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All’epoca di San Bernardino l’Italia tutta era messa in convulsione di morte dalle gare e dalle inimicizie più accanite. Quel Santo volava di città in città e di regione in regione per spegnere quelle maledette inimicizie, per far cessare quelle gare, per ridurre in pace gli individui e le famiglie. A Perugia una volta aveva predicato della pace per quattro giorni di seguito e la sua grand’eloquenza aveva commosso tutta la città. Sul finire della quarta predica disse solennemente agli uditori cosi: «Orsù, tutti coloro che vogliono fare la pace si collochino a destra, e a sinistra tutti coloro che non la vogliono fare». Successe uno spettacolo commoventissimo: tutti quelli che erano nella chiesa corsero alla destra. Ma proprio tutti? No: un solo giovane se ne volle rimanere alla sinistra. Quel giovane era di nobile casato e meditava vendetta contro un suo nemico. Il Santo dal pulpito lo guardò pietosamente, poi lo pregò di farsi cogli altri alla destra, poi gli diresse avvertimenti paterni, poi gli minacciò i castighi di Dio. Non s’ottenne nulla: il giovane, duro ed ostinato, rimase alla sinistra. Così finì il discorso e ognuno piangendo di consolazione prese la via della propria casa, e il giovane con gli altri. Arrivato alla soglia del palazzo, il disgraziato giovane cadde colpito come da un fulmine: già era cadavere! - È un solenne ammonimento per quelli che vogliono covare nel cuore il veleno delle inimicizie, e per quelli ancora che disprezzano la parola dei predicatori. [N° 86, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 77-78].

A cura di Carlo Di Pietro

Correva il secolo quinto della Chiesa cattolica e nell’Irlanda, all’epoca immersa nelle tenebre dell’idolatria e della più ottusa superstizione, venne mandato dal misericordiosissimo Dio un Apostolo, le cui fatiche e penitenze spaventano anche oggi l’immaginazione nostra. Intendiamo parlar di San Patrizio. Fin da quando era giovanissimo cadde nelle mani dei barbari, i quali gli affidarono il compito di governare le pecore, ed egli sopportò tante sofferenze con un coraggio sorprendente. Tuttavia, adesso, non vogliamo fare parola delle sue virtù praticate nei giorni della giovinezza, bensì di quelle esercitate quando la Provvidenza volle chiamarlo alla sublime dignità episcopale ed affidargli la grande opera d’evangelizzare l’Irlanda. Ecco qui, dunque! Sebbene Patrizio fosse scrupoloso osservatore anche dei più piccoli doveri del suo sacro ministero, nondimeno mai cessava dal pregare lungamente. Si ponga ben attenzione a quel che stiamo per narrare. Ogni giorno diceva non l’Uffizio, come debbono i sacerdoti, ma tutto il Salterio davidico, tutti gli inni e i cantici della Chiesa e duecento orazioni ancora. Trecento volte al giorno adorava Dio piegando a terra le ginocchia, e in ciascuna delle sette ore canoniche, nelle quali va diviso l’ufficio divino, egli cento volte faceva il segno della santa Croce. La notte, poi, la divideva in tre parti: - nella prima recitava cento Salmi del Salterio e piegava le ginocchia duecento volte; - nella seconda recitava gli altri cinquanta Salmi del Salterio stesso, immerso nell’acqua fredda e spesso gelata,tenendo il cuore, gli occhi e le mani rivolti al cielo; - nella terza, infine, prendeva un brevissimo sonno sopra una nuda pietra. Oggigiorno tutte queste orazioni non impauriscono la nostra immaginazione? Ma con tutte queste penitenze e lunghissime orazioni Patrizio arrivò sino ad una vecchiaia estrema. Noi delle volte soventi non recitiamo alla Madonna una terza parte del santo Rosario per paura di guastarci la salute! (La festa di San Patrizio non può essere la festa della birra e degli avvinazzati). (Tratto da Giacinto Belmonte cappuccino, Racconti miracolosi, 1887, con permesso dei Superiori, vol. II, pagine 350-351).

A cura di Carlo Di Pietro

San Tommaso di Villanova, divenuto Arcivescovo, si propose d’osservare scrupolosamente, tra le altre, questa regola: risparmiare per sé molto e dare molto ai poveri. Passava subito dalle parole ai fatti. Un giorno aveva bisogno d’un sarto per raccomodargli un vecchio giustacuore, tanto per non buttare danaro a comprarsene uno nuovo. Il sarto si presentò e Tommaso cominciò a lesinare sulla mercede da dargli. Quel povero operaio se ne disgustò grandemente, e, uscito appena dalla stanza dell’Arcivescovo, ne menò lamenti con un ecclesiastico, dicendo che Tommaso si mostrava assai avaro con lui; egli aveva tanti bisogni, tra i quali urgevano assai quelli di provvedere alla dote di due figlie, e non sapeva intanto ove mettere le mani. L’ecclesiastico esortò il sarto a domandare all’Arcivescovo stesso un sussidio per maritare le figliuole. «Poh! - fece quel sarto - ma se l’Arcivescovo è così taccagno e spilorcio da non volermi quasi pagare il lavoro d’un giustacuore vecchio e rattoppato, vorrà poi essere tanto generoso da pensare, anche per una minima parte, alla dote delle mie povere e pericolanti figliuole?». «Ma fa come io ti consiglio, buon uomo, ripigliò l’ecclesiastico, e vedrai». Il sarto, sebbene con nessuna speranza in cuore, s’armò di coraggio ed espose all’Arcivescovo il suo caso. San Tommaso l’ascoltò benignamente e gli promise che avrebbe fatto prendere le informazioni necessarie, e poi, se il bisogno fosse reale, avrebbe sicuramente provveduto. Quel sarto cadeva dalle nuvole, non si raccapezzava, e scendendo le scale del palazzo arcivescovile andava ruminando tra sé: «Ma questo Arcivescovo dev’essere un matto addirittura: lesina sulla paga d’un vecchio giustacuore e poi quasi mi promette la dote per le figliuole ! Un matto... .vedremo....». Intanto le informazioni vennero prese subito, e si vide che il sarto aveva detto la pura verità. San Tommaso gli disse con volto benigno: «Hai proprio ragione, figlio mio: io pensai, quando mi facesti la proposta, di darti trenta scudi per ogni figliuola, ove le informazioni fossero riuscite favorevoli. Ora penso che trenta scudi per quelle buone figliuole sono troppo poca cosa, e ne voglio dare cinquanta». E gli diede gli scudi immediatamente. Quell’uomo non seppe fare altro che buttarsi piangendo ai piedi del santo Arcivescovo per pregarlo di perdonargli il falso giudizio che aveva fatto di lui, riputandolo avaro e gretto. «Hai ragione, figliuolo - gli rispose benignamente - io sono molto avaro con me stesso, ma allargo assai la mano coi bisognosi. Intanto il mondo nostro è molto prodigo con se stesso e molto avaro cogli altri.

Da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, Roma, Coi Tipi di Mario Armanni, nell’Orfanotrofio Comunale.

Un fatto veramente singolare è quello che raccontiamo qui. Nel 1294 nacque nell’Alemagna un tal Giovanni Taulero. In molto giovine età prese l’abito domenicano a Strasburgo, studiò a Parigi e divenne solenne maestro in Teologia e predicatore applauditissimo. Commoveva, entusiasmava i popoli colla sua eloquenza meravigliosa. Un solitario, semplice ed ignorante di scienza umana, ma assai addentro nello spirito di Dio, s’accorse che il grande predicatore ora, in fin dei conti, un uomo pieno di amor proprio, d’ambizione, d’orgoglio. Il servo di Dio volse subito il pensiero alla conversione del predicatore da tutti applaudito ed innalzato alle stelle. Il negozio era difficile assai, però il santo solitario non cadde di coraggio. Primamente si presentò a Taulero con grande umiltà e gli chiese la grazia d’ascoltarlo nella confessione. Il dotto teologo e il celebre predicatore non si rifiutò, e quando vide la bellezza della coscienza del semplice ed ignorante solitario ne fu preso di gran meraviglia e gli pose un’affezione come a fratello. Per tre mesi quel solitario volle confessarsi con Taulero, e questi sempre il riceveva o l’ascoltava con gioia. Dopo i tre mesi il penitente disse al confessore: «Padre, vi prego di voler fare una predica al popolo, nella quale, in compendio, dovrebbero essere tracciate le regole sicure ed adatte per raggiungere pienamente la perfezione comandata dall’Evangelo». Taulero guardò il solitario in aria di gran sorpresa e gli rispose: «Figliuolo, la predica che tu mi chiedi è di suprema importanza, ma è troppo difficile e sublime per poter essere capita dal popolo. Poi a stendere predica siffatta si richiede tempo, molto tempo; ed il tempo a me manca assolutamente». Il solitario però non si volle lasciare sfuggire l’occasione che da tanti mesi aveva cercata. Pregò Taulero, e tanto il pregò che infine quell’uomo dovette cedere. Fece dunque la predica, e riuscì un vero capolavoro. Quella predica era un ben ordinato e sugoso ristretto di tutte le più belle verità dell’E-vangelo per avviare l’anima alla perfetta santità, e quelle verità erano esposte con una lucidezza che incantava. Il valentissimo predicatore insistette in modo speciale sulla purità del cuore, sulla retta intenzione nell’operare il bene, sulla annegazione di se stesso, sulla rinunzia della propria volontà, sul distacco dalle vanità del mondo, sull’amore delle croci e delle umiliazioni. Il solitario era tutto orecchi e tenne a memoria i pezzi più belli e più importanti di quel mirando discorso. Il giorno seguente si presenta a Taulero, gli fa molte lodi della predica, e poi gli dice senza rispetto umano: «Ma la vostra vita, Padre mio, corrisponde alle belle e sante massime che avete predicate?». Taulero abbassa gli occhi, arrossisce, si confonde. Onde il solitario, vedendo che il colpo gli era riuscito, fece osservare al dotto uomo che i predicatori i quali non mettono in pratica le massime che dicono al pubblico, si debbono chiamare farisei. Poi soggiunse: «Padre, per voi è assolutamente necessario un buon esame di coscienza». Taulero ebbe la grandezza d’animo di ricevere come mandati da Dio i consigli del solitario. Fece non solo il buon esame di coscienza, ma una confessione sincera ancora: poi non volle aprire bocca in mezzo al pubblico per due interi anni, e quegli anni li passò in digiuni, in lacrime, in macerazioni inaudite. Indi ricominciò o, meglio, cominciò a predicare la parola della salute, santificò se stesso e convertì a Dio un numero infinito di anime. Così un povero ignorante pieno dello spirito del Signore convertì un dotto di primo conto. Il fatto di Taulero intanto dovrebbe far venire i brividi a tanti predicatori che salgono i pergami a solo scopo di vanità. Questi infelici predicatori non convertono mai un’anima, ed è la giusta punizione che dà Dio alla loro vanità. Da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II.

