Giacché tanto funesti e detestabili sono gli effetti delle congiure contro l’ordine stabilito, avendo noi contezza di qualche occulta trama, siamo obbligati in coscienza a darne notizia al Governo? Signor sì, per molte ragioni. 1° Affinché la Religione, la quale si vede dalle odierne congiure soffrire gravissimi danni, non venga turbata da novità che abbiamo dimostrate contrarie ai suoi santi insegnamenti; 2° Affinché sia preservata la patria dalle funeste conseguenze, che l’anarchia, necessario anello di qualsivoglia mutazione di governi, suole produrre; 3° Affinché ci diportiamo da figli leali del Sovrano, che nelle Sacre Scritture è caratterizzato per padre del popolo, e che ha diritto di sapere le macchinazioni, che compromettono lui, e la sua vasta famiglia; 4° Affinché preserviamo ancora noi stessi, le persone che ci appartengono, e gl’interessi sì pubblici come privati dalle rovine, che difficilmente possono evitarsi nelle ribellioni.

Dobbiamo astenercene, se col denunciar la congiura meritassimo l’odioso nome di spie? No certamente, poiché chi opera con retto fine, e per eseguire gli obblighi, che Iddio ha imposti alla sua coscienza, non merita alcun titolo odioso; essendo solamente infame chi nuoce altrui per odio, per ambizione, o per vile interesse, ed essendo sempre degno di tutta la stima chi eseguisce i suoi doveri. In questo senso dice lo Spirito Santo: Nolite timere opprobrium hominum, et blasphemias eorum nolite pertimescere (Isai. 21,7); ed altrove: Domine, maledicent illi, et tu benedices (Ps. 108,28).

E se mettessimo a pericolo la tranquillità di qualche persona, che ci appartiene, o finanche la nostra vita, dovremmo astenerci dal rivelare alla superiore autorità la congiura? Neppure per questo titolo dobbiamo astenerci dall’adempimento di un sì sacro dovere. Imperocché la gloria della Religione e la prosperità della Chiesa sono un bene maggiore della nostra vita, il bene pubblico deve preferirsi al privato; il Sovrano deve preservarsi più che il suddito, e la patria deve salvarsi, anche a costo della vita del cittadino. Questo è il vero amor patrio, quantunque vogliano usurparsi la gloria di esserne infiammati i rivoluzionari, i quali ne sono in realtà i veri nemici, e le recano mortali ferite. E chi per sì giuste ragioni soffrisse una persecuzione, ed anche una morte violenta, deve riputarsi glorioso in questa vita e beato nell’altra, giacché Gesù Cristo ci ha detto: Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, quoniam ipsorum est regnum coelorum (Matth. 5,10). Ho inteso ottimamente.

Vi piaccia per ultimo di soddisfare ancora ad un dubbio. In caso di rivoluzione succeduta sarà convenevole cosa accettare cariche o impieghi? I motivi, per cui il ribelle vi elegge alla carica e all’impiego, per lo più sono due: o perché egli crede che siate del suo pensare, e questo è il motivo più spontaneo e più comune delle sue scelte; o perché avendovi in conto di onest’uomo e cristiano, si vuol ammantare della vostra riputazione, per trarre più facilmente in inganno la moltitudine. Nel primo caso voi ricevete una solenne e pubblica dichiarazione di nemico dell’ordin legittimo, o in altri termini una patente di liberale. Nel secondo, quanto è maggiore la conosciuta vostra onestà, tanto più vi persuade di ricusare, mercé ch’è di ragione dell’onest uomo di non concorrere, potendo, ad accreditare una fellonia ed una ingiustizia, che tante in sé ne racchiude. Qui non si parla di quelle persone, le quali non avendo onde vivere nemmeno per quel breve tempo, che dura il pubblico disordine, accettano di servire in uffici per altro leciti gl’iniqui usurpatori del potere. Nel rimanente il bel pretesto d’assicurare la società da quei danni maggiori, che gliene verrebbero, cadendo in altre mani o l’impiego o la carica, è di via ordinaria una maschera, colla quale uomini d’una onestà tutta superficiale cercano di nascondere lo spirito or d’ambizione or d’interesse, che più gli solletica vivamente di quel che gli affligga la pubblica calamità. Non bisogna ingannarsi: chi tien l’impero della rivolta, è la fazion dominante, o voglia in dire la setta. Qualunque sia l’eletto, altro non sarà mai che un mero strumento, il quale deve agire pel fine del principal operante. Se la forma propria dell’istrumento modificherà, temprerà alcun poco le impressioni dell’agente primario, ciò servirà in questo genere a render l’effetto tanto più stabile e permanente, quanto avrà meno del violento.

E se talun fosse eletto appunto perché egli è indifferente a qualsivoglia partito? In questo genere la stessa indifferenza farebbe contro la sua onestà; la quale, finché sarà vera onestà, non potrà mai essere indifferente per la giustizia e per l’ingiustizia, per la fedeltà e per la ribellione, per la verità e per la menzogna, per la causa del bene e per quella del male. L’indifferente in simili materie non vuol dir altro, che un uomo senza morale, che non riconosce altra regola della sua condotta, fuorché l’utile proprio.