Voce tratta dalla prestigiosa Enciclopedia Cattolica, Vaticano, Imprimatur 9 ottobre 1948, Vol. I, Coll. 105-112.

Teologia morale

L’aborto è l’espulsione dell’uovo o dell’embrione o del feto immaturo, cioè non viabile; in altri termini, non ancora capace, naturalmente od artificialmente, di vita extrauterina. «Uovo» è il termine adoperato ad indicare il prodotto della concezione dall’inizio alla seconda settimana com­pleta; «embrione» s’adopera per il tempo che va dalla seconda settimana alla quarta; «feto» per i mesi che in­tercorrono fra la quarta settimana e il parto regolare. L’atto dell’aborto va distinto: a) dalla semplice accelera­zione del parto. Il feto non può vivere fuori del seno ma­terno se non, generalmente, dopo il settimo mese completo di gestazione; eccezionalmente anche dopo il sesto, quan­do si hanno i mezzi per le cure speciali necessarie al neo­nato, ad esempio l’incubatrice artificiale. Si deve notare però che a formare un giudizio sulla viabilità del feto separato dalla madre, non conta tanto il numero dei mesi, quanto il suo sviluppo fisico e le sue disposizioni. L’espulsione del feto tra il settimo (o sesto) e il nono mese di gesta­zione si indica col termine di parto prematuro o accele­razione del parto; b) dal feticidio od embriotomia nelle sue varie forme (craniotomia, sviscerazione, transito di corrente elettrica) che uccide il feto nel seno materno per renderne possibile l’estrazione; c) dalle pratiche anticoncezionali, che mirano preventivamente ad impedire la fecondazione.

L’aborto può avvenire spontaneamente per cause morbose varie del padre o della madre, ad esempio la sifilide (invo­lontario o naturale) o per intervento dell’uomo (volonta­rio o artificiale). In questo caso è diretto, se il mezzo che si adopera tende di sua natura a procurarlo; indiretto, se né l’intenzione, né l’atto compiuto mirano a questo, ma ad altro scopo, ad esempio curare un’infermità della madre; di modo che l’aborto sia soltanto una conseguenza permessa e non propriamente voluta, anche se prevista. L’aborto può volersi e praticarsi per motivi egoistici in­degni e perversi (criminale) o per indicazione medica per salvare la madre (terapeutico) o per impedire la na­scita di creature tarate (eugenico) o per salvare l’onore o evitare danni economici (a indicazione sociale). È dolorosamente noto quanto sia diffusa la pratica dell’aborto nei nostri tempi, fino a diventare la soluzione più comune di tante situazioni e la prima a cui si ricorre; fino ad essere in alcuni Stati “legalizzato” (abbiamo aggiunto le virgolette, ndR). Il che si deve soprattutto all’irreligiosità crescente ed alla concezione materialistica della vita, che spinge a ricercare il piacere sempre, ad ogni costo, con qualsiasi mezzo ed a sottrarsi a qualunque dovere che pesi.

Princìpi

a) È gravemente illecito uccidere direttamente l’uovo o l’embrione o il feto nel seno materno. Questo in forza della legge naturale con­fermata dal V comandamento divino: «Non uccide­rai». La creatura innocente che si apre alla vita, ha il diritto di vivere come qualunque altra persona umana. Quest’uccisione rimane gravemente illecita an­che quando la si intende solo come mezzo per salvare la madre, perché il fine non giustifica i mezzi, né è mai lecito fare il male perché ne derivi un bene. Resta perciò proibito il feticidio o embriotomia in tutte le sue specie. Così le risposte del Sant’Uffizio del 28 maggio 1884, 19 agosto 1889, 25 luglio 1895 (Denz.-U., nn. 1889, 1890, 1890 a. Cf. anche l’enciclica Casti connubii di Pio XI, 31 dicembre 1930: Denz-U., nn. 2242, 224.3).

