro?

• Rispondiamo:  — Tutto qui? È pochino davvero per fare la voce grossa contro la Chiesa: e questa povera freccia spuntata non vale di più delle mille altre inutilmente scoccate dall’empietà contro la santa Sposa di Gesù Cristo! — Ragioniamo. Di che sì tratta? — Potremmo, in buona critica, non tener conto del testo del Guizot, posto che non cita né data, né nomi, né luoghi, per quello che narra: in tali condizioni di testo, chi ci garantisce in modo autentico l’attendibilità della narrazione? — Spetta all’accusatore il provare l’accusa: ma gli ci vogliono prove precise, concludenti; non chicchere anonime, dicerie correnti, che ben possono essere o calunnie maligne o palloni gonfiati od anche semplici leggende nate non si sa come e peggio divulgate con la consueta incoscienza di gente irresponsabile... Di tali bubbole ce ne son tante in giro! Però suppliremo noi alla deficienza del testo del Guizot. Tutto fa credere che egli si riferisca al racconto che troviamo in San Gregorio di Tours, nella «Historia Francorum» VIII-20 (P. L. LXXI-462). Vi si legge che nel Concilio di Macon (tenuto nell’ottobre del 585) vi fu un tale tra i Vescovi, che diceva non potersi la parola «uomo» adoperare per significare la donna. Tuttavia si lasciò convincere del contrario dagli altri Vescovi, dato che la Sacra Scrittura, nel Vecchio Testamento c’insegna che (Iddio creò Adamo ed Eva) ... Inoltre Gesù Cristo stesso suole chiamarsi «Figlio dell’uomo», perché nato dalla SS. Vergine, che era una donna... E con molti altri argomenti lo scrupolo del Vescovo si acquietò — Ecco il fatto nella sua semplicità. E adesso un poco di analisi del fatto stesso: essa ci mostrerà affatto ridicolo lo scalpore menato per questo fatto: non era proprio il caso che se ne occupassero gli studiosi tanto sul serio da farne come un affare di Stato! E veramente sino al 1595 non si trova scrittore alcuno che desse alcuna importanza all’accennato episodio: per ben mille e dieci anni nessuno se ne commosse. Ci voleva la piccineria maligna della critica anticattolica, uso «Centuriatori di Magdeburgo», per attaccarsi a simile inezia, pur di farsene un’arma contro la Chiesa! E da quel punto «generazioni intere di eruditi o sedicenti dotti divulgarono la storiella che — nientemeno! — al concilio di Macon s’era messo in discussione se la donna avesse o no un’anima umana!» (G. Kurth, «Le Concile de Mâcon et les femmes», in «Revue des questions historiques» 1892, LI-559) — E il Bayle ne parla nel suo «Dictionnaire historique et critique», 1897, 1-86: e l’Aimé-Martin nella sua «Pedagogia per le Madri di famiglia» (Parigi, 1. II, c. 6.o, p. 44) fa lo scandalizzato, scrivendo: «Si giunge al punto di mettere in dubbio l’esistenza di un’anima umana nelle donne»: e finalmente il Laurent e il Crémieux, nel 1851, portano la faccenda all’Assemblea Nazionale francese, forse per un senatusconsulto «ne quid respublica detrimenti capiat!» — E nondimeno ci voleva tanto poco a vedervi il trucco, la montatura! Torniamo al fatto e supponiamo, per un momento, che realmente il 2° Concilio di Macon avesse definito che la donna non ha anima umana. Sarebbe stato quello uno sproposito marchiano e doloroso: ma la fede cattolica non vi sarebbe entrata per nulla: è risaputo che Concilii soltanto provinciali, com’era quello, non hanno voce definitiva in materia dogmatica, né i loro decreti s’impongono alla Chiesa Universale come materia di fede. Ciò compete soltanto al Papa nelle sue «locutiones ex cathedra» ovvero al Concilio Ecumenico confermato dal Papa. — Per conseguenza, il Concilio di Macon non avrebbe fatto testo: le sue sentenze avrebbero potuto essere discutibili, anzi errate senz’altro, in buona Teologia Cattolica. Ma c’è poi stata davvero una sì strana definizione contro la dignità della donna? Per quanto la si cerchi negli atti del 2°  Concilio di Macon, conservatici in antichissimi Codici e riprodotti nelle classiche Collezioni del Crabbe, del Surius, del Sirmond, del Lalande, del Labbe, dell’Hardouin, del Bouquet, del Mansi, del Maassen, dell’Hefele-Leclercq, non la si trova: anzi neppure si agitò ufficialmente tale questione. E perché mai se ne sarebbe trattato, se non era questione di cose ma soltanto di parole, questione non di credenze ma soltanto grammaticale, o meglio lessicografica? — Inoltre soltanto una voce sarebbe stata discorde, contro la voce di tutti gli altri Vescovi; né l’unico Vescovo discordante persistette nella sua opinione, dacché rimase convinto dalle prove addottegli in contrario; che si vorrebbe di più per ritenere «chiuso l’incidente», evidentemente un «incidente di corridoio»? Lasciamola lì! Sarà meglio per noi, a non perdere il nostro tempo, per l’onore dei nostri avversari — a non cadere nel ridicolo —, come pure per la serietà delle nostre discussioni!

