Stimati Associati e gentili Sostenitori, i recenti drammatici sviluppi della guerra in Ucraina - dove, va ricordato, dal 2014 si consumano atti sanguinosi nell’indifferenza dei principali media occidentali - ci portano a riflettere, con l’equilibrio che contraddistingue il pensiero cristiano, sul concetto di guerra e sulle tante differenze, per l’appunto, fra la cieca violenza e uso legittimo della forza. Al bisogno utilizzeremo l’approfondimento di Angelo Brucculeri S.J., «Moralità della guerra», per La Civiltà Cattolica, Roma, 1953.

• La guerra è uno tra i fenomeni sociali che ha avuto nella storia il maggiore rilievo. Gli storiografi, soprattutto gli antichi, si sono preoccupati di prospettare, pressoché esclusivamente, gli eventi bellici, lasciando spesso nell’ombra le vicende non meno e talora più importanti della vita dei popoli. Dal punto di vista sociologico la guerra è una delle più caratteristiche manifestazioni della lotta, che è inerente alla vita; lotta che non ha certo la significazione darwinistica della selezione e del trionfo degli individui e delle razze più riccamente dotate dalla natura, ma che importa una funzione vitale, con cui l’organismo individuale o collettivo mira a disfarsi degli antagonismi che ne pregiudicano lo sviluppo e a conquistare dei beni assimilabili e in qualche modo proficui. Un organismo qualsivoglia, sia l’insetto del prato o il leone del deserto, sorregge la sua esistenza attraverso la distruzione e l’appropriazione di altri esseri, ciò che avviene sovente con la lotta. Anche l’uomo, come qualsiasi altro essere vivente, è un lottatore, e la sua vita è necessariamente un’arena e la sua naturale professione una tal quale milizia. Pur sotto questo aspetto «Militia est vita hominis super terram» (Iob 7, 1).

• Ma tra il mondo semplicemente animale e quello umano corre un divario d’estrema importanza. Nel primo le forme concrete della lotta sono fatalmente rigide, sempre identiche; nel secondo si modificano, e mentre alcune decadono altre risorgono; nel primo domina la fatalità dell’istinto, nel secondo la mobilità inventiva e creatrice dell’intelligenza. L’uomo, scrive lo Stratmann, può dirsi con maggiore diritto essere per natura un lavoratore anziché un lottatore. Che non sia, prima d’ogni altro, fatto per la lotta, si scorge dalla sua debolezza fisica. Non ha artigli, corna, zanne, ma uno strumento acconcio al lavoro, ossia la mano (Weltkirche und Weltfriede, Ausburg 1924, p. 71). Il Nietzsche e lo Spengler sono di ben diverso parere e definiscono l’uomo: «Un animale di rapina». (O. Spengler, Anni decisivi, Milano 1934, p. 35).

• Dal punto di vista giuridico la guerra è un istituto universalmente ammesso quale mezzo estremo e risolutivo dei conflitti che sorgono fra gli Stati. Il Vattel la definisce: «Lo stato in cui si persegue con la forza il proprio diritto» (M. De Vattel, Le droit des gens, Parigi 1820, tomo 2, p. 124); definizione non integra, giacché nell’accezione odierna la guerra ha un carattere pubblico, sicché la classificazione degli antichi internazionalisti, di guerre private e guerre pubbliche, è del tutto separata nel diritto moderno. Il Suárez con maggior precisione così definisce la guerra: un conflitto esterno, contrario alla pace esteriore, allora propriamente si dice guerra, quando avviene tra due prìncipi o due Stati; se invece avviene tra il prìncipe e lo Stato si dice rivolta; se tra privati si dice rissa o duello: concetti tra i quali la differenza sembra più di forma che di sostanza (De charitate, Disput. XIII, De bello, Tomo XI dell’edizione veneziana del 1742, p. 406). Il Codice di morale internazionale, edito dall’Union internationale d’études sociales, sulle tracce del Taparelli, definisce la guerra: «Una lotta armata fra società uguali e sovrane per far prevalere ciò ch’esse considerano come il loro diritto o il loro interesse» (Codice di morale internazionale, Roma 1944, art. 137. Cfr Taparelli, Saggio teoretico di dritto naturale, n. 1319). Assai più semplice è la definizione del Clausewitz, il famoso maestro di strategia: «La guerra è azione di forza per costringere il nemico a compiere il nostro volere» (Cfr H. Stegemann, Der Krieg. Sein Wesen und seine Wandlung, Stoccarda Berlino 1939, p. 4. Per le varie definizioni della guerra nelle varie epoche si veda il Digesto Italiano, alla voce Guerra).