Da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, Roma, Coi Tipi di Mario Armanni, nell’Orfanotrofio Comunale.

Un tal Niccolò Boccasini, nato da poveri genitori nel Trevigiano, fin dai primi anni della sua giovinezza aveva vestito l’abito dei Domenicani e in quella religione aveva fatto progressi grandissimi nello studio e nella pietà. Tenne con onore molte cariche dell’Ordine suo e in ultimo ne divenne Superiore Generale. Molti ed importanti servigi rese ancora alla Chiesa, e sempre con solerzia e con prudenza ammirabile. Dopo la morte di Bonifacio VIII dai Cardinali venne eletto Papa e tolse il nome di Benedetto XI. Non durò che quasi un anno nel governo della Chiesa e santamente morì. Or mentre Benedetto era Papa la sua madre ancora viveva. Quell’onesta vecchierella volle recarsi a Roma per vedere ed abbracciare il suo figlio elevato a sì alto onore. Alcune persone, più zelanti che serie, persuasero alla madre del Papa che non era molto conveniente presentarglisi con quelle vesti da contadina e quasi logore. Si vestisse dunque elegantemente e poi si poteva presentare al figlio. La povera contadina non seppe contraddire e si fece vestire da gran dama. Un cameriere si presenta al Papa e gli riferisce che una dama squisitamente vestita desidera parlargli. Benedetto si vuol informare del nome della gran dama, e, venuto a sapere che si trattava della sua stessa madre, esclamò: «Mi è stato ordito un inganno: mia madre non è una dama, ella è una povera contadina: quella dunque non può essere mia madre». La donna col suo naturale buon senso subito capì tutto, e, lasciati gli abiti signorili, indossò le sue vesti da contadina. Il figlio allora le andò incontro, le baciò le mani, le si gettò tra le braccia, le fece una grandissima festa, e tutto alla presenza dei primari personaggi della sua corte. Se Benedetto XI giungeva a tanto eroismo d’umiltà, egli veramente doveva essere un uomo d’una perfezione singolare. Quei gingillini che vanno sempre a caccia d’onori, dovrebbero pensare alla madre di quel gran Papa.

Da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, Roma, Coi Tipi di Mario Armanni, nell’Orfanotrofio Comunale.

San Luigi Re di Francia lasciò, morendo, al suo figlio per iscritto questa sublime istruzione, la quale è un vero miracolo di sapienza per salvarsi l’anima nel governo dei popoli. «Caro figlio, la prima cosa che t’insegno è che tu doni il tuo cuore all’amor di Dio: senza ciò non vi è salute. Procura di non fare veruna cosa che possa dispiacere a Dio: ed anziché commettere un peccato mortale, dovresti voler soffrire qualunque tormento. Se Dio ti manda qualche avversità, sostienila con pazienza, rendine grazie sempre a Lui, e pensa che l’hai ben meritata, e che tornerà a tuo vantaggio. Se Dio ti concede prosperità, gliene devi pure rendere umili grazie, di modo che tu non ne prenda orgoglio: e pensa che non si deve fare guerra a Dio coi suoi doni. Confessati sovente: scegliti confessori virtuosi e sapienti, che possano istruirti di ciò che devi fare ed evitare, e lascia che i tuoi confessori e i tuoi amici ti avvertano e ti riprendano con libertà. Assisti devotamente alle funzioni di chiesa, senza parlare e senza guardare in qua ed in là; ma pregando col cuore e colla bocca, specialmente in tempo della Messa, quando la consacrazione è fatta. Sii amorevole coi poveri, edificante nei costumi, così che nessuno ardisca di dire o fare alla tua presenza cosa che sia offesa di Dio o possa eccitare al peccato. Sii Re di Francia per rappresentare la giustizia; sii leale verso i tuoi sudditi senza guardare né a destra né a sinistra. Vivi in buona pace coi ministri della santa Chiesa e coi membri della tua famiglia». In queste brevi parole c’è tutta la scienza per governare i popoli cristiani. Perché coloro che oggi presiedono al governo delle nazioni non mettono in pratica i consigli dati da Luigi di Francia a suo figlio ? Ma no: oggi si vuole governare coi misteri della politica, e questi misteri cangiano le nazioni in veri inferni.

Da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II.

San Luigi Re di Francia ebbe un odio così fiero al peccato, che neppure poteva sentirne pronunciare il nome. Quest’odio salutare glielo immise nell’anima la pia sua madre Bianca. Avvenne un giorno che San Luigi, discorrendo così alla buona, domandò al signor di Ioinville se egli fosse più contento d’essere coperto tutto di lebbra piuttosto che aver commesso un solo peccato mortale. «Mio Re, rispose il giovine, voi sapete ch’io vi parlo sempre schietto: piuttosto io vorrei aver commesso trenta peccati mortali che essere lebbroso». Il Re lo rimproverò molto, e indi subito si mise a fargli una predica intorno alla disgrazia di quelli che commettono il peccato mortale. Quel San Luigi pareva addirittura un missionario. Non si quietò fino a tanto che non vide persuaso il signor di Ioinville. Ci vorrebbero al presente almeno tanti San Luigi per quante sono le città e le borgate del inondo intero. La cosa più facile oggi è il commettere un peccato mortale : e si veggono bambini attaccati quasi alle poppe delle madri che peccano mortalmente!

Da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II.

Chi l’avrebbe potuto immaginare! Quella Santa Elisabetta, ch’era la carità in persona, che faceva da madre a tutti gli sventurati, venne visitata da Dio con grandi sventure e si ridusse ad una miseria estrema. Quando aveva appena vent’anni il marito le morì in Otranto. Cominciarono allora le sue sventure. Il fratello del marito successe al trono ed ella venne spogliata di tutto, perfino delle private possessioni e proprietà. Coi piccoli figli dovette uscire a piedi dal castello di Vartborgo, che con tante virtù aveva santificato. Non pratica dei luoghi ed errando alla ventura, una notte prese stanza in un misero albergo. Sentendo da quell’albergo suonare la campana d’un convento di Francescani, la quale chiamava i Frati a salmeggiare in coro, ella si alza e corre alla chiesa a pregare. Quel convento era stato edificato da lei medesima. Quando il mattutino fu compito, fece chiamare il superiore e lo pregò di cantare con tutti i religiosi un Tedeum per ringraziamento al Signore. E di che Elisabetta intendeva ringraziare il Signore? Delle grandi tribolazioni che le aveva mandato! Grande anima! E delle tribolazioni quella giovine eroina non si sentiva mai sazia. Affidò i figliuoletti ad alcune persone caritatevoli, ed ella cominciò con gran pazienza a lavorare per lucrarsi uno scarso cibo. E lo scarso cibo, guadagnato col lavoro, Elisabetta lo partiva sempre coi poveri. Molti poveri però si erano rivolti contro di lei, perché non potevano avere l’elemosina abbondante di prima. Il fatto di una vecchia poi arrivò all’eccesso dell’ingratitudine e della malvagità più satanica. La Santa aveva in preferenza beneficata una vecchia, la quale in casa sua non aveva persona viva. Or accadde che la nostra Eroina un giorno incontrò quella brutta vecchiaccia sul passaggio sopra alcune acque negre, scolaticcie, assai limacciose e fetide. Subito la vecchiaccia venne presa da una stizza infernale, urtò la povera Elisabetta e la fece precipitare in quelle acque, gridando: «Tu che non hai voluto vivere da Duchessa, giaci ora in quell’acqua immonda». La mite e soave Duchessa s’alzò come potè meglio, e disse sorridendo: «In verità questo fango mi è più caro degli ornamenti dei miei giorni felici». Poi da sé andò a risciacquare le vesti in un vicino ruscello. - Sempre noi abbiamo la bocca aperta per lamentarci contro il Signore, quando Egli ci vuole mandare pietosamente qualche piccolissima mortificazione. Ricordiamoci tutti del Tedeum di Santa Elisabetta.