• Ebbene, lasciamo pure questa questione, e passiamo ad altra, certamente seria e di tutta attualità... Come va che la Chiesa Cattolica approva, nel mondo del lavoro, il cosiddetto «salario femminile» che, per un medesimo lavoro, dà alla donna retribuzione inferiore a quella dell’uomo? — Che ingiusto antifemminismo!

• Rispondiamo: — Adagio con le obiezioni! Chè qui le cose si complicano e bisogna andar cauti. Distinguiamo anzitutto quale sia la parte della Chiesa in fatto di problemi economici e sociali, di fronte ad altre competenze. — La sua propria competenza in materia non è competenza tecnica che verifichi caso per caso l’equivalenza tra salario e lavoro imperata dalla giustizia: ciò spetta agli economisti, ai periti giudiziari od industriali, ecc. — La competenza della Chiesa è, invece, nettamente morale: supposti cioè già noti altronde i limiti massimi e minimi riconosciuti dalla giustizia, essa impone di rispettarli; imponendo insieme il rispetto d’ogni altro obbligo morale di carità, equità, fedeltà, ecc., che sussista in concreto nei vari casi. — E, quanto a questo, la Chiesa non guarda in faccia a nessuno: né fa differenza tra uomo o donna, ricco o povero, potente o inerme, civilizzato o selvaggio, scaltrito od ingenuo... Inoltre gli Economisti dimostrano che normalmente il lavoro femminile è in sé stesso meno redditizio del lavoro maschile: ond’è la sua minore valutazione sul mercato, stando ai criteri oggettivi di stretta giustizia. Socialmente poi, salva sempre la giustizia, i padroni ed i legislatori hanno ragione di arginare — anche coll’esiguità dei salari — l’esodo della donna dalla casa e dalla famiglia: officina ed impiego sono atmosfera in cui essa si sciupa, spesso irrimediabilmente: ad ogni modo sono atmosfere ben diverse da quella che le è destinata dalla natura! — Troppo lo prova la continua esperienza.

• Continua l’obiezione: Almeno si dovrà concedere che, accanto alle sollecitudini sue lodevolissime per l’elevazione della donna, la Chiesa Cattolica non fa mistero della sua opposizione al moderno femminismo: opposizione che depone contro di lei!

• Rispondiamo: — Non pare! Non dobbiamo qui badare soltanto alla identità di natura, sempre natura umana tanto nell’uomo quanto nella donna, con propria dignità personale, e con tutti i diritti che ne conseguono; come neppure dobbiamo fermarci alla capacità intellettuale, o morale, o fisica, che può ben essere in tale uomo. Bisogna invece attendere, più che ad altra cosa, alla missione della donna, al posto assegnatole da Dio nella società; di qui le determinazioni e i limiti della capacità giuridica femminile, onde sopratutto si preoccupa il femminismo. E c’è una missione propria della donna: mascolinizzare la donna, come pretende il femminismo, è almeno tanto stolto quanto il volere effeminare l’uomo. Ciascuno al suo posto! Non è vero?

• Continua l’obiezione: Egregiamente! Ma a condizione che il posto non sia arbitrariamente, violentemente fissato da usurpazioni, tirannidi, o giù di lì! — Orbene l’uomo s’è fatta, in confronto della donna, la parte del leone, col diritto della forza prepotente, e del sopruso, sfruttando la donna, quasi lui fosse tutto, e la donna non fosse nulla... E la Chiesa a benedire il fatto compiuto, ratificandolo!