• La guerra può essere classificata in diversi modi. Se ci si fonda sulle cause precipue da cui scaturisce, si danno guerre religiose, dinastiche, nazionali, economiche. Le prime due specie si ricollegano ad ambienti storici ormai sorpassati, mentre le altre due posteriori prevalgono al presente. Queste e simili distinzioni sono precise solo in astratto: in concreto vari interessi influiscono al tempo stesso e in grado diverso nel causare i contrasti armati. Così le guerre religiose che seguirono lo scoppio della riforma protestantica, coinvolgevano gravi interessi politici ed economici. Dal punto di vista morale si distinguono le guerre giuste e le guerre ingiuste, legittime ed illegittime. Col prevalere del positivismo giuridico si è espulso dal diritto internazionale il concetto della legittimità o della liceità della guerra, come concetto del tutto inutile; giacché si è voluto limitare la scienza del diritto internazionale al come debba farsi la guerra, ma non chiedersi quando gli Stati siano autorizzati ad intraprenderla. Ma in tempi assai recenti sono sorte, contro la dominante tendenza positivistica, delle forti correnti che hanno rievocato e giustificato la nozione del lecito e dell’illecito giuridico anche nell’ambito del diritto internazionale (Cfr Oppenheim, International Law, Londra 1928, vol. 1). «Non si può ammettere, scrive il prof. Diena, che il concetto della legittimità della guerra sia del tutto estraneo al diritto internazionale, il quale, a tale riguardo, sia pure incompiutamente e frammentariamente, fornisce determinate norme. Così non vi è dubbio che la guerra è illecita, se uno Stato la imprende infrangendo gli obblighi assunti con la stipulazione di un trattato di conciliazione o d’arbitrato o di regolamento giudiziario, oppure con un patto di non aggressione, oppure ancora con la partecipazione ad un trattato diretto a riconoscere, ed eventualmente a garantire, la neutralità di un dato Stato. Parimenti sarebbe giuridicamente illegittima una guerra che mirasse ad ottenere una riparazione per un fatto che non sussiste, o non è imputabile allo Stato contro il quale la guerra è diretta; come pure una guerra fatta per indurre uno Stato — sulla base di un trattato — ad una determinata prestazione o all’astensione da una data azione, mentre il trattato rettamente interpretato non fornisce alcun valido fondamento alla pretesa della parte che imprende la guerra» (G. Diena, Diritto internazionale, Parte prima, Diritto internazionale pubblico, 3a ed., Milano 1930, p. 590).

• Una distinzione di non minore importanza, che suole farsi delle guerre, è quella di guerre difensive e guerre offensive. Il preciso significato di queste due attribuzioni non è sempre identico fra i vari studiosi. Per lo più si adotta un criterio estrinseco per designare la differenza che corre fra la guerra difensiva e quella offensiva. La prima si attua da chi piglia le armi per resistere ad un’invasione; la seconda da chi inizia per il primo gli attacchi contro un altro Stato. «In un certo senso, diremo col Regout, ogni guerra può dirsi — dato l’intento di mantenere dei diritti — guerra difensiva; ma l’abuso che si è fatto, e si fa tuttora, di un simile qualificativo, mette nella necessità d’impiegarlo soltanto allorché si tratta di resistenza ad un’aggressione armata, di difesa contro coloro i quali hanno effettivamente creato lo stato di guerra; e l’essenziale del concetto di aggressione, o di attacco, consisterà nell’irruzione in territorio nemico o nella preparazione o cooperazione diretta allo stesso scopo» (R. Regout, La doctrine de la guerre juste, Parigi 1935, p. 309).