Da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 63-65.

Di Santa Elisabetta di Turingia si raccontano portenti di carità. Per i malati, e specie per i lebbrosi, ella era una madre, una sorella, una serva, la mano stessa della Provvidenza. Come la donna forte della sacra Scrittura, lavorava con le proprie mani le vesti agli orfanelli. Nel trattare sempre coi poveri ella prese grande amore alla povertà, e così divenne una degna figliuola di San Francesco d’Assisi. Ora accadde un giorno che Elisabetta, avendo dato tutto ai poveri, non si trovasse in mano neppure la più piccola moneta. Intanto, un altro povero, sopravvenuto quando la Santa aveva dato ogni cosa, le cominciò a chiedere elemosina con voce lamentevole. Che fare? Elisabetta vede che ha le mani vestite di guanti, ma quei guanti son molto ricchi, son ornati di gemme preziosissime. E che monta tutto questo? Ella se ne trae uno e lo porge a quel povero. Un cavaliere era presente al fatto e volle comprare il guanto dal povero con danaro sonante. Acconciò poi il guanto al suo elmo e in tutte le battaglie che sostenne, come confessò egli stesso nell’estrema vecchiezza, fu sempre vincitore dei nemici. Il buon Dio aveva comunicato al guanto della carità la virtù delle vittorie in mezzo ai campi di battaglia. - Ma che dobbiamo noi più ammirare il guanto che opera prodigi, o la prodigiosa carità di santa Elisabetta? Se le ricche signore avessero dinanzi agli occhi gli esempi di Santa Elisabetta, di certo non spenderebbero a gingilli così spesso quel danaro che potrebbe asciugare tante lacrime nei miserabili tuguri dei figli del popolo. Ci pensino!

Da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 62 e 63.

San Guglielmo Abate era non solamente dottissimo nelle divine Scritture e nelle varie scienze, ma (era) di una carità per i poveri sublimemente straordinaria. Spesso a lui facevano ricorso gli uomini della scienza per la soluzione di grandi difficoltà e d’intricati problemi, ma i poveri gli erano sempre attorno, sempre. Era un giorno rigidissimo d’inverno, la neve cadeva a larghissime falde, e il freddo faceva battere i denti anche vicino al caminetto. Guglielmo camminava per una strada avvolto fino agli occhi nel suo mantello, e affrettava il passo per giungere subito al monastero. In quella s’avviene a due poveri mezzi nudi e intirizziti dal freddo che facevano proprio pietà. Chiedono a Guglielmo con voce semispenta non tanto elemosina di pane, quanto elemosina di vestimenta. Che fare? Il sant’Abate si toglie subitamente il mantello, lo divide in due parti eguali, e poi dice ai poveri: «Ecco che cosa posso darvi io; copritevene e rimanetevene con Dio». Direte voi: «Non è un matto addirittura San Guglielmo? Come! tira quel freddo, egli ha quel mantello per non morire stecchito in mezzo ad una strada, e si cava quel mantello dalle spalle per dividerlo a due poveri!... E troppo: è quasi un suicidio». Via, non galoppate tanto innanzi: la filosofia della carità cristiana non se la fa tanto bene colla filosofia del mondo. La filosofia mondana giunge quasi sempre ad affermare che dobbiamo noi far divorare dalle tignuole le nostre vesti, piuttosto che cederne una minima porzione a quei che vanno nudi per le strade. La filosofia della carità cristiana, invece, spesso ci fa lo scherzo che fece a San Guglielmo. Quale delle due filosofie è nella verità? Vattela a pesca ... (Sic!).

Una donna di Ravenna, carica già di figliuoli, ne mise al mondo un altro, il quale nel fonte battesimale prese il nome di Pietro. Il figlio maggiore ebbe l’audacia di rimproverare alla madre la nascita di quel grazioso bambino! La donna tanto se ne afflisse ed indispettì che, non badando più alla voce della natura, cessò di nutrirlo e l’espose a morirsene di freddo in una foresta. Una serva di casa ne sentì pietà, raccolse il bambino, che quasi era agli ultimi tratti, e lo portò alla madre, rimproverandole dolcemente la sua durezza di cuore. Quella serva ebbe il coraggio di dire alla madre di Pietro che le donne cristiane non debbono rassomigliare alle tigri ed alle leonesse, e che badasse bene che forse il Signore aveva dei disegni su quel bambino. Quella pietosa serva aveva ragione da vendere, e fu profetessa. La madre ritornò ai sentimenti di tenerezza e d’umanità, ricevette il bambino e lo allevò con amore. Quel bambino crebbe, divenne uomo, poi prete, poi Cardinale della santa romana Chiesa, e poi, quel che più importa, un gran Santo. Il mondo cattolico onora quel bambino, ripudiato dalla madre e salvato miracolosamente da una serva, col nome di San Pietro Damiani. Chi può conoscere le vie della divina Provvidenza? E chi si può opporre ai decreti santi della divina Provvidenza, quando vuole operare dei portenti in mezzo all’umana famiglia? Da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 54 e 55.

A cura di CdP

San Francesco Solano dal Perù si recò alle terre dette, poi, del Rio della Plata. I popoli selvaggi del Rio della Plata erravano miseramente per i boschi e parlavano strane favelle. Per un portento della bontà di Dio, Francesco si faceva comprendere da tutti predicando in una sola lingua. I poveri selvaggi non si raccapezzavano e correvano a venerare Francesco come una specie di divinità. Egli intanto adoperava ogni mezzo per trarre a Gesù Cristo quelle povere creature: preghiere, carità paterna, viaggi attraverso i fiumi e i boschi. Ma quell’uomo rimase meravigliato quando vide che, dopo le prime fatiche, non era necessario andare in cerca dei selvaggi, i quali, invece, venivano a cercare lui in grandi truppe. Or sentite questa. Era un giovedì santo e il Solano vedea raccolti intorno a sé pei divini uffici un gran numero di novelli convertiti, i quali erano tutti attenti ad assistere ai misteri della Passione del Signore. In quella sopravviene, alzando urli feroci, un’orda di genti barbare, apportando guerra e morte ai cristiani novelli. Uno spavento indicibile s’impossessò del cuore di tutti: i fanciulli e le donne gridavano fino a sfondare il cielo. Non abbiate paura di nulla, disse Francesco: lasciate fare a me. E marciò solo all’incontro dei nemici, parlò loro di pace, di concordia, di conversione, e fu inteso pienamente, sebbene non avesse appreso un vocabolo solo della lingua di quei barbari. Che accadde? Tutto fu pace e concordia, e più di novemila di quelle genti feroci chiesero il battesimo e la notte seguente assistettero alle pratiche di pietà. - Oggi certi filantropi vogliono convertire il mondo con la forza dei cannoni. Ma i barbari vengono alla civiltà con una sola forza: la croce di Gesù Cristo. Numero 92, da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 208 e 209, titolo originale: «Un giovedì santo tra i selvaggi».S an Francesco Solano dal Perù si recò alle terre dette, poi, del Rio della Plata. I popoli selvaggi del Rio della Plata erravano miseramente per i boschi e parlavano strane favelle. Per un portento della bontà di Dio, Francesco si faceva comprendere da tutti predicando in una sola lingua. I poveri selvaggi non si raccapezzavano e correvano a venerare Francesco come una specie di divinità. Egli intanto adoperava ogni mezzo per trarre a Gesù Cristo quelle povere creature: preghiere, carità paterna, viaggi attraverso i fiumi e i boschi. Ma quell’uomo rimase meravigliato quando vide che, dopo le prime fatiche, non era necessario andare in cerca dei selvaggi, i quali, invece, venivano a cercare lui in grandi truppe. Or sentite questa. Era un giovedì santo e il Solano vedea raccolti intorno a sé pei divini uffici un gran numero di novelli convertiti, i quali erano tutti attenti ad assistere ai misteri della Passione del Signore. In quella sopravviene, alzando urli feroci, un’orda di genti barbare, apportando guerra e morte ai cristiani novelli. Uno spavento indicibile s’impossessò del cuore di tutti: i fanciulli e le donne gridavano fino a sfondare il cielo. Non abbiate paura di nulla, disse Francesco: lasciate fare a me. E marciò solo all’incontro dei nemici, parlò loro di pace, di concordia, di conversione, e fu inteso pienamente, sebbene non avesse appreso un vocabolo solo della lingua di quei barbari. Che accadde? Tutto fu pace e concordia, e più di novemila di quelle genti feroci chiesero il battesimo e la notte seguente assistettero alle pratiche di pietà. - Oggi certi filantropi vogliono convertire il mondo con la forza dei cannoni. Ma i barbari vengono alla civiltà con una sola forza: la croce di Gesù Cristo.

Numero 92, da «Racconti Miracolosi», Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 208 e 209, titolo originale: «Un giovedì santo tra i selvaggi».

A cura di CdP.