• Rispondiamo: — Adagio un poco! Lasciamo ai tribuni — e magari alle tribunesse (sic!) — le sonore frasi da comizio: ragioniamo pacatamente, oggettivamente. E ripetiamo con la Chiesa che quanto sia contro la (vera) dignità umana è da riprendersi, e da punirsi in sede competente, anche se venga usato contro la donna, contro l’ultima delle donne. Su questo non si discute. Discutiamo, invece, se l’uomo e la donna debbano essere mutualmente indipendenti: se, dovendosi pur associare, debba l’uomo sottostare alla donna e la donna all’uomo: ovvero se possa accadere l’una cosa o l’altra, indifferentemente, senza gravi inconvenienti. L’ipotesi della mutua indipendenza è da scartare risolutamente: Dio Creatore ha fatto l’uomo e la donna l’uno per l’altro, perché si associno; il che moralmente importa tale coordinazione di attività e di atteggiamenti, che non può evitarsi la subordinazione d’una parte all’altra. [Lo attesta inconfutabilmente la legge di natura, ndr.]. E chi sarà il subordinato? L’uomo alla donna? La donna all’uomo? Vediamo? La stessa natura delle cose, oltre allo spontaneo sistemarsi della vita domestica e civile, mostra un’anomalia stridente nell’ipotesi che l’uomo obbedisca alla donna. Quando si tratta di libera concorrenza (non preclusa da determinate esigenze dell’ordine naturale, o da leggi positive, o da diritti affermativi preesistenti), il primato è di chi se lo piglia onestamente: e se lo piglia onestamente chi vi perviene senza violenze né fisiche né morali, senza imbrogli e senza altre irregolarità. Ciò fece l’uomo: e fece bene, secondando il disegno di Dio, che apposta lo fece preponderante sulla donna per ingegno, per forze, per costanza di propositi, ecc.; e la donna capì anche essa che, meno provveduta dell’uomo per le battaglie della vita, doveva “contentarsi” del secondo posto, e lasciargli il primo. E la Chiesa che poteva ridire? Con questo resta automaticamente eliminata l’ultima ipotesi: cioè non è per nulla indifferente il predominio dell’una parte o dell’altra del genere umano. Normalmente il predominio della donna sull’uomo non si potrà mai né in fatto, né in diritto, verificare; e quando per caso eccezionale mai accadesse, sarebbe sempre un’anormalità.

• Continua l’obiezione: Ahi! Con simili ragionamenti ricadiamo a piè pari nel paganesimo consacrante il diritto della forza! Sia essa forza di muscolo, o forza d’ingegno! La Chiesa parrebbe più coerente a se medesima, se, dopo aver parificata la donna all’uomo nella figliuolanza di Dio, nel diritto ereditario al Paradiso, uguagliandola così all’uomo innanzi a Dio loro Padre comune, l’uguagliasse altresì — e di diritto — innanzi agli uomini, alla società!

• Rispondiamo: — Il concetto cristiano, piuttostochè contraddire alla subordinazione della donna allo uomo, la ribadisce e in teoria e in pratica. In teoria: San Paolo scrive chiaro ai Corinzii che «capo della donna è l’uomo». In pratica poi, lo stesso San Paolo inculca alle donne la soggezione agli uomini, e il tacere ascoltando: si sa inoltre che la Chiesa esclude, per istituzione divina, la donna da ogni Ordine sacro. Né giova l’appello alla comune figliolanza di Dio ed all’eredità del Paradiso, anch’esse comuni, per chi voglia acquistarle: tali elementi sovrannaturali non c’entrano nella costituzione dell’ordine sociale naturale: ed anche entrassero, non sarebbe già per distruggerlo, ma per perfezionarlo. Siamo infine perfettamente d’accordo che forza e ingegno non creano di per sé il diritto, né lo misurano: valgono peraltro, se usati legittimamente, a creare situazioni di fatto, nelle quali si concretino le condizioni richieste all’attuazione del diritto: per esempio, nei casi di precedenza, occupazioni, invenzioni, meriti civili, ecc. Ci siamo?

• Continua l’obiezione: E allora la donna, proprio come ai tempi in cui Berta filava, dovrà rassegnarsi in perpetuo alla reclusione in casa? Tale almeno parrebbe in suo riguardo il pensiero della Chiesa!

• Rispondiamo: — E chi parla di reclusione della donna? Proprio in questi tempi nei quali la Chiesa tanto inculca l’Azione Cattolica, anche femminile ? Ma, tolta simile esagerazione, resta pur sempre vero che casa e famiglia sono il regno della donna [e non sono affatto una reclusione, ndr.]; lì deve svolgere l’ammirabile sua missione educatrice, consolatrice. E l’esperienza è là per dimostrare che la donna fuori di tale ambiente si sciupa: perde man mano quel riserbo ch’è il grande suo pregio: perde la paziente assiduità a quei minuti doveri per i quali ella, e non l’uomo, ha da natura la mano: perde la delicatezza d’affetto che deve nutrire per i suoi: e così invece di armonizzare insieme i vari elementi della famiglia — sua provvidenziale prerogativa — ne allontana il benessere e la pace.