b) È gravemente illecito procurare l’aborto diretto del­l’embrione o del feto vivente (se il feto fosse già morto, naturalmente è lecito estrarlo). Perché ciò equivale ad un’uccisione diretta; si espelle infatti dalla madre una creatura che separata dalla madre non può vivere. L’illiceità rimane anche quando l’aborto è procurato come mezzo per salvare l’onore della giovane, o evitare l’infamia della madre o la vendetta del marito o il peso della prole, o assicurare la salute stessa della madre; ciò sempre in forza dello stesso motivo che il fine non giustifica il mezzo e non si deve fare il male per ricavarne un vero o presunto bene. Resta quindi condannato non solo l’aborto criminale, ma ogni altro aborto diretto ad indicazione terapeutica, sociale o eugenica. Così il Sant’Uffizio nella sua risposta del 25 luglio 1895 (Denz-U., n. 1890 a. Cf. anche le gravissime parole (…) dell’enciclica Casti connubii, -U., nn. 2242, 2243, 2244). Sono anche gravemente illeciti, almeno per la cattiva inten­zione, tutti i tentativi di aborto, ai quali si suole ricorrere con i più diversi mezzi e rimedi, anche se poi di fatto non si approda a nulla.

c) L’accelerazione del parto non è illecita in se stessa, purché esista una causa grave e si compia in tempo e condizioni che assicurino la vita del feto e della madre (Sant’Uffizio, 4-6 maggio 1898, 5 marzo 1902: -U., n. 1890 b-1890 c). La causa grave può consi­stere nel salvare la vita della madre o del feto, quando l’accelerazione del parto è l’unico o il migliore rimedio per conseguire il fine. La causa deve sempre essere proporzionata al pericolo.

d) L’aborto indiretto è lecito quando vi sia una causa grave. Ciò in virtù del principio della doppia causa­lità: è lecito porre un’azione buona o indifferente, dalla quale segua direttamente un doppio effetto: l’uno buono, al quale si mira; l’altro cattivo, che solo si tollera o si permette, quando però ci sia un motivo proporzionatamente grave. È quindi lecito sommini­strare alla madre gravemente inferma un rimedio, an­che se questo fosse pregiudiziale al feto, quando si verificano queste condizioni: la malattia della madre dev’essere tanto più grave quanto maggiore è il peri­colo dell’aborto; manchino altri rimedi inoffensivi; il rime­dio adoperato serva direttamente in beneficio della ma­dre e quindi la morte eventuale del feto non s’intenda, ma si eviti al possibile. Il feto, qualora avvenisse l’aborto, dev’essere battezzato (purché non appaia evidentemente essere morto, ndR).

e) Lo stesso principio si può applicare in parecchi altri casi di grave pericolo di morte per la madre; quando il pericolo non si può scongiurare altrimenti che con un intervento chirurgico. Così: 1) quando si tratta di utero gravido canceroso o di un tumore, che non si possa asportare senza nel medesimo tempo asportare anche l’utero gravido, l’isteroctomia è lecita, perché la conseguente morte del feto non è né lo scopo a cui si mira (finis operationis; si mira a togliere l’utero non in quanto gravido, ma in quanto infetto), né l’oggetto dell’azione (finis operis; l’oggetto, qui, non è che l’organo da asportare). 2) quando si tratta di idramnios acuto o di utero incar­cerato e retroflesso, che altrimenti non possa ricollo­carsi a posto, non consta essere illecita la puntura del­l’involucro per farne uscire il liquido amniotico e quindi facilitare le manovre necessarie. 3) quando si tratta di gravidanze extrauterine o feti ectopici. Si ha gravidanza extrauterina quando l’uovo fecondato si è impiantato nella cavità peritoneale, sull’ovaia o più frequentemente nella trom­ba uterina. Questa gravidanza difficilmente giunge a termine e anche in questi casi è necessario l’intervento chirurgico; di solito si interrompe ai primi mesi per il manifestarsi di un’emorragia, o la rottura della tromba e il distacco della placenta. Tutto ciò provoca la morte del feto e costituisce un pericolo molto grave per la madre. Quale condotta tenere? Se il feto ectopico è già viabile, si può ricorrere all’accelerazione del parto (Sant’Uffizio, 4-6 maggio 1898: -U., n. 1890 b). Se il feto non è viabile e si presume vivo e non urge il pericolo di emorragia, bisogna aspettare e vigilare attentamente per potere intervenire in tempo. Quando l’emorragia è avvenuta o è imminente, al­lora si può intervenire direttamente contro l’emorra­gia e asportare il tumore, anche se è un sacco fetale e ne seguirà la morte del feto. In questo caso l’even­tuale aborto non è né il finis operis, né il finis operantis. Naturalmente non è mai lecito agire diret­tamente sul feto e ucciderlo, perché allora si avrebbe un omicidio diretto.