• Oltre le chiacchiere da bar e/o fra sedicenti esperti, è noto quanto sia malagevole determinare la figura dell’aggressore. Il Protocollo di Londra, del 3 e 4 luglio 1933, si accinse a definire con precisione l’aggressore, rendendo un buon servizio allo sviluppo del diritto. Questo protocollo venne inserito in due trattati: il primo fra l’Unione Sovietica, la Polonia, la Romania, la Turchia, l’Estonia, la Lettonia, la Persia e l’Afghanistan; il secondo fra l’Unione Sovietica, la Turchia, la Romania, la Cecoslovacchia e la Iugoslavia. Nell’art. 2 è così definito l’aggressore: «Sarà riconosciuto quale aggressore in un conflitto internazionale, sotto riserva di accordi in vigore fra le parti in conflitto, lo Stato che avrà compiuto una delle azioni seguenti: 1) Dichiarazione di guerra ad un altro Stato; 2) Invasione con le forze armate — anche senza dichiarazione di guerra — nel territorio di un altro Stato; 3) Attacco con forze armate, navali, aeree — anche senza dichiarazione di guerra — contro il territorio, le navi, gli aeroporti di un altro Stato; 4) Blocco navale delle coste, o dei porti di un altro Stato; 5) Appoggio dato dallo Stato a bande armate, che dal di loro territorio avranno invaso il territorio d’un altro Stato, ovvero rifiuto, malgrado la domanda dello Stato invaso, di prendere sul proprio territorio tutte le misure in suo potere per privare le dette bande d’ogni aiuto e protezione». Non è il caso di soffermarci sulle altre specie di guerra, giacché non presentano speciali difficoltà; come le guerre coloniali, le guerre preventive, le guerre d’intervento, le guerre ad effetti limitati e le guerre di sterminio. Oggi si parla anche della guerra totale, e non senza ragione; giacché la guerra moderna, non solo non si combatte più fra nuclei ben limitati di soldatesche, ma — se si tratta di grandi potenze — domanda milioni e milioni di militi, assorbe tutte le energie del paese, mobilita in un modo o in un altro tutta la popolazione adulta, e a causa dell’arma aerea trasforma tutto il territorio dei belligeranti in zona di guerra ed espone al pericolo della vita non soltanto i combattenti delle trincee, ma tutti indistintamente i cittadini. Queste brevi nozioni preliminari ci sono apparse opportune prima di esporre il concetto cristiano della guerra, che vuol essere l’oggetto di questo studio.

• L’evoluzione del concetto cristiano di guerra. L’elaborazione d’una dottrina sulla guerra consona alle premesse evangeliche s’inizia dopo il trionfo di Costantino, allorché la Chiesa poté liberamente svolgere la sua azione nel pieno giorno della pubblicità. I padri, i dottori, i teologi, i canonisti contribuirono in diverse epoche ad enucleare dapprima e poi a svolgere, ad integrare, a sistemare la concezione cristiana del diritto di guerra (Cfr A. Harnack, Militia Christi. Die christliche Religion und der Soldatenstand in drei ersten Jahrhunderten, Tubinga 1905. — A. Vanderpol, La doctrine scolastique du droit de guerre, Parigi 1919. — R. Regout S.J., La doctrine de la guerre juste, Parigi !935- — Yves de la Brière, Le droit de juste guerre, Parigi 1938). Noi non faremo la storia di questa dottrina, ma indicheremo soltanto i principali formulatori di essa. La fonte originaria e più cospicua del cristiano insegnamento della guerra è Sant’Agostino (354-430). Tutta la tradizione medievale, come quella dei pensatori cattolici posteriori, si fonda e si sviluppa sui principii che il gran genio di Tagaste aveva posto a base delle sue considerazioni sulla moralità della guerra. Della quale egli parla qua e là in molti suoi scritti: come nelle lettere al tribuno Marcellino, al suo intimo Publicola, al conte Bonifazio, al conte Dario (Rispettivamente nei nn. 38, 47, 189, 229 della collezione pubblicata nel Migne). Ne tratta anche nelle opere: Contro Faustum manichaeum, De libero arbitrio, Quaestiones in Heptateuchum; soprattutto nell’opera monumentale De Civitate Dei, in maniera speciale nel libro XIX (Anche prima di Sant’Agostino, Sant’Ambrogio nell’opera De Officiis aveva fatto qualche cenno sulla difesa del diritto di guerra e sulla difesa del prossimo, vittima di qualche ingiustizia).