• Continua l’obiezione: Se è così, addio, cultura femminile; addio  impieghi; addio interessamento per la vita pubblica! Per le povere donne non resterebbe altro ideale che quello — ben antipatico — di cenerentola! 

• Rispondiamo: — E dàlli colle vacue sentimentalità! Cenerentola, la regina del focolare? L’Angelo della casa? Chè il regno della casa si offre da sé, per natura di cose, ed è riaffermato dalla Chiesa alla donna, se essa se lo sa meritare! Né dirla subordinata al marito, al padre, ai fratelli, è il dirla senz’altro una schiava: non ogni soggezione è schiavitù, ma soltanto la soggezione violenta dello sfruttato sotto lo sfruttatore. Malinconia antipatica la vita casalinga della donna? Ma chi ha mai detto che si debba restringere all’opera della cucina, del guardaroba, della pulizia ed ordine delle stanze, dell’economia domestica? Certo vi dovrà attendere, secondo il suo grado; però — di nuovo secondo il suo grado — non le sarà interdetto di procurarsi una cultura, anche singolarissima, se ne sia capace: ma siccome scienza e cultura non sono che un mezzo per la perfezione umana, e questa è nel fare il proprio dovere e nell’esercizio della virtù, la donna non dovrà, per amore d’istruzione, rendersi inetta ai propri uffici, trascorrendo oltre al campo da Dio assegnatole. Lo stesso dicasi degli impieghi, in proporzione: se dura necessità impone oggi anche alla donna di cercarsi fuori di casa un pane per vivere essa e i suoi, non c’è da ridire, dovrà rassegnarvisi, come ad una malattia economico-sociale che travaglia contagiosamente la società moderna: ma ciò non potrà mai aversi per norma, essendo in verità degenerazione e sventura. Non parleremo infine degli svaghi onesti e delle giuste libertà che la donna potrà prendersi, anche fuori di casa, col santo timore di Dio e senza offendere in nulla i proprii doveri personali e famigliari: sicché — lo ripetiamo — la sua vita domestica è tutt’atro che reclusione. Da quando in qua s’è pensato di riprendere come scandalo le belle passeggiate festive o serotine della donna cristiana appoggiata al braccio del suo consorte, coronata dal vispo e chiassoso corteggio dei figliuoletti, quando e in chiesa e in casa siasi da lei compiuto tutto il suo dovere? Chi mai troverebbe a ridire sulle sue corse caritatevoli in visita di infermi o di poveri, in intervento ad adunanze od attività di Azione Cattolica, in ossequio alle convenienze sociali, che anch’esse appartengono al fiore della cristiana carità, se ben intese e praticate? Non si rinfacci alla Chiesa un farisaismo tirannico, che le è affatto estraneo!

• Continua l’obiezione: Ancora un’ombra: l’ostilità della Chiesa all’entrata della donna nella vita pubblica, politica.

• Rispondiamo: — Intendiamoci: opposizione aprioristica la Chiesa non ne ha mai dimostrata in proposito; non emanò in materia né definizioni né leggi. Ciò non toglie però che la Chiesa preveda per lo scendere della donna in piazza per le competizioni elettorali, o per il suo entrare nei Parlamenti, dei seri malanni... Tra l’altro ci sarebbe questo (e sarebbe ancora il meno!): Che due comari s’accapiglino sul mercato, l’è già buffa e brutta: ma che due deputatesse (sic!) si accapigliassero in Parlamento, che chiassata edificante per i Deputati, per la Nazione e per l’inclito pubblico internazionale? E la faccenda rischierebbe di non finire lì! [Previsione della Chiesa azzeccatissima anche questa. Dopo il decadimento della fede, della morale e dello stesso intelletto, complice il femminismo ma non solo, anche la politica ha raggiunto dei livelli di bassezza, di disonestà e di incompetenza come non si aveva memoria prima, ndr.]. Finiamo intanto noi il nostro cortese contraddittorio: non è forse tempo di lasciare in libertà il paziente lettore?

