Universalità della lingua di Roma, 1953

Il Latino elemento unificatore di due civiltà

È un fatto innegabile che quella missione universale, che Plinio (Hist., III, 6, 2) attribuì al linguaggio di Roma, la quale «tot populorum discordes ferasque linguas sermonis commercio contraxit», non venne a cessare con la caduta dell’impero Romano, poiché la Chiesa fece suo l’idioma del Lazio, e quasi comunicandogli la sua vitalità perenne, unificatrice e pacificatrice, di esso si servì per evangelizzare i popoli e per creare la nuova civiltà cristiana.

A ragione quindi si può dire che ben due volte questa lingua meravigliosa ha saputo unire e cementare i popoli in una civiltà superiore: la prima volta quando le legioni Romane, marciando verso i confini del mondo, costituirono quell’impero, che, secondo Cicerone, «patrocinium orbis terrae, verius quam imperium poterat nominari» (De Off. II, 8).

La seconda volta quando, abbattuto dalle orde barbariche e dalla corruzione intima della civiltà pagana il dominio secolare dell’Urbe, il pensiero, la dottrina e l’idioma di Roma, resa cristiana, furono propagati dovunque dai monaci, dai missionari e dai Vescovi, che il Pontefice Romano inviava lungo le vie consolari inermi araldi di verità ai Galli, al Germani, ai Batavi, ai Frisoni, ai Britanni, e fino ai popoli sconosciuti della Slavonia e della Tartaria; di maniera che si poté dire di Roma che «quidquid non possidet armis, relligione tenet» (Prospero d’Aquitania, Carmen de ingratis