Nelle vite dei Padri del deserto si legge questo fatto degno di grande considerazione. L’anacoreta San Malco, il quale era nato in Mesopotamia, aveva di soppiatto abbandonati i genitori, che ebbero da Dio quell’unico figliuolo, ed era fuggito a fare penitenza nel deserto. Dopo molti anni seppe, non so come, che suo padre era morto ed era rimasta la sola madre vedova, la quale non sapeva e non poteva dispensare ai poveri le grandi ricchezze della sua famiglia, ormai vicina ad estinguersi. Malco allora, preso da un sentimento di grande tenerezza, chiese al suo superiore che gli avesse permesso per pochissimo tempo il ritorno alla sua casa, tanto per assistere un po’ la madre e per largire in elemosina ai poveri tutte le ricchezze della famiglia. Il superiore, scorto in quella domanda un tranello del maligno nemico, si pose in un assoluto diniego; però Malco tanto fu costante nel pregare che in fine quel santo uomo di superiore dovette cedere. Partì dunque dalla sua solitudine il giovine anacoreta. Prima di muoversi aveva preso tutte le possibili precauzioni per non essere acchiappato dai ladroni, i quali infestavano orribilmente quelle contrade. Ma la Provvidenza permise ch’egli, dopo aver fatto poco cammino, cadesse nelle mani dei malfattori. Venne catturato, battuto brutalmente, e poi venduto ad un padrone come schiavo. Il padrone, a dir vero, cominciò a trattare il novello schiavo molto umanamente, poiché vedeva in lui qualità del tutto singolari. Ma guardate qual brutto grillo saltò in testa un giorno a quel padrone! Vedendo che sotto la direzione di Malco i suoi negozi prosperavano assai, egli credette di legarlo per sempre al suo servizio con dargli moglie. Adocchiata tra le sue schiave una giovinetta quanto bella tanto virtuosa, disse a Malco: «Ecco, quella è la sposa tua». Il povero anacoreta a questa sparata del padrone rimase proprio di stucco. Era fuggito dalla casa paterna per non prendere donna, ed ora, ridotto per una sua imprudenza in ischiavitù, la doveva prendere per forza, anzi per violenza!... Non cadde però di coraggio e disse al padrone con franchezza grande che non poteva né doveva acconsentire alle sue strane pretese. Quel barbaro divenne addirittura un demonio e minacciò Malco della vita, se non avesse ubbidito prontamente. La giovine destinata a moglie al povero anacoreta, sebbene schiava anche ella, era cristiana, quindi pia oltre ogni credere e di gran coraggio. Avuto a sé Malco, gli disse così: «Subito che il nostro tiranno padrone ci vuole sposi ad ogni costo, fingiamo di sposarci, e cerchiamo intanto un’occasione per fuggire di sotto al suo giogo». A Malco piacque assai il divisamento della giovine, e finsero tutti e due d’essere sposi. Una notte, dopo essere trascorso pochissimo tempo dal finto matrimonio, ebbero l’occasione propizia di darla a gambe. Avevano ucciso due capretti il giorno innanzi, ne avevano cotto le carni per il viaggio, ed avevano ancora gonfiate le pelli di quei due animali per passare un fiume pericoloso coll’aiuto delle stesse. Il padrone intanto ebbe l’agio di accorgersi della fuga, e, chiamato a sé uno schiavo dei più fedeli, montarono tutte e due sopra cavalli velocissimi e subitamente inseguirono i poveri fuggitivi. Questi dopo tre giorni s’accorsero d’essere inseguiti e in cuore loro si tennero assolutamente perduti. Non volendo seguitare la strada, per non essere presi da un momento all’altro, entrarono in una caverna, e già furono veduti dai cavalieri inseguitori. «Li abbiamo ormai presi», disse il padrone allo schiavo: «sono entrati nella caverna. Noi non si deve far altro che chiamarli fuori, legarli ben bene e ricondurli lì donde partirono». In un attimo quel padrone e quello schiavo sono alla porta o imboccatura della caverna, scendono da cavallo e lo schiavo si caccia dentro tutto arroganza e grida: «Fuori, sciagurati, subito fuori!». Una leonessa, la quale aveva i suoi cuccioli nel fondo di quella caverna, ascolta le alte grida, s’avventa a quel disgraziato schiavo, lo strozza in men che si dice, e lo trascina vicino ai figli. Il padrone, non sentendo più la voce dello schiavo e non vedendo venir fuori i fuggitivi, corre dentro la caverna anch’egli e con voce assai animata vuole dirigere allo schiavo, già morto, parole di rimprovero. La leonessa sente ancora quelle parole e colla rapidità della saetta va a fare del padrone lo strazio che aveva fatto dello schiavo. E i due fuggitivi? Essi s’erano rannicchiati in un angolo della caverna, vicino alla porta, e se ne stavano lì tremanti e senza quasi tirare il fiato. Osservata la morte terribile che fecero i loro persecutori, uscirono subito dalla caverna, montarono sui cavalli che trovarono all’ingresso, e via a precipizio. Fatto un buon cammino, si separarono e pigliarono ambedue la solitudine ove diventarono due santi. Intanto San  Malco per aver ceduto alla tentazione di far ritorno in casa sua, si trovò in quel brutto pericolo. — E noi tutti apprendiamo dal fatto la grande lezione che quando abbiamo abbandonato il mondo non dobbiamo dissennatamente far ritorno in mezzo allo stesso. [N° 91, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 306-310].

Rara foto del P. Giacinto da Belmonte - Dal sito del Comune di Belmonte Calabro.

Ecco qui un altro fatto bellamente sublime del Beato Angelo da Acri. Egli un giorno da Cosenza s’avvia con due suoi compagni per andare nel mio Belmonte Calabro. In sul mezzodì, arrivati quei santi religiosi in una montagna tra Cosenza e Belmonte, si vogliono fermare per consumare un po’ di cibo. Mentre stanno adagiati all’ombra di certi faggi, i compagni si guardano attorno e non vedono più Angelo. Si alzano, gettano gli occhi da per tutto, lo chiamano a nome; ma è inutile ogni cosa. Quei miserelli non sanno far altro che mandare giù pochi bocconi e poi tutti pieni di tristezza continuare il viaggio per Belmonte. Intanto cammin facendo s’abbattono ad un belmontese, il quale si reca in Cosenza per sue faccende, e gli domandano se per caso avesse mai veduto Angelo camminare alla volta di Belmonte. E il contadino: «Per alla volta di Belmonte, dite voi? Vi assicuro sull’anima mia che meglio di due ore fa io mi trovava dinanzi al convento di Belmonte ed ho veduto con questi due occhi il Padre Angelo con la mano alla cordicina del campanello della porta a suonare per essergli aperto». Quei religiosi sbalorditi compresero allora che Angelo era dinanzi alla porta del convento di Belmonte proprio in quel punto in cui spariva di dentro ai faggi. Nella vita del nostro Beato si raccontano molti di siffatti rapimenti, simili a quello che ebbe San Filippo Apostolo. Questi rapimenti istantanei da un luogo ad un altro sono una prova dell’agilità che avranno i corpi glorificati dopo l’universale risurrezione. Intanto certi grandi pensatori o, meglio, certi ristucchevoli parolai dicono che la risurrezione della nostra carne è assolutamente impossibile! [Da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 304-305].

A cura di Carlo Di Pietro

Ancora un altro fatto portentoso del nostro caro Beato da Acri. Egli una sera predicava dal pulpito della prima chiesa d’Amantea. Il popolo era tutto commosso alla sua fervida parola e si sentiva un singhiozzare quasi generale. Quando ad un tratto il predicatore interrompe il discorso, si siede e chiude la faccia entro le palme. Tutti rimangono sorpresi ed attendono trepidanti la continuazione della predica. Ma che? Dopo un buon quarto d’ora Angelo s’alza per continuare e, volendo cercare una scusa a tutta quella folla devota, dice, quasi senza volerlo, così: «Ho dovuto assistere l’anima ad una gentildonna di Rossano, la quale or ora è passata da questo brutto mondo agli eterni riposi del cielo. Queste parole, dette in una maniera che da nessuno potevano essere messe in dubbio, riempirono di straordinaria meraviglia quel popolo. Intanto si scrisse da certi curiosi in Rossano per conoscere nettamente la cosa, e si venne a sapere che proprio in quell’ora il Beato aveva assistito l’anima alla gentildonna, la quale era morta con la benedizione del Santo. Angelo aveva promesso alla pia donna, quando una volta predicò in Rossano, d’assisterla nel punto della morte. Nel mentre ch’era sul pulpito d’Amantea egli conobbe per divina rivelazione che la donna stava per passare, e volò in Rossano, rimanendo al medesimo tempo presente a tutti su quel pulpito. Quella donna doveva essere d’una perfezione non comune, se potè aver la grazia d’essere assistita dal Beato Angelo nel passaggio tremendo da questo mondo all’altro. Il Signore conceda a tutti noi d’essere assistiti nel punto della morte, se non da un santo, almeno da un Sacerdote zelante. Ma questa grazia singolare bisogna sapercela in certa maniera meritare con una vita piena d’opere buone. San Vincenzo Ferreri dice ch’è un miracolo più grande di quello di risuscitare i morti il fare una buona morte dopo aver menata una pessima vita. [Da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 302-304].