• Adesso alcune note di approfondimento a quanto pubblicato sui numeri 216 e 217 di Sursum Corda. 1° Da rapporti ufficiali fatti alla Camera dei Comuni in Inghilterra si ricava che anche sotto il dominio inglese perdurò assai a lungo (in India) l’orribile costume di bruciare vive le vedove indiane sul rogo dei loro defunti mariti. Per esempio, ancora nei quattro anni 1935-38, non furono meno di duemila seicento donne che nelle Indie Inglesi perirono in sì atroce maniera. Possiamo qui trascrivere dal rapporto ufficiale di Sir W. C. Malet, Presidente della Compagnia delle Indie a Poona, i seguenti raccapriccianti particolari su una di quelle tragiche scene. Eccone il racconto. «La giovane Poolesbay aveva sposato un uomo ragguardevole di Poona, che morì dopo cinque anni di matrimonio. Appena ne fu divulgata la morte, la vedova, in età di diciannove anni, si trovò circondata da Bramini, che la sollecitarono ad uniformarsi all’uso stabilito: minacciandola, in caso di rifiuto, d’infamia in questa vita, e di pene eterne nell’altra. Indarno un suo fratello, che l’amava teneramente, e che col frequentare gli Europei aveva acquistato sentimenti più umani, si sforzava di salvarla da sì orrendo supplizio. Totalmente sottomessa all’influenza dei Bramini, e vinta dal superstizioso terrore che s’era impadronito del suo spirito, ella acconsentì di abbandonarsi al fuoco, pensando: “Meglio ardere un’ora che tutta un’eternità!”. Il tempo del sacrificio fu fissato per il giorno seguente, alle cinque pomeridiane. Un corteggio immenso, composto di bramini, di guardie del Governatore, e di una folla stragrande di popolo, si avviò alla casa della vittima; e questa ne uscì accompagnata dai suoi genitori. La giovane era di statura mezzana, ma di forme eleganti, di lineamenti nobili ed espressivi, che le davano un’aria di dignità, resa ancor più spiccata allora dalla solennità della circostanza. I suoi capelli ondeggianti erano ornati di fiori, e i suoi sguardi innalzati al cielo sembravano già assorti nella contemplazione dell’eternità. Ella traversò la città spargendo a profusione foglie di cocco e di betulla. Giunta alle rive del Mootah, fiume che scorre in vicinanza di Poona, ella vi fece le sue ultime abluzioni: indi sedette sulla riva. Un ombrello tenuto sul suo capo la proteggeva dall’ardore del sole: mentre una delle sue compagne le faceva aria al volto, agitando un fazzoletto di seta. Essa era attorniata dai parenti, da alcuni amici e dai principali bramini, ai quali essa distribuì duemila rupìe e le ricche gemme ond’era ornata, non riservandosi altro che gli ornamenti consueti, cioè un anello che le trapassava le narici, e un braccialetto a ciascuno dei polsi. Fatta questa distribuzione, la povera vittima si pose in atteggiamento di preghiera e di invocazione, a mani giunte ed alzate sopra la testa; mentre, non lungi di là, a cento braccia di distanza, si veniva innalzando il rogo che doveva consumarla. Il funebre apparato si componeva di quattro pali dell’altezza di sei piedi, conficcati in terra per modo da formare un rettangolo lungo nove piedi e largo sei. Un tetto di assi, carico di quanti fastelli poteva sostenere, era attaccato per mezzo di corde alla sommità dei pali: alla base poi venne alzato, sino all’altezza di quattro piedi, un ammasso di legna coperto di paglia e di rami secchi di un arboscello odoroso; tre lati del rettangolo furono chiusi accuratamente con gli stessi materiali, lasciando aperto soltanto il quarto per dar passo alla vittima. E quando questi preparativi furono terminati, la povera Poolesbay s’avanzò con gli amici. Giunta a poca distanza dal rogo, essa si fermò: rinnovò i suoi atti di devozione [della falsa religione nella quale era nata, ndr.], e si ritirò un poco in disparte per lasciar passare il cadavere del defunto. Questo, ritirato dalla riva del fiume, dove era stato deposto, fu collocato sopra i sarmenti con grande quantità di paste, di confetti, e con un sacchetto pieno di sandalo. Dopo ciò la vittima girò tre volte attorno al rogo; poi, collocandosi sopra una pietra quadrata che si usa sempre in simili circostanze, e che portava rozzamente scolpita la forma di due piedi, ricevè dagli amici gli ultimi addii. Accarezzò coloro ai quali era più affezionata, passando loro sul capo la destra; si chinò verso di loro per abbracciarli affettuosamente, e s’incamminò al rogo... Giunta ad esso, si fermò un momento prima di salirvi: forse la fece esitare l’amore alla vita! Ma poi il fanatismo la vinse. Con passo fermo e sicuro, salì i gradini: si distese accanto al cadavere di suo marito, e subito fu tolta alla vista degli spettatori per mezzo della gran paglia con cui fu ostruito il passaggio ed alla quale fu subito dato fuoco. Dopo pochi secondi la sventurata giovane gettò un orrido grido. Il bruciore delle fiamme distrusse in un attimo l’ostentata fermezza che fino allora l’aveva sostenuta; e tornatole in tutta la sua forza l’istinto della propria conservazione, essa si spinse contro la debole barriera già quasi mezzo consumata, vi si aprì un passaggio, e corse al fiume come a un rifugio inaccessibile al terribile elemento che incalzava... Ma la sciagurata non poteva sfuggire alla sorte che l’attendeva, e che essa aveva coscientemente accettato: i “sacerdoti” l’inseguirono ben presto. Allora incominciò una lotta spaventosa: i bramini facevano forza per ricondurla al rogo; ed essa, aiutata dal fratello, opponeva la più disperata resistenza. La vittima mandava orrende grida implorando il soccorso della moltitudine, tenuta a freno dalle guardie del Governatore; ma la sua voce restò soffocata dalle trombe, che, ad un segnale suonarono tutte insieme. Finalmente la meschina, sfinita dai proprii sforzi svenne; e in questo stato fu di nuovo trascinata sfinita alla catasta. A quel punto, tutti gli spettatori di quella tragica scena si accalcarono per vederne la fine; alcuni tagliarono a colpi di scure le corde che sostenevano il palco superiore; altri portarono nuova esca al fuoco, e numerose torce dilatarono l’incendio; intanto il fratello della vittima era stato allontanato a viva forza, mentre invano, nella sua disperazione vomitava minacce di vendetta contro i manigoldi assassini di sua sorella». Fin qui il Malet.