• In queste opere si ha una visione, sia pure schematica, della cristiana concezione della guerra. Secondo i postulati di Sant’Agostino, la guerra ha questi caratteri: 1) Carattere pubblico. «L’ordine naturale tra gli uomini adatto alla pace postula che il potere e la decisione di dichiarare la guerra appartenga al principe» (Contro Faustum, lib. XXII, 74 : Migne, P.L. 42, 448); 2) Carattere necessario, indicato soprattutto nella lettera al conte Bonifazio. «La volontà deve volere la pace, sicché solo la necessità spinga alla guerra... Solo la necessità porti ad uccidere un nemico in combattimento, e non la volontà» (Ad Bonifacium, 6. — De Civit. Dei, IV, 15 e XIX, 7. Rispettivamente nella P.L. 33, 856; 41, 124; 41, 634); 3) Carattere provvidenziale. La guerra apporta dei mali gravissimi, ma che Dio permette per scopi morali e in definitiva per la santificazione e la salute delle anime. Quando la disfatta tocca al giusto, anche allora si può giustificare la Divina Provvidenza. «Ogni vittoria, anche quando tocca ai cattivi, per divina disposizione umilia i vinti o in emendazione o in punizione delle loro colpe» (De Civit. Dei, XIX, 15: Migne, P.L. 41, 643); 4) Carattere punitivo, in quanto importa un castigo dei colpevoli. «Una guerra si dice giusta quando ripara un torto» (In Pent. VI, 10: Migne, P.L. 34, 781). Non pare però che per Sant’Agostino questo carattere sia assoluto, giacché per lui, come vedremo, sarebbe anche causa di giusta guerra mantenere e difendere l’ordine obiettivo, anche nei casi in cui non ha nulla da vedere la punizione (Cfr Regout, La doctrine de la guerre juste, cit. pp. 43-44); 5) Carattere strumentale, poiché la guerra è un mezzo per raggiungere la pace. «Si fa la guerra per arrivare alla pace» (Epist. 189, 6: Migne, P.L. 33, 856). «A scopo di pace si fanno le guerre anche da quanti s’adoperano ad esercitare la loro bellicosità comandando e combattendo» (De Civit. Dei, XIX, 12: Migne, P.L. 41, 657); 6) Carattere ingrato, giacché, anche quando è un’imposizione della giustizia, anche quando è doveroso, trae seco dei mali. Per questo Sant’Agostino ha orrore dei ludi di Marte (sacrifici in onore del “dio” della guerra). Anche la stessa giustizia che induce a pigliare le armi l’affligge, al pensiero che dietro la giustizia vi è l’iniquità del nemico, la quale ha reso necessario l’intervento armato. «L’iniquità, dice egli, non può non addolorare l’uomo, anche se non sia apportatrice di guerra» (Ibidem, XIX, 7: Migne, P.L. 41, 634).

• Dobbiamo altresì rilevare che non sfugge al Vescovo d’Ippona come anche l’impresa bellica, per quanto giusta, non debba prescindere da considerazioni d’indole universale, ossia non deve obliare che vi è un bene che interessa tutta la grande famiglia del genere umano. Le esigenze di questa più vasta comunità umana devono avere il loro peso nella condotta dei belligeranti, fino a prevalere talora contro gli egoismi delle particolari sovranità territoriali. Sant’Agostino, giustificando la guerra degli ebrei contro gli amorrei, fa questa osservazione: «Si deve notare in quali condizioni si facevano quelle giuste guerre: si negava quel libero e sicuro passaggio (nel paese) che il diritto naturale civile esigeva che fosse permesso» (Quaest. in Heptateuchum, IV, 44: Migne, P.L. 33-34. 739). Non vogliamo terminare questi appunti sommari sulla visione agostiniana della guerra senza un qualche cenno sulle fonti. Il santo dottore trasse alcuni elementi della sua costruzione da Cicerone, il quale nelle opere: De republica, De legibus, De officiis tratta della legittimità della guerra. Il sommo oratore romano ammette anzitutto il principio fondamentale, senza il quale ogni legge come ogni diritto rimane nel vuoto, il principio di un ordine giuridico naturale e comune a tutti gli uomini e a tutti gli aggregati umani: «Quelli che ammettono che bisogna tener conto dei cittadini e non degli stranieri, distruggono la società umana; la rovina della quale trascina seco la perdita totale d’ogni civiltà, libertà, bontà e giustizia. E chi rovina questi sommi beni dev’essere trattato anche come nemico degli Dei immortali» (De officiis, III, 6). Sul fondamento di un diritto e di una universale società umana, Cicerone insegna che le armi vanno prese quando non c’è altro mezzo per dirimere le divergenze e raggiungere la pace, la quale è il fine a cui è rivolta la guerra. «Si devono intraprendere le guerre per questo motivo, perché si viva in pace senza subire ingiustizie» (De officiis, I, 11). Inoltre per Cicerone la guerra deve fondarsi su d’una giusta causa; ma il suo concetto di giustizia, come avviene presso i giuristi romani, sdrucciola in un vuoto formalismo. La guerra sarebbe anche giusta se si siano osservate le formalità esteriori prescritte dalle leggi e dai riti feciali. Anche il semplice fastigio imperiale legittimerebbe una guerra, ancorché non ci fosse alcuna violazione dei propri diritti. In questo caso però, si deve condurre la guerra con maggiore moderazione. «Ma le guerre intraprese per la gloria del potere, devono essere combattute con minor violenza» [sic!] (Ibidem I, 12).