A cura di Carlo Di Pietro

Il grande Giosuè della Bibbia fermò il sole per fare una strage completa dei nemici del popolo di Dio. Ma nella storia cristiana un altro Giosuè fermò il sole per piantare un calvario. Ecco il fatto come successe. Il Beato Angelo da Acri aveva predicato in Mendicino, in quel di Cosenza. Siccome era costume del grande Apostolo di piantare il calvario a fine di missioni in ogni paese ove li mandava la divina Provvidenza, volle anche piantarlo in Mendicino. L’ultima sera dunque delle sante missioni, disse al popolo, pochi minuti prima di finire il discorso, che tutti si tenessero apparecchiati per andare in processione nel luogo ove sarebbero state piantate le croci. Sceso dal pulpito, il Clero provò a dissuaderlo dalla cara cerimonia per quella sera, adducendo a scusa più che legittima l’ora molto avanzata, giacché il sole ormai stava per calare. Angelo però, cercato tutto da una virtù soprannaturale, non volle sentire nessuna ragione, si mise sulle spalle la croce più pesante, e via in processione col popolo. Il calvario doveva essere piantato lontano dal paese meglio d’un chilometro e si doveva passare un fiume, gonfio molto per le pioggie cadute in quei giorni. Il popolo andò a passare per un ponte gettato sopra quel fiume, ma il Beato non si curò di nulla e lo guadò subito a piedi asciutti. Arrivato colla folla al luogo designato, si cominciò la cerimonia del piantare le croci. Quelle croci erano cinque, ed Angelo fece cinque prediche al popolo, che lo ascoltava e lo guardava con l’anima negli occhi. E il sole? Il sole «stava fermo...». Aspettava che il santo predicatore avesse terminato la sua gloriosa fatica! Tutto finito, quella folla, piena di fede ed entusiasmata per quei portenti, tornò in paese e già era notte buia, successa in un momento ai più splendidi chiarori del sole. Nei giorni del Beato Angelo si piantavano le croci con devozione grandissima, oggi si atterrano con furore satanico e si fanno a pezzi. Il Dio che morì sulla croce risparmi i suoi castighi al mondo dissennato e folle! [Da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 300-302].

A cura di Carlo Di Pietro

San Giovanni Canzio, in un viaggio che fece a Roma per visitare le tombe dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, s’incontrò con certi ladri, i quali lo spogliarono di tutto. Quegli egregi signori ladri, come per schernirlo, gli domandarono se per caso avesse altro sulla sua persona. «No», rispose pacatamente quel santo Pellegrino. I ladri furono contenti della risposta e lo lasciarono libero di andare per la sua strada dopo averlo rapinato. Dati un dieci passi, Giovanni si ricorda che ha cucite in un punto del mantello alcune monete, si volta e grida: «Venite a prendere questo denaro, che avevo dimenticato nel mio mantello: io sento un gran dolore d’avervi detto, sebbene involontariamente, una bugia». Quegli uomini, avvezzi a tutti i delitti più atroci, vennero mutati in altri da quell’azione tanto generosa, e non solo non vollero le monete dimenticate nel mantello, ma restituirono tutto il danaro tolto al Santo. - Originale quel San Giovanni! Egli ebbe paura della bugia detta involontariamente a quei ladri, i quali, in quella circostanza, non avevano assolutamente il diritto di sapere la verità, ma il Santo volle subito riparare alla sua distrazione. Il mondo nostro intanto campa di bugie, gli uomini nuotano nelle bugie come in un mare. Chiameranno i posteri il secolo decimonono secolo di bugie. Preghiamo che San Giovanni Canzio c’impetri dal Signore la grazia di pensare sempre la verità e prudentemente sempre dirla. [N° 87, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 78-79].

A cura di Carlo Di Pietro

Il Beato Angelo per due volte aveva svestito l’abito dei Cappuccini. Il demonio, prevedendo che da quel grande Apostolo calabrese doveva toccare sconfitte tremende, gli aveva dato assalti potenti e per due volte gli aveva fatto abbandonare la cella. Una terza volta intanto il giovine risolutamente domanda l’abito dei frati Cappuccini, e dalla patria sua parte per andare a chiudersi nel noviziato in Belvedere, che siede sulla marina del Tirreno. Egli non ha compagni per il viaggio e cammina tutto cogitabondo e ad occhi bassi. Quando il sole quasi sta per tramontare arriva alla sponda del fiume Crati, il quale mette paura per le piogge venute a catinelle in quella stagione. Il povero giovine, non volendo tornare indietro e non potendo assolutamente guadare il fiume, cade ginocchioni e a gran fiducia invoca l’aiuto del buon Padre celeste. Subito gli si presenta un personaggio nerboruto, bruttissimo nel volto, e non sa dirgli che queste parole: Ecco le mie spalle, via per mezzo al fiume. In men che si possa battere palpebra il personaggio misterioso e il giovane sono all’altra sponda. Quest’ultimo caccia la mano nella scarsella per cavarne una moneta e farla passare nelle mani di colui che in quel pericolo gli aveva reso quel servizio segnalato; ma si guarda attorno e non vede anima viva... Negli anni maturi il Beato rivelò ad un suo amato compagno che il personaggio del fiume Crati era stato il demonio, e propriamente quel demonio che per ben due volte gli aveva fatto lasciare la cella colle sue suggestioni maligne. Iddio ad umiliare quel demonio gli aveva comandato di passare sulle spalle il giovine per il gonfio fiume.  Stiamo uniti a Dio e non abbiamo paura del demonio. La lettura delle vite dei Santi ci insegna che il demonio spessissimamente ha dovuto servire agli stessi. Di tutto son padroni i veri servi di Dio, anche del demonio. [N° 85, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 296-297].

A cura di Carlo Di Pietro

La madre del B. Angelo da Acri ogni mattina andava a Messa nella chiesa dei Cappuccini, vicina alla sua povera casetta. Quando suo figlio era ancora bambino, lo lasciava nel letto addormentato, chiudeva la porta, e via alla chiesa. Lucantonio (si chiamava così Angelo prima di vestire le lane dei Cappuccini) dormiva saporitamente fino al ritorno della madre. Però una volta accadde a Diana (la madre) questo fatto. Appena giunta in chiesa, le pareva di stare con le ginocchia sopra le spine, non poteva raccapezzare la preghiera, si sentiva come frugata da una forza sovrumana che la spingeva ad uscire. Uscì e volò in casa. La porta di casa si apre e agli occhi di quella donna corre uno spettacolo sublime. Lucantonio, tosto che la madre l’aveva chiuso dentro, era sceso dal letto in camicia, si era aggiustato con industrie e devozione chicchi di frumentone sotto le tenere ginocchia, e poi, con le manine giunte e con gli occhi rivolti ad una immagine della Madonna Immacolata, si era messo fervorosamente a pregare. E quella santa immagine intanto pioveva sopra il fanciullo un’abbondantissima luce di Paradiso. Mamma Diana, tutta fuor di sé per la gioia, corre a stringersi il figlio tra le braccia, e la luce divina continua a venire a grandi ondate sopra quella madre devotissima e sopra quel figlio! - Quella povera contadina di Diana Enrico era una donna tutta pietà, e il Signore si servì di lei per dare alla Chiesa e alla società il Beato Angelo. Siano buone e cristiane le madri, se vogliono da Dio la grazia d’avere buoni e cristiani figliuoli. [N° 84, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 294-295].

A cura di Carlo Di Pietro

Del Vescovo San Spiridione si racconta il seguente edificantissimo fatto. Quel Prelato era d’una carità del tutto portentosa. Le rendite sue erano divise in due parti uguali: una era dei poveri, un’altra gli serviva per la propria sostentazione e ancora per dare in prestito danaro a chi ne avesse avuto bisogno. Quando andavano a domandargli danaro in prestito non faceva che aprire lo scrigno dicendo: «Prendetene quanto ve ne potrà abbisognare». Allorché poi glielo andavano a restituire lo faceva da loro stessi mettere nello scrigno, senza badare né punto né poco se avessero o no contato giusto. Una persona, creduta da tutti un fiore d’onestà, ebbe la sventura d’abusare e della buona fede e del disinteresse del Vescovo. Andò elle una delle tante volte a restituire il danaro preso da molto tempo ad imprestito, e il Vescovo le disse di metterlo in quello scrigno dal quale l’aveva cavato quando ne aveva avuto bisogno. Questa finse di mettere, ma non mise nulla. Ora accadde che trovandosi quella persona, dopo un qualche tempo, un’altra volta nella necessità di ricorrere al Vescovo, andò tutta sicura del fatto suo. Spiridione, vedutola ed inteso di quel che si trattava, senza punto scomporsi, le disse: «Ecco lì lo scrigno, prendi a tutto piacer tuo». Corre quella disgraziata allegra allegra ed affonda la mano. Ma che cosa è avvenuto? Lo scrigno è vuoto. «Vieni a vedere, dice meravigliata al Vescovo: non ci è più danaro». E Spiridione col riso in bocca: «Non ci è più danaro? È proprio impossibile: lo scrigno dev’essere colmo». E, così dicendo, s’avvicina ed affonda anch’egli la mano. «Non c’è davvero nulla, egli poi dice con voce calma; ma sai tu perché è accaduto questo? Perché tu abusasti della mia buona fede: tu non rimettesti in questo scrigno, il quale appartiene ai poverelli, il danaro che prendesti per i tuoi bisogni l’ultima volta. Iddio ha voluto punire te e in te tanti altri che ricorrono alle mie largizioni. Hai fatto male, un male grandissimo, sappilo bene. Tu mi parevi una persona tanto buona, tanta onesta! Ora preghiamo un pochino insieme il gran Padre della misericordia che ci voglia ridonare il toltoci per i nostri peccati». Pregarono, e dopo la preghiera lo scrigno si trovò riempito. - Quella persona che vuotava lo scrigno di San Spiridione, a conti fatti, si poteva chiamare un “ladro onesto”. Un poeta ha voluto dipingere i nostri tempi in un sonetto, e nell’ultimo verso dice che noi al presente vediamo: Meretrici pudiche e ladri onesti ..... [N° 83, da Racconti Miracolosi, del Padre Giacinto da Belmonte, 1887, Volume II, pagine 282-284].