f) Altre operazioni sono lecite quando si tratta di feto viabile, perché non sono direttamente uccisive del feto (taglio cesareo, operazione di Porro, sinfisitomia, laparatomia e simili); ma si richiedono le se­guenti condizioni: che non si possa ovviare altrimenti alla morte della madre o del figlio; che vi sia probabile speranza di salvare la madre e si provveda alla salute spirituale e temporale della prole.

Apologetica

Per coonestare (dare parvenza di onestà a ciò che in realtà è disonesto, utilizzando argomentazioni cavillose o false, ndR) in qualche modo il grave delitto dell’aborto, si fa ricorso a molti pretesti. Alcuni di essi si richiamano alla teoria del controllo delle nascite (per i quali ivi., v. nascite, controllo delle); altri toccano più da vicino il nostro argomento:

a) ( Dicono: ) L’embrione, e il feto nei primi tempi, non (sarebbe) ancora animato dall’anima razionale; in questo caso, procurando l’aborto, non si (commetterebbe) omicidio. Si risponde: Già il Sant’Uffizio (4 marzo 1679: -U., nn. 1184-85) ha dichiarato illecito l’aborto diretto col pre­testo che il feto sia inanimato. Ed a ragione; perché è sentenza oggi largamente condivisa quella che ritiene che l’anima razionale informa l’uovo fin dal primo momento della avvenuta fecondazione. Se le facoltà superiori dor­mono, gli è che l’organismo non permette loro ancora di agire, perché non ancora sufficientemente sviluppato. Ma i più moderni studi istologici sui fenomeni che avvengono nell’ovulo fecondato, rivelano che è presente un principio vivificatore che tutto coordina e orienta. In tutti i casi si deve ragionare così: Se l’uovo o l’embrione o il feto già sono animati dall’anima razionale, l’omicidio diretto c’è; tanto più deprecabile in quanto molto spesso si priva la creatura incipiente della vita eterna (va al Limbo); se eventualmente - (per ipotesi) - non fosse ancora animato, c’è un omicidio imperfetto, se si vuole, ma sempre omicidio, perché si stronca un pro­cesso vitale naturalmente preordinato a sboccare in un essere umano;

b) ( Dicono: ) Il bambino è una semplice appendice della madre; ora è lecito tagliarsi una mano per salvare una vita. No; il bambino dimostra fin dal principio un organismo in formazione, ma auto­nomo, con la sua circolazione, col suo proprio sangue, e le proprie pulsazioni; attinge dalla madre, ma elabora da sé, in forza di un principio vitale suo proprio. È dunque non un’appendice, ma un individuo sui iuris;

c) ( Dicono: ) Il feto è un ingiusto aggressore che attenta alla vita della madre. Si deve rispondere: No. Allo stesso modo e con maggior ragione si dovrebbe dire aggreditrice la madre che non è sana, ha insufficienze epatiche, disfunzioni endocrine, per cui il feto non trova nell’organismo materno le con­dizioni necessarie al suo sviluppo; del resto il feto non ha nessuna colpa se è venuto alla vita. (Cf. enciclica Casti connubii: -U., n. 2242);

d) ( Dicono: ) Si dovran­no dunque perdere due vite? No, ma si devono salvare tutte e due; la formola esatta non è «o la madre o il bam­bino», ma «e la madre e il bambino». I diritti della madre e del figlio sono i diritti di due persone umane pari grado; non si può ucciderne una per salvare l’altra. Non si può in un naufragio strappare il salvagente a uno per darlo a un altro;

e) ( Dicono: ) Ma è un orrore lasciar morire una madre e privare la famiglia del suo più forte sostegno. Si deve ri­spondere: Ci vogliono tutte le cure e le premure e as­sistenze possibili per scongiurare questo doloroso pericolo; e se queste sono ben condotte, generalmente si salvano e la madre e il figlio. Ma nel caso deprecabile che non esista rimedio alcuno, non c’è che abbassare il capo e rim­piangere la impotenza umana. In un incendio, nell’affon­damento di un sottomarino, non è sempre possibile sal­vare tutti; si è costretti talora a contemplare la morte altrui senza potere intervenire. Lasciar morire, non è uccidere; e si deve lasciar morire, ma non mai uccidere. In nessun caso;