• 2° La Chiesa considera la differenza tra l’uomo e la donna sopratutto sotto il punto di vista morale. Ma alla mascolinizzazione della donna si oppongono anche gli scienziati, partendo da un altro punto di vista: quello fisiologico. Così lo scienziato americano Alexis Carrel, nel suo notissimo libro «L’uomo, questo sconosciuto» al cap. III, N. IX scrive fra l’altro: «Le differenze tra l’uomo e la donna non stono dovute unicamente alle forme particolari di alcuni organi... Esse provengono da una causa assai più profonda, dal fatto che tutto intero l’organismo è impregnato dalle sostanze chimiche elaborate dalle ghiandole caratteristiche dei due sessi. Per l’ignoranza di questi fatti fondamentali, i promotori del femminismo sono stati condotti all’idea che i due sessi possano avere la medesima educazione, le stesse occupazioni, gli stessi poteri, la stessa responsabilità. In realtà la donna è profondamente diversa dall’uomo. Ognuna delle cellule del suo corpo porta l’impronta del suo sesso. Lo stesso si dica dei suoi sistemi organici, e sopratutto del suo sistema nervoso. Le leggi fisiologiche sono inesorabili come quelle del mondo siderale. È assurdo volerle sostituire con i desideri umani. Noi siamo costretti ad accettarle così come sono. Le donne devono sviluppare le loro attitudini secondo le linee della loro natura, senza cercare d’imitare i maschi. Il loro compito nel progresso della civiltà è più elevato di quello dei maschi: non devono tradirlo». E il compito della donna, secondo il fisiologo americano, è la maternità e l’educazione del fanciullo. Aggiungiamovi la maternità spirituale e vedremo che i risultati della scienza più recente [e non menomata dalle ideologie, ndr.] concordano con quello che la Chiesa insegna da venti secoli.

[Le terrificanti conseguenze della modernità - che va contro la legge eterna, contro la legge di natura, contro il diritto divino positivo, contro l’intelletto, contro il buon senso e contro la stessa vera scienza - sono sotto gli occhi di tutti:  pervertimento della donna; distruzione della famiglia; abbandono della gioventù alle più infami passioni; femminizzazione dell’uomo; fine della società civile; trionfo dell’egoismo e della sola pseudo-tecnica. Un popolo nuovo, in un mondo nuovo, assolutamente impreparato ed incapace di reagire alla tirannia della finanza, ndr.].

Per P. Giulio Monetti SJ e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +

A cura di CdP