• Dopo sant’Agostino l’insegnamento cristiano sulla guerra si evolve attraverso non pochi scrittori: come Sant’Isidoro, arcivescovo di Siviglia (560-636); Yves de Chartres (1040-1116), che fu il maggior canonista del suo tempo: il benedettino Graziano, che nel suo Decreto (Concordantia discordantium canonum) apparso nel 1150, raccoglie, integrandolo ed illustrandolo, quanto si era scritto fin allora sul diritto di guerra. Nel secolo XIII San Tommaso d’Aquino (1225-1274) doveva nella sua Somma teologica riassumere, con la sua abituale chiarezza e penetrazione, il pensiero di Sant’Agostino sulla questione della moralità dell’uso delle armi. San Tommaso tratta di questo argomento con una ben ristretta visuale, qual è appunto quella della coscienza individuale di fronte alla guerra. Egli quindi si domanda: «Se il far la guerra sia peccato» (Summa theol., II-II, q. 40 e anche q. 29). Risponde coll’enumerare le tre condizioni che possono giustificare l’impiego della spada, ossia l’autorità del principe, la causa giusta, il retto fine. Nelle obiezioni, ch’egli risolve nello stesso articolo consacrato alle menzionate condizioni, accenna agli scopi ultimi della guerra: il bene comune e la pace. Sorvola frattanto su non pochi problemi che riguardano l’argomento in questione. Ci parla dell’autorità del principe, ma non solleva la questione se vi può essere un’autorità superiore, per esempio quella dell’imperatore. Sulla giusta causa della guerra non fa menzione della necessità dell’uso della forza, per non esservi altri mezzi efficaci ad eliminare il conflitto; come anche non parla della proporzione richiesta fra lo sforzo bellico e il fine che si vuole raggiungere. Confinata al punto di vista soggettivo, la trattazione dell’Angelico riesce necessariamente sommaria. In ogni modo fu un grande merito (come è stato ragionevolmente rilevato) che San Tommaso abbia preso in considerazione il problema della guerra, giacché era stato da tempo trascurato. Basta dire che non ne fanno alcun cenno Alberto Magno, Scoto, Bonaventura, soprattutto Pietro Lombardo, che col suo manuale rinomatissimo: Il libro delle sentenze, dominò a lungo le scuole teologiche del medioevo (Cfr B. de Solages, La genèse et l’orientation de la guerre juste, in Bulletin de littérature ecclésiastique, aprile-giugno 1940). [Sebbene San Tommaso torni a parlare della guerra, in termini maggiormente approfonditi, nel De Regimine ed altrove].

• Bisogna pervenire al secolo XVI per avere una trattazione ampia e sistematica sul diritto di guerra alla luce della morale cristiana. È il domenicano de Vitoria (+ 1546), professore di Salamanca, che ci dà siffatta trattazione nelle sue Relectiones theologicae, e precisamente nei trattati: De Indis e De iure belli. Ciò che nel Vitoria ha uno sviluppo della maggiore importanza, e che costituisce un progresso gigantesco della cristiana dottrina della guerra e della pace è la netta e solenne affermazione della comunità internazionale; comunità internazionale che trascende ed include la stessa cristianità, la quale forma alla sua volta una comunità più ristretta. Per il grande domenicano la comunità internazionale non deve sfuggire al moralista e al giurista. Per lui una guerra diviene ingiusta se vi è l’utilità d’una parte con danno della comune famiglia dei popoli o della cristianità. «Siccome ciascuno Stato è membro di tutta l’umanità e soprattutto, siccome ogni regione cristiana è parte di tutto lo Stato, se una guerra portasse sì dei vantaggi ad una regione o ad uno Stato ma con danno dell’umanità o della cristianità, stimo che per ciò stesso quella guerra debba dirsi ingiusta» (Relectiones theologicae, XII, Lione 1557. De potestate civili, 13, p. 193).