A cura di Carlo Di Pietro

Tutti conoscono che San Simone Stilita [San Simeone] venne così chiamato dalla colonna ove per tanti anni fece una penitenza che fu davvero uno spettacolo agli occhi degli uomini e degli angeli ancora. Or avvenne un giorno che un ladro, il quale incuteva a tutti spavento, inseguito dalla pubblica forza, non avendo più ove fuggire, corse alla colonna di San Simone e vi si strinse tanto con le braccia da avviticchiarvisi come l’edera ad una quercia. Dall’alto della sua colonna il Santo gli chiese il nome. «Io sono, rispose tremando quel disgraziato, io sono Gionata il ladro famoso, che in vita mia non seppi far altro che male, ed ora son venuto ai tuoi santi piedi per soddisfare come posso alla giustizia di Dio». Appena il ladro ebbe finito di pronunziare queste parole, sopravvennero i soldati per prenderlo e condurlo in Antiochia a giustiziarlo. Però quei soldati, avendo un grandissimo concetto della virtù di San Simone, gli vollero domandare il permesso di poter mettere le mani addosso a colui che stava così strettamente abbracciato alla sua colonna. Lo Stilita allora rispose così: «Figliuoli, io non chiamai in questo luogo il malfattore: ve lo menò la Provvidenza di Colui ch’è più forte certamente di tutti voi. Lasciatemelo dunque e andatevene colla pace di nostro Signore Gesù Cristo, tutti e subito». I soldati partirono e il ladro rimase con le sue braccia come incatenato a quella colonna portentosa. Trascorsi sette giorni, quel penitente si volge a San Simone e gli dice con fievole voce: «Padre, io vorrei lasciare la tua compagnia». «Troppo presto, gli risponde subito San Simone, ti ha preso il tedio della vita penitente: vuoi tornare ai tuoi delitti e rapine?». «No, risponde il ladro: il buon Dio mi ha concesso una vera contrizione dei miei traviamenti: per me tutto è terminato». Dette queste parole, era già morto. Coloro che in questo secolo rubano a man salva e mettono alle croci la povera umana famiglia, dovrebbero meditare il caso del ladro che morì abbracciato alla colonna di San Simone. Preghiamo per la conversione di tanti ladri, i quali, sovente, vogliono apparire galantuomini! [N.B. Il ladro che si dichiara pentito e, pur avendone la possibilità, non restituisce a chi ha rubato, né si impegna sinceramente a farlo, questi non è veramente pentito e non viene affatto perdonato da Dio]. [N° 82, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 278-280].

A cura di Carlo Di Pietro

San Cipriano racconta questo fatto, degno d’essere profondamente meditato, specie nei giorni che volgono. Una donna, dopo aver mangiato carni consacrate agli idoli, volle commettere la colpa inaudita d’andarsi a cibare delle carni di Gesù Cristo. Si cacciò tutta sicura in mezzo alla folla di coloro che dovevano prendere la santissima Eucaristia, e tolse dalle mani del Sacerdote la particola consacrata. Ma Iddio volle fare in sull’istante una tremenda vendetta della procace sacrilega. Il corpo di Gesù Cristo le fece un gruppo terribile tra la gola e lo stomaco ed ella ne fu orrendamente soffocata. Oppressa in tal maniera dal suo delitto, dopo molti tremiti e dopo convulsioni infernali, cadde estinta nel medesimo luogo ove aveva commesso il sacrilegio, al cospetto di una folla immensa tutta compresa di stupore e di paura. Questo fatto dovrebbe mettere il cervello a partito a tanti sciagurati che o si vanno a comunicare sacrilegamente, o rubano nelle chiese le sacre particole e le maltrattano con rabbia da indemoniati. [N° 81, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 277-278].

A cura di Carlo Di Pietro

Un peccatore, «carico di delitti dalle unghie dei piedi all’ultima cima dei capelli», ebbe da Dio la grazia singolare d’andarsi a confessare da un santo Arcivescovo. Detti i peccati con lacrime e singhiozzi, chiese al pio confessore se Dio sarebbe stato così buono e misericordioso da perdonargli tutte quelle scelleratezze. «Figlio mio - rispose subito l’Arcivescovo - Iddio è disposto a perdonare non solo le tue scelleratezze, ma quelle ancora d’infinite creature, purché la confessione sia sincera come quella che tu ora stai facendo ai miei piedi». «E quale penitenza io debbo fare per i miei peccati? - soggiunse tremando di gioia quel peccatore». «La penitenza, non aver paura, è poca, ripigliò il Confessore: non sarà che di sette anni». «Padre mio, gridò il peccatore, sette anni hai detto? Per peccati così enormi, per delitti tanto inauditi sette anni di penitenza? Io vorrei avere una vita lunghissima, vorrei avere una vita proprio quanto l’eternità per impiegarla tutta a piangere i mie peccati e a soddisfare all’offesa giustizia di Dio». E queste parole erano dette singhiozzando, nel mentre che dagli occhi uscivano due ruscelli di lacrime. «Ma io ho sbagliato, mio figliuolo, replicò l’Arcivescovo: la tua penitenza è proprio questa: tre giorni di digiuno stretto in pane ed acqua. Hai compreso? Bada a me: Iddio ti perdonerà tutto per questi tre giorno di digiuno». «Padre, allora disse tutto in potere di una mistoriosa costernazione il penitente, Padre, voi certamente non volete salva l’anima mia: io non debbo fare tre giorni di digiuno e neppure sette anni di penitenza; ma per tutta la mia vita debbo castigare aspramente questa carne, che fu la causa per la quale venne così indegnamente offeso da me il buon Dio». «Or bene, figliuolo, fece allora l’Arcivescovo, commosso ed insieme consolato per la contrizione perfetta di quel peccatore, io voglio aumentarti la penitenza, della quale mostri tu tanto acceso desiderio. Ecco dunque la lunga ed aspra penitenza tua: dirai una sola volta l’orazione domenicale». A questa proposta tanto inaspettata il peccatore si sente scoppiare il cuore per il dolore e per la riconoscenza verso la misericordia di Dio, e rimane morto all’istante. Il santo Arcivescovo lo fa raccogliere di terra e grida: «Ecco un’anima che se ne vola direttamente al Paradiso!». Comprendano bene la lezione quelle brave e sante persone che hanno tanta paura della poca penitenza imposta loro dai Confessori per quel numero senza numero di peccati che vanno a dire agli orecchi degli stessi! Se queste brave e sante persone avessero coscienza dell’offesa di Dio e della pena che merita questa offesa, non sentirebbero certamente nessuna paura della poca penitenza. [N° 80, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 275-277].

A cura di Carlo Di Pietro

Nella storia ecclesiastica si racconta questo fatto, successo l’anno 871. Per comando dell’Imperatore Basilio un Vescovo andò in mezzo ai popoli della Russia affine di convertirli a Gesù Cristo. Il Principe dei Russi, all’annunzio dell’arrivo di quel Vescovo, convocò i grandi della sua Nazione ed, assisosi in mezzo a loro, domandò consiglio se conveniva di lasciare la superstizione dei loro antenati per abbracciare il Cristianesimo. Tutti ritennero opportuno interrogato il Vescovo. Quel santo prelato chiamato in mezzo a quei fieri selvaggi non si scoraggiò né si lasciò impaurire, ma, con voce piena di grande autorità, cominciò a raccontare loro i miracoli dell’antico Testamento, e specialmente quello dei Fanciulli di Babilonia, gettati in una spaventosa fornace. Quei Russi, col loro Principe, ascoltavano sbalorditi e in un momento gridarono quasi tutti in una volta: «Saremmo pronti a convertirci al Cristianesimo, se tu proprio ora ci volessi far il dono d’uno dei tanti miracoli da te con tanta franchezza raccontatici». «Benché non sia permesso a nessuno di tentare Dio - rispose umilmente il santo Vescovo - nondimeno, trattandosi della conversione d’una grande Nazione, scegliete voi il miracolo che più vi aggrada, e vi prometto che il Signore l’opererà all’istante». Siccome il prelato teneva in mano il libro della Sacra  Scrittura, quei barbari dettero fuoco ad una grande fornace e dissero: «Getta adesso quel libro nella fornace, come in mezzo alle fiamme furono gettati i tre Fanciulli di Babilonia; se quel libro non brucerà, ti promettiamo di credere alla tua religione e domanderemo subito il battesimo». Non ci volle altro. Il Vescovo lanciò la Scrittura dentro le fiamme, che si elevavano altissime; dopo molte ore il fuoco si spense e dentro la cenere si trovò la Sacra Scrittura come fosse stata in un elegante scaffale! Allora i Russi gridarono al miracolo, vollero il battesimo, e così diventarono cristiani. Purtroppo ora, la maggior parte di loro  gemono nello scisma di Fozio. Iddio li faccia presto venire al seno della Cattolica Chiesa! [Qui una relazione video sull’eresia dell’ecumenismo che è il principale ostacolo alla conversione, ndR]. Quella Sacra Scrittura, che non si consuma in mezzo all’orribile fornace, dà l’immagine della Parola di Dio che non verrà mai distrutta dal fuoco delle umane passioni. Le umane passioni, che che ne pensino i leggerini, non consumeranno mai coi loro infernali ardori la Parola di Dio, né la Chiesa fondata sopra quella Parola. [N° 79, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 266-268].