f) ( Dicono: ) Nel caso di gravidanze extramatrimoniali ne va di mezzo l’onore di una fanciulla o di una donna spo­sata e delle loro famiglie. E non solo l’onore, ma la pace, l’armonia, ecc. L’aborto, in questi casi, salverebbe tutto. ( Risposta: ) Dobbiamo però osservare che l’onore si salva evitando il male; e non raddoppiandolo;

g) ( Dicono: ) «La donna ha il diritto di abortire come ha il diritto di tagliarsi i capelli e le un­ghie, di ingrassare o dimagrire» (Madd.na Pelletier, in L’émancipation sexuelle de la femme, presso R. Biot, p. 118). L’obiezione è troppo volgare e indegna; nessun paragone possibile fra i capelli, le unghie, ecc. e una creatura umana, massime considerata come destinata ad essere figlia di Dio e a godere la felicità eterna.

Diritto

Il primo accenno all’aborto come delitto, lo troviamo in un passo della Bibbia (Ex. 21, 22), dove esso, peraltro, viene considerato più come conseguenza di una lesione personale che come reato a sé stante. Nella Grecia antica, la imperante rilassatezza dei costumi non solo tollerava, ma finanche favoriva l’aborto, come è facile rilevare da taluni scritti di Ippocrate e di Aristotele. I Romani, con­vinti che il feto rappresentasse semplicemente una por­zione delle viscere materne, non punirono l’aborto procurato come tale (astraendo, cioè, dal danno e dall’ingiuria even­tualmente arrecati alla madre) né durante la repubblica né nei primi tempi dell’impero; e soltanto dall’epoca di Settimio Severo in poi lo assimilarono al veneficium, repri­mendolo con la multa, con l’esilio, coi lavori forzati ed anche con la pena capitale se avesse causato la morte della gestante.

La Chiesa fin dai primi secoli considerò il procurato aborto alla stessa stregua dell’omicidio (si ricordino: il Con­cilio Illiberitano, a. 306, can. 63; il Concilio Ancirano, a. 314, can. 21; il Concilio Trullano, a. 692, can. 91; il Con­cilio di Worms, a. 869, can. 35), distinguendo però tra la soppressione del feto animato e quella del feto inanimato (can. 8, C. XXXII, q. 2). Tale distinzione venne ribadita da Gregorio XIV nella costituzione Sedes Apostolica del 31 maggio 1591, ma fu poi abbandonata da Pio IX con la costituzione Apostolicae Sedis del 12 ottobre 1869.

Il vigente CIC (can. 2350, § 1 - Pio-Benedettino del 1917, ndR) contempla il procu­rato aborto fra i delitti contro la vita risolvendo così nel modo più consono alla tradizione e alla dottrina catto­lica la controversia lungamente agitatasi, e non ancora sopita, circa la obiettività giuridica del reato in pa­rola. Il bene tutelato dalla norma penale è, dunque, per il canonista, la vita del nascituro, a nulla rilevando che si tratti di vita intrauterina e che il feto non possa propriamente chiamarsi soggetto di un diritto alla vita. Qualsiasi fedele, non esclusa la madre, può rendersi responsabile di questo delitto, il cui elemento materiale è costituito dalla violenta interruzione della gravidanza. Indifferente è la natura dei mezzi (interni o esterni, chimici, meccanici, morali) usati per commetterlo.

Il momento consumativo coincide con la distru­zione del prodotto del concepimento, verificatasi in conseguenza delle manovre abortive; si tratta per­tanto di delitto materiale, che ammette il tentativo sotto il duplice aspetto del frustrato e del conato. L’ele­mento psicologico consiste nel dolo, ossia nella co­scienza e volontà da parte del delinquente di provo­care l’aborto; onde, ad integrare il delitto, non basta l’aborto cosiddetto indiretto.