• Il Suárez (1548-1617) su molti dei problemi del diritto di guerra non aggiunge nulla d’importante alle dottrine del Vitoria e dei suoi predecessori. Però la sua Disputatio de bello, che sarebbe la XIII del suo trattato De charitate, va apprezzata per la precisione filosofica e teologica, e per l’esposizione rigidamente conforme alla didattica scolastica. Mentre il Vitoria sente, dirò così, i problemi dell’ora e dà alle sue lezioni l’importanza vivace dell’ambiente in cui vive, il Suárez invece studia nella chiusa cerchia della scuola i problemi morali e giuridici della guerra, senza mostrare alcun contatto con la realtà storica in cui vive. Un merito però tutto proprio del grande teologo e maestro del Collegio Romano, si è d’aver dato nel suo Trattato De legibus «la formula più esatta (come scrive il p. Yves de la Brière), la più espressiva e sempre attuale del concetto della comunità internazionale, ove si attua la sintesi sociale dell’unità e della diversità umana, e che costituisce la base universale del diritto delle genti... Si dovrà in ciò senz’altro riconoscere la concezione fondamentale, l’annunzio divinatore di tutti gli ulteriori sviluppi della scienza del diritto delle genti, in un’organizzazione sintetica e giuridica delle due essenziali realtà: la comunità umana e la diversità umana» (Yves de la Brière, in Vitoria et Suárez, Contribution de théologiens au droit international moderne, Parigi 1939, pp. 4, 11).

• Ci facciamo un dovere di riprodurre la formula suaresiana nella sua interezza: «Il genere umano, benché sia diviso in popoli e regni diversi, conserva sempre una certa unità, non solo specifica ma anche pressoché politica e morale, che risulta dal precetto naturale dell’amore e carità mutua, precetto che si estende a tutti, anche agli stranieri di qualsiasi sorta. Quindi benché ogni città indipendente, o repubblica o regno, siano comunità perfette e costituite dai propri membri, non di meno, ciascuna di tali comunità è alla sua volta membro in qualche modo di questa collettività, che è il genere umano. Giammai, infatti, queste comunità possono, divise, bastare a se stesse, in guisa da non avere alcun bisogno di scambievole aiuto, di associazione e comunicazione; sia per migliorare le proprie condizioni ed accrescere i vantaggi, sia per qualche morale necessità o indigenza, come l’esperienza ci mostra. Per questa ragione esse hanno bisogno di un qualche diritto che le diriga e ben disciplini in questo genere di comunicazione e di associazione. E benché ciò in buona parte avvenga spontaneamente per impulso naturale, non però sufficientemente e direttamente in ogni cosa. Per questo si sono introdotti certi diritti con le consuetudini di tali nazioni. Poiché come in una città o provincia la consuetudine introduce il diritto, così nella collettività del genere umano le costumanze hanno introdotto il diritto delle genti» (De legibus, lib. II, cap. XIX, 9). Questa luminosa dottrina del Suárez sull’unità morale dei popoli, che li sospinge verso la loro unità giuridica; questa dottrina che ha qualche vestigio in Cicerone ed in Sant’Agostino, che rifulge in pieno nel Vitoria, che si organizza poderosa nel Taparelli, ha avuto la sua più solenne e autorevole consacrazione nella prima enciclica del beato padre Pio XII, nella Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939.