A cura di Carlo Di Pietro

Sono proprio belle le miracolose visioni che ebbero in sogno quelle donne fortunate che partorirono al mondo ed al cielo Chiara d’Assisi, Domenico di Gusman, Bernardo di Chiaravalle ed Andrea Corsini. La madre di Chiara vide in sogno ch’ella stava per partorire una luce da inondarne tutta la terra. Ed invero Santa Chiara, “figlia primogenita” di San Francesco, illuminò tutto il mondo collo splendore delle sue virtù tanto portentose. La madre di San Domenico, invece, vide che stava per partorire un cagnolino, il quale teneva in bocca una face e fuggendo l’andava recando ovunque. Non fu una face divina di scienza, di civiltà e di religione quel San Domenico, il quale nel secolo decimoterzo sconfisse tanti eretici e ravvivò in tanti cristiani lo spirito della più perfetta devozione? [face = fiaccola]. Ma vediamo un po’ quel che accadde alla madre di San Bernardo. Un mattino ella si leva tutta paurosa e va a raccontare ad un santo claustrale ciò che la notte le è avvenuto. «Io ho inteso, dice, dentro le mie viscere distintamente l’abbaiare d’ un cagnolino. Non comprendo nulla di tutto questo mistero e temo che Iddio voglia mandarmi qualche grande sventura». «No, figliuola, risponde affabilmente il claustrale, non temere: l’abbaiare del cagnolino significa che dal tuo seno deve venire un gran Santo, il quale dovrà garrire e spaventare colla sua voce potente tanti nemici della fede cattolica e dovrà tenere lontani dall’ovile di Gesù Cristo i lupi che vorrebbero divorare le anime comprate a prezzo d’un sangue divino». Chi ha letto la vita di San Bernardo conosce se il claustrale abbia detto bene. E alla madre di Sant’Andrea Corsini qual visione apparve in sogno? Ecco qui la visione. Parve a quella donna che dalle sue viscere uscisse un lupo, il quale poi entrando in una chiesa dedicata a Maria veniva subito mutato in agnello. Quel Sant’Andrea difatti nella sua gioventù fu uno scapestrato. Un giorno arrivò al segno di percuotere la madre! La povera donna, allora, cominciò a dire al figlio: «La visione che ebbi, pochi giorni prima di darti a luce, fu purtroppo vera. Io vedevo di partorire un lupo, e tu ora tale ti mostri, specie con me, che sono la tua madre affettuosissima. Però bada che io e tuo padre, appena venisti battezzato, ti votammo alla Madonna. Tu sei della Madonna, intendi?». Andrea ascoltò la madre a capo chino e, quando ebbe finito di dire, le baciò le mani ed andò subito nella chiesa dei Carmelitani a piangere i suoi trascorsi dinanzi all’altare della Madonna. Non uscì più da quella chiesa: domandò con molte lacrime l’abito dei Carmelitani, e così venne mutato da lupo in agnello. Che le madri cristiane una volta conoscano la loro dignità sublime. Iddio, e lo diciamo con animo sicuro, ha bisogno di loro. Dalle braccia delle madri il Signore prende i ministri della sua Chiesa, coloro che colla penna, colla parola e coll’esempio difendono la verità dell’Evangelo. Dalle braccia delle madri Iddio prende i suoi Santi. [N° 78, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 261-263].

A cura di Carlo Di Pietro

San Francesco di Sales, visitando una volta la sua diocesi, venne avvisato che un povero contadino infermo aveva gran desiderio di vederlo e di ricevere la sua benedizione. Senza perdere tempo, il Santo volò alla casetta di quel fortunato contadino. Al primo vedere il suo Vescovo, l’ammalato cominciò a piangere dirottamente per la grandissima consolazione che di quella visita insperata provò il suo cuore. San Francesco, con quella affabilità che fu in lui un portento del tutto singolare, sedette vicino al letto dell’ammalato e lo benedisse. «Monsignore - disse allora il contadino, colmo il cuore di gioia celeste - vi chiedo una grazia, una grazia sola, e ve la chiedo per amore di quel Dio che vi ha fatto tanto buono». «Dite subito, figlio mio, dite subito - rispose San Francesco di Sales visibilmente commosso». «Ecco, Monsignore, ripigliò il contadino: io desidero di fare con voi la confessione: sono sicuro di salvarmi, se mi confesserò con voi». Poteva il di Sales fare un diniego a quell’anima tanto desiderosa di Dio? Confessò quel moribondo, il quale ricevette l’assoluzione con una contrizione perfettissima. Poi, a confessione finita, il contadino si fece ad interrogare il Vescovo con questa confidenza filiale: «Monsignore, morrò io presto? Che ne dite voi?». San Francesco, sospettando che all’infermo dispiacesse il passare da questo mondo all’altro, cominciò a confortarlo con dirgli parole di rassegnazione alla santa volontà di Dio ed a fargli capire che la morte non deve incutere niente paura ad un cristiana apparecchiatovisi con i santi Sacramenti della Chiesa. Il contadino, sentendo questi ammonimenti e chiaramente comprendendo che San Francesco si era sbagliato nel crederlo pauroso della morte, soggiunse subito: «Monsignore, io non ho paura di morire, ma di non morire». «Non comprendo, ripigliò il Santo: dite che avete paura di non morire? E forse avete delle grandi afflizioni, delle miserie estreme ? Avete forse presa in uggia troppo la vita?». «No, Monsignore, no, rispose con voce ferma l’ammalato: io temo di non morire in questo momento, perché ho paura di non potermi confessare con voi un’altra volta e di non potere avere un’altra volta l’anima piena del desiderio del Paradiso come la ho al presente». San Francesco allora benedisse Dio per aver comunicato a quell’anima di contadino tanta grazia, e senz’altro cominciò a parlare al moribondo delle cose celesti, delle bellezze del Paradiso, dell’amore di Gesù nella celeste Gerusalemme; ma in una maniera del tutto ammirabile. Il contadino era quasi trasfigurato nel volto e specialmente negli occhi alla predica sublime di quel santissimo Vescovo, e in un momento di gioia strabocchevole, abbandonandosi tra le braccia di colui che sì dolcemente gli parlava di Dio e della casa di Dio in cielo, senza dare il minimo segno di dolore o d’ agonia, spirò. Ecco il pastore secondo il cuore di Gesù Cristo! [N° 77, da Racconti Miracolosi, P. Giacinto da Belmonte, 1887, Vol. II, pagine 256-258].

A cura di Carlo Di Pietro

Un giorno San Macario, tornando alla sua cella, incontrò il demonio, il quale brandiva un’orribile falce ed era tutto ardente d’indicibile rabbia. Che cosa intendeva fare quel demonio, per permissione di Dio, contro San Macario? Voleva segare a metà il povero Santo. Macario guardò quel mostro diabolico e dimostrò di non avere nessuna paura. Il demonio si adirò ancor di più per la reazione del Santo e gli si avvicinò per vibrargli il colpo mortale. Povero demonio! In un momento le forze gli vennero meno, la falce gli cadde di mano e fece la figura d’un terribile assassino disarmato da un fanciullo in le fasce. Tutto confuso e fuori di sè, allora si rivolse a Macario e gli disse: «Io patisco da te gran violenza, o Macario, perché desidero grandemente di nuocerti e non posso. Tu fai molto, ma io faccio quel che fai tu, e più ancora: tu digiuni spesso, ed io non mangio mai; tu dormi poco, ed io non conosco il sonno; tu sei casto, ed io non so le donne neppure per ombra. Però in una cosa sola mi vai innanzi, e questa è la tua grande umiltà. Se non avessi avuto siffatta umiltà, già da tempo ti avrei trascinato alla perdizione». Così detto, il demonio, urlando e fremendo, sparì. Gran Dio! Addirittura il demonio, dunque, venne costretto a fare le lodi dell’umiltà? E si richiedono altri pretestuosi argomenti per innamorarci perdutamente d’una virtù così sublime? Chi vuole salvarsi senza umiltà, è simile a colui che senza ali vuole affidarsi ad un gran volo. (Tratto da Giacinto Belmonte cappuccino, Racconti miracolosi, 1887, con permesso dei Superiori, vol. II, pagine 10-11).