Le pene comminate dal CIC sono le seguenti: «Procurantes abortum, matre non excepta, incurrunt, effectu secuto, in excommunicationem latae sententiae, Ordinario reservatam; et si sint clerici, praeterea deponantur» (can. 2350, § 1). Per incorrere nella scomunica si richiedono dunque tre condizioni: a) che si tratti di vero aborto diretto (perciò non cadono sotto la pena l’ac­celerazione del parto, l’embriotomia e altre operazioni illecite). Nulla conta la distinzione tra feto animato e inanimato; e indifferente è il mezzo che si adopera, purché sia la vera causa dell’aborto; b) che si tratti di un aborto procurato, voluto cioè e attuato a bella posta: quindi sotto il termine di «procurantes» si devono inten­dere tutti coloro, senza dei quali non si sarebbe potuto ottenere l’aborto, cioè la madre, il medico, l’infermiera che coopera, il mandante (can. 2209 § 1, 3; 2231); c) che l’aborto sia realmente avvenuto. Inoltre, alle stesse condizioni, i chierici colpevoli divengono irregolari (can. 985, n. 4) e devono essere deposti (can. 2350, § 1).

Circa le cause modificatrici della imputabilità deve notarsi che trattandosi di actus intrinsece malus, lo stato di necessità (di cui è tipico esempio il caso del medico, il quale ritenga di non poter salvare la vita della ge­stante se non procurandole l’aborto) non fa venir meno il delitto, ma costituisce una semplice attenuante valu­tabile di volta in volta a seconda delle circostanze (v. can. 2205, §§ 2 e 3). Quando si tratta di timore grave, i colpevoli dell’aborto diretto peccano gravemente, ma, secondo parecchi teologi, non incorrono nella sco­munica. È tuttavia da tener presente, agli effetti pra­tici, che anche per questo, come per ogni altro delitto ecclesiastico, vige il principio sancito dal can. 2218, § 2, in virtù del quale va esente da pena chi risulti non essere gravemente imputabile.

Gli elementi costitutivi del delitto di procurato aborto si ritrovano pressoché identici nella maggior parte delle legi­slazioni civili, sebbene diversa, per variare di tempi e di luoghi, apparisca la sua classificazione giuridica. Alcuni codici (come quello toscano del 1853 e quello germanico) lo collocano tra i delitti contro la vita; altri (ad es. il Co­dice francese) tra i delitti contro la persona; altri ancora (Codice sardo del 1859 e Codice belga) tra i delitti contro l’ordine delle famiglie; altri, infine (come il Codice cileno) tra i delitti contro il buon costume.

Il Codice penale vigente in Italia (nell’anno 1948, ndR), innovando ri­spetto a quello abrogato, pone(va) il procurato aborto nel ti­tolo X, tra i «delitti contro la integrità e la sanità della stirpe». Esso distingue, anzitutto, l’aborto di donna non consenziente (art. 545) dall’aborto di donna consen­ziente (art. 546) prevedendo in entrambe le ipotesi un notevole aggravamento di pena per il caso che dall’aborto sia derivata la morte della gestante o una lesione per­sonale (art. 549); più mitemente punisce la donna che si procura essa stessa l’aborto (art. 547); considera come reato a sé il fatto di chi istiga una donna incinta ad abortire, somministrandole mezzi idonei (art. 548); ed assimila inoltre, quoad poenam, ai delitti di lesione personale e di omicidio preterintenzionale le pratiche abor­tive commesse su donna erroneamente ritenuta in­cinta, qualora da esse derivi una lesione o la morte della donna (art. 550). Aggrava, in ogni caso, il reato la circostanza che il colpevole sia persona eser­cente una professione sanitaria (art. 555); mentre le pene, varianti da un minimo di sei mesi a un massimo di quindici anni di reclusione, vengono diminuite dalla metà ai due terzi se il fatto sia stato commesso per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto (art. 551). (la voce prosegue ...)

Voce tratta dalla prestigiosa Enciclopedia Cattolica, Vaticano, Imprimatur 9 ottobre 1948, Vol. I, Coll. 105-112.

* Anni '60. In foto alcune cosiddette femministe, nate, strumentalizzano una bambina, nata, in una delle tante manifestazioni di propaganda abortista.