• Dopo il Vitoria e il Suárez s’incontrano molti altri giuristi di valore, come il Vásquez, il Bánez, il Bellarmino, il Lessio, il Molina e non pochi altri, i quali si muovono sulle linee tracciate dai grandi loro predecessori. Nei tempi più recenti va sopra ogni altro indicato il p. Luigi Taparelli D’Azeglio (1793-1862), che col Curci fu il fondatore della Civiltà Cattolica. Il Taparelli nel suo Saggio teoretico di diritto naturale, alla dissertazione sesta condensa in armonica unità gli insegnamenti tradizionali del diritto di guerra, sfrondandolo al tempo stesso delle prolisse questioni e degli speciosi avvolgimenti che erano in voga nell’età anteriori. Pregevolissimo è poi lo studio che il Taparelli inserì nella stessa sesta dissertazione sull’Etnarchia, in cui presenta l’organizzata comunità dei popoli, quale termine su cui si appunta il progresso politico delle nazioni (Cfr. A. Brucculeri, Un precursore della Società delle nazioni, Roma 1926 - R. Jacquin, L’ordre international d’après Taparelli D’Azeglio nell’opera: Vitoria et Suárez, Contribution des théologiens au droit international moderne, cit.).

• Il concetto cristiano del diritto di guerra lungo il corso dei secoli si è ampliato e schiarito, ma non ha, come parrebbe ad alcuni, subito delle involuzioni. Secondo il Salvioli (II concetto di guerra giusta negli scrittori anteriori a Grozio, Napoli 1918), lo Stratmann (Weltkirche und Weltfriede, cit.), il Vanderpol (La doctrine scolastique du droit de guerre, cit.) ed altri la concezione medievale della giusta guerra conteneva come elemento essenziale la colpabilità morale di una delle parti belligeranti. Nel secolo XVI e giù di lì i moralisti e i canonisti cattolici rigettano questo elemento e non lo considerano più come fondamento del diritto di guerra. Vitoria e Molina sono i due principali rappresentanti di questo nuovo indirizzo. Questa dottrina non è messa in alcuna evidenza da Sant’Agostino. Per lui chi fa il torto è per questo stesso anche moralmente colpevole; quindi egli insiste sul carattere punitivo della guerra, senza proporsi espressamente il problema dell’aspetto esclusivamente oggettivo della colpabilità. Ad ogni modo per Sant’Agostino, come ben nota il Regout, «la guerra non ha il solo scopo di vendicare l’ordine morale (funzione punitiva), ma anche di tutelare, mantenere e raddrizzare l’ordine oggettivo, e più direttamente di proteggere e restaurare i diritti particolari minacciati o violati. Nella guerra difensiva questo ultimo obiettivo si impone assolutamente. Ma nella guerra offensiva il mantenimento dei propri diritti è il fine primordiale. Si consideri, per esempio, come Sant’Agostino cita fra le giuste cause di ricorso alla guerra “il rifiuto di restituire ciò che è stato ingiustamente tolto”, e che gran valore egli attribuisce all’ordo che dispone ogni cosa al suo luogo, sua cuique loca tribuens dispositio » (La doctrine de la guerre juste, cit., p. 44).

• Anche sulla dottrina di San Tommaso possono farsi considerazioni congeneri a queste fatte su Sant’Agostino. Per San Tommaso la giusta guerra suppone una colpa morale, perché secondo una sua teoria generale, il falso giudizio può riportarsi, almeno in causa, ad una colpa morale (De malo, q. 3, a. 7). Perciò considera le eresie come colpevoli (Cfr Summa theol., II-II, q. 10 e 11). Egli, quindi, non si propone mai se la giusta causa della guerra possa essere una semplice colpa giuridica, una materiale violazione del diritto. Non possiamo adunque ammettere che gli scrittori posteriori, come per es. Vitoria e Molina, si siano opposti a San Tommaso sostenendo la teoria che la guerra è giusta anche per riparare un torto obiettivamente ingiusto. Certamente alcuni principii di San Tommaso favoriscono la tesi del Vitoria e del Molina. Così la definizione della giustizia ius suum unicuique tribuere, prescinde dalla colpa morale di chi ha violato la giustizia. Se si dovesse includere la colpabilità morale, non sempre si dovrebbe dare a ciascuno il suo.