A cura di Carlo Di Pietro

Papa Pio VI era già morto in Valenza ed era salito sulla cattedra di San Pietro Pio VII, eletto in Venezia. Napoleone I aveva soggiogato la infradiciata Repubblica Francese e si era proclamato Imperatore. Come la Repubblica aveva mosso il suo odio contro Papa Pio VI, parimenti Napoleone I volle scagliarsi contro Pio VII. Nella notte del 6 luglio 1810 il forte Pontefice Pio VII, mentre dormiva, venne ammanettato nel palazzo del Quirinale, rapito dentro una carrozza chiusa a chiave, insieme al Cardinale Pacca, e trasportato verso la Toscana. La carrozza era chiusa a chiave poiché quei rapitori francesi avevano paura dei popoli cattolici, i quali, al passaggio del Papa, avrebbero potuto riunirsi in sollevazione per la difesa della Chiesa e del Sommo Pontificato. Ma ecco la Provvidenza cosa permise! Presso Firenze la carrozza, correndo a precipizio, si ribaltò e si ruppe. Il Papa ed il Cardinale si trovarono sbalzati fuori da quella sfracellata carrozza senza aver sofferto l’ombra di una scalfittura. Parve un miracolo, e tale fu veramente. Moltissimi popolani allora accorsero gridando: “Oh il Santo Padre! Oh il Santo Padre!”, e si prostrarono per terra, e vollero essere benedetti, e non finivano di baciargli le vesti, i piedi, le mani. Poi quei popolani, presi di subito da indignazione, iniziarono a gridare contro i gendarmi francesi, contro quei disgraziati che avevano fatto prigioniero il Papa: “Oh i cani! Oh i cani!”. Chi sa cosa sarebbe successo a quei gendarmi se il Papa ed il Cardinale non avessero placato l’indignazione dei popolani. Ma assistiamo ad un’ altra scena. Dalla Toscana il Santo Padre fa condotto così ad Alessandria del Piemonte. Vicino a quella città, un mattino, mentre la carrozza era ferma, il Papa domandò un bicchiere d’acqua ad un gran numero di gente del popolo lì adunata. Tutti corsero in casa, proprio tutti, a cercare acqua, vino, frutta per il Papa. Tenerissimo spettacolo! Uomini, donne, vecchi cadenti, ragazzini che appena potevano spiccicare i passi, recavano in mano un rinfresco per il Papa. Non potendo Pio VII ricevere tutti quei doni, fu costretto a toccarli tutti colle sue mani, e quei doni toccati da lui poi furono conservati da quei cristiani come tante preziose reliquie. Un giovine robusto e tarchiato, che aveva offerto della frutta, non volle ritenersi quelle frutta, e, avvicinato allo sportello della carrozza, disse tutto baldo e con figliale confidenza al Papa: “Tenga, Santità; serviranno per il viaggio”. Poi, allontanatosi un due passi, pensò che poteva compire un’altra grande impresa, corse di nuovo allo sportello e disse risoluto: “Santità, dica subito: Vuole?”. Quelle parole significavano in buono italiano: “Santità, vuole essere liberato da questi quattro cani di gendarmi? Noi siamo tutti pronti”. Il Papa non solo comandò, ma pregò che non si facesse nessun atto di resistenza, che li lasciassero partire con quei gendarmi, i quali non avevano nessuna colpa in quell’affronto che si faceva al Vicario di Gesù Cristo. I popolani d’Alessandria ubbidirono al Papa, sebbene dovessero farsi gran violenza (interiore) per calmare lo sdegno che sentivano contro quei gendarmi. Questi portenti di devozione verso il Capo Supremo della Chiesa di Gesù Cristo dimostrano evidentemente una grande verità. Eccola qui la grande verità: Se la rivoluzione lasciasse libere ai popoli cattolici le manifestazioni d’amore e d’affetto verso il Papa ed anche verso il sacerdozio, nessun cattolico griderebbe contro il Papa e contro il sacerdozio, anzi queste divine autorità sarebbero circondate della più schietta e tenera affezione sulla terra. (Tratto da Giacinto Belmonte cappuccino, Racconti miracolosi, 1887, con permesso dei Superiori, vol. II, pagine 463-466).

A cura di Carlo Di Pietro

Santa Eulalia, tanto illustre per la nobiltà del suo casato, sin dai primi anni mostrò una grandezza d’animo da riempire tutti di meraviglia. La giovane Eulalia, con misura e prudenza, disprezzava tutte quelle cose mondane che, invece, allettavano ordinariamente le giovinette della sua epoca. I suoi ornamenti erano di grave contegno, aveva una modestia angelica, viveva una condotta savia e del tutto irreprensibile. La bambina aveva quasi dodici anni, quando si scatenò contro i cristiani la fierissima persecuzione di Diocleziano. Eulalia venne pervasa da un ardore straordinario per il martirio, e senz’altro volle presentarsi da sé al cospetto del tiranno. La madre, avendo conosciuto le intenzioni della figliuola, fu molto colpita e tentò di preservarla da ogni pericolo inviandola alla casa di campagna. Ma che cosa mai accadde? Eulalia, abbandonata la campagna, a piedi scalzi si mise di notte in cammino per luoghi che ignorava totalmente, e, prima della levata del sole, fu già dinanzi al tiranno. Senza alcuna vergogna e con voce fermissima cominciò a parlare così: «Perché mai, o giudice, tu perseguiti gli innocenti e vuoi costringere i cristiani ad adorare i falsi dèi? Se cerchi cristiani, ecco intanto in me una cristiana, nemica di tutti i tuoi idoli di legno e di sasso!». Dopo questo discorso si alzò e, vedendo vicino al giudice un altare con certi idoli, corse a spezzare quegl’idoli e ne calpestò virtuosamente i rottami. Il giudice furibondo comandò il suo arresto, poi la fece arrestare e venne picchiata orribilmente. Quella bimba era ridotta ad una piaga, ma non proferì una sola parola di lamento. Non fece altro che ringraziare il suo Sposo Gesù Cristo per averla così fatta partecipe delle Sue battiture. Il giudice, sempre furibondo per il coraggio della vergine, comandò che fosse buttata in una fornace ardente. Santa Eulalia si sciolse le lunghe chiome per cercare un riparo al suo pudore, ed entrò nelle fiamme coraggiosamente. Avendo scorto che i capelli si erano bruciati, aprì la bocca, respirò il più possibile le esalazioni ed il calore intenso delle fiamme, poi finalmente morì. Non è questo un bellissimo e grandissimo miracolo di coraggio? E non dobbiamo noi sentire vergogna delle nostre vili paure, le quali non ci fanno confessare al cospetto dei moderni increduli il nome adorabile di Gesù Cristo? (Tratto da Giacinto Belmonte cappuccino, Racconti miracolosi, 1887, con permesso dei Superiori, vol. II, pagine 236-238).

A cura di Carlo Di Pietro

Il fatto seguente è davvero ammirabile. Verso l’anno di Gesù Cristo 552, nel tempo in cui il santo vescovo Menna era Patriarca di Costantinopoli, un padre ebreo gettò in una fornace - nella quale cuoceva i vetri - il suo giovane figliolo. La ragione di siffatto barbaro delitto fu la seguente. Così ce la racconta il Padre Belmonte: In quei tempi era uso di far consumare ai fanciulli innocenti le particole consacrate quando rimanevano dopo la comunione dei fedeli. Una volta, senza che i cristiani se ne accorgessero, insieme ad altri fanciulli cattolici si unì un ebreo, figlio d’un vetraio. Il povero fanciullo mangiò allegramente la porzione delle sue particole. Successivamente andò a raccontare tutto l’accaduto al padre. «Questi, per odio satanico al nome cristiano e specie alla santa comunione, si accese di rabbia, prese suo figlio e l’andò a buttare nell’orribile fornace dove si cuocevano i vetri. Poi chiuse la porta e, quasi con la disperazione nell’anima, fuggì di casa». Sparito così il fanciullo, la povera madre per più giorni l’andò cercando e, come fosse fuori di senno, lo chiamava ad alta voce per nome. (…) Avvicinatasi alla porta della fornace, quella povera madre intese che il ragazzo le rispondeva dall’interno. Si fece coraggio, ruppe la porta e corse tutta tremante verso il punto di provenienza della voce. Agli occhi di quella donna si presentò uno strano spettacolo. Il fanciullo era nel fondo della fornace e non poteva uscirne: le fiamme l’investivano tutto, ma non gli avevano leso neppure la sommità di un capello. La madre, presa tutta insieme da un fremito di gioia e da un arcano spavento, domandò al figlio spiegazione del fatto, ed intanto l’aiutò ad uscire dalla fornace. Il ragazzo rispose, tutto sorridente, così: «Una matrona vestita di porpora mi è venuta a gettare continuamente acqua addosso e anche mi ha recato cibo quando avevo fame: così ho potuto scampare dalle fiamme e dalla fame». Quella «matrona» era la Madonna, la quale non permise che l’innocente fanciullo fosse divorato dalle fiamme per la sola causa d’aver mangiato le carni del suo divino Figliuolo. Il vescovo e Patriarca Menna, saputo il portento, battezzò quella madre e quel figlio, i quali poi diventarono due santi. La Vergine Maria si è fatta sempre la protettrice degli innocenti. Amiamo questa Madre con tutte le forze dell’anima; ed onoriamola con la purezza dei nostri costumi. (Tratto da Giacinto Belmonte cappuccino, Racconti miracolosi, 1887, con permesso dei Superiori, vol. II, pagine 234-236).

A cura di Carlo Di Pietro

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