• Il Vitoria afferma anch’esso che la guerra offensiva è guerra di sanzione, suppone quindi una colpabilità morale; ma sarebbe mutilare il suo pensiero il credere che questa colpabilità si richieda sempre ed assolutamente. Per lo Stratmann il Vitoria considererebbe la colpa materiale come insufficiente a giustificare la guerra (Weltkirche und Weltfriede, cit., p. 103). Ora ciò non risponde a verità. Notiamo infatti che il Vitoria ammette come giusta causa di guerra la recuperatio dei beni propri, sia o non sia colpevole chi detiene tali beni o li abbia rapiti. Così in un luogo egli scrive che mentre il privato non può riprendere i suoi beni, se è trascorso del tempo, l’autorità pubblica può farlo (De iure belli, ed. cit., 5, p. 386). Qui il repetere res si considera lecito per se stesso, senza alcun riguardo all’idea di punire, e quindi all’idea della colpabilità soggettiva del nemico. Il singolo, dice Vitoria, può impossessarsi di ciò che gli è dovuto dal debitore (Ibidem, 17, p. 392). Qui è evidente che è esclusa la punizione, perché il privato non può punire. Ora se questo principio vitoriano del repetere res, senz’altra ragione punitiva, è ammesso per il privato, con più ragione è ammesso per l’autorità pubblica. Anche il rivendicare un proprio territorio nel Vitoria è considerato come motivo di giusta guerra indipendentemente dallo scopo punitivo e quindi dalla colpa morale (Ibidem, 27, p. 399). D’altronde vi sono nel Vitoria dei testi decisivi, in cui si considera lecita la guerra, anche se si sappia che il nemico è in buona fede. Nel De Indis il Vitoria ammette che gli spagnoli hanno (in forza del diritto di natura) la facoltà di viaggiare, commerciare e soggiornare come tutti gli stranieri fra gli indiani. Se si oppongono gli indiani, possono gli spagnoli fortificarsi e difendersi e guerreggiare. Su di che il Vitoria fa queste osservazioni: «I barbari sono per natura timidi e poco intelligenti... e quindi se spinti dal timore si riuniscono per scacciare o uccidere gli spagnoli, allora a questi sarebbe lecito il difendersi, servato tamen moderamine inculpatae tutelae, ma non sarebbe loro permesso di esercitare altri diritti di guerra; cosicché raggiunta la vittoria e la sicurezza, non potrebbero ucciderli o spogliarli dei beni ed occupare le città, perché in illo casu sunt innocentes et merito timent ut supponimus» (De Indis, 6, p. 359). Come è chiaro, qui appare lecita la guerra, nonostante la riconosciuta buona fede del nemico. Non meno convincente è il seguente testo che è prossimo al precedente. Non est inconveniens quod, cum ex una parte est ius et ex altera ignorantia invincibilis, quod sit bellum iustum ex utraque. E qui il Vitoria adduce l’esempio dei francesi che terrebbero in buona fede la Borgogna; mentre di fatto l’imperatore ha un diritto certo su tale territorio. Può dunque l’imperatore combattere per avere quella provincia che i francesi possono difendere... Ciò va ben considerato, perché sono diversi i diritti di guerra contro gli uomini veramente colpevoli rispetto agli uomini innocenti o ignoranti (De Indis, 6, pp. 359-369, Lione 1557, p. 359).

• Anche questa stessa dottrina che è professata nel trattato De Indis, si trova pure nel De iure belli. Basta segnalare quel luogo in cui il Vitoria fa la questione se possono essere innocenti i soldati che combattono. Egli afferma che non solo i soldati ma anche i sovrani stessi possono essere senza colpa alcuna; come quando hanno fatto una diligente inchiesta ed hanno seguito il consiglio di savie e dotte persone (De iure belli, 59, p. 424). Indi aggiunge: «Ma siccome nessuno dev’essere punito se innocente, in tal caso, benché sia lecito al vincitore tornare in possesso di quanto gli era stato tolto e fare anche dei danni di guerra, tuttavia, siccome non è lecito dopo una vittoria uccidere chicchessia, così non è lecito occupare o estorcere oltre al dovuto dei beni temporali, perché ciò non si potrebbe se non a titolo di punizione, la quale non può essere inflitta a chi è senza colpa» (Et cum nemo debeat sine culpa puniri, in tali casu, quamvis liceat victori recuperare res ablatas et forte impensam belli; tamen, sicut non licet, parta victoria, quemcumque interficere, ita nec ultra iustam satisfactionem occupare nec exigere in rebus temporalibus, quia omnia alia fieri non possunt nisi nomine poenae, quae in innocentes cadere non debent. De iure belli, 59, p. 424.). Com’è chiaro, qui si suppone la cognizione che si combattono degli innocenti. Questa tesi è accolta anche dal Vásquez e soprattutto dal Molina (Cfr. Regout, La doctrine de la guerre juste, cit., pp. 235, 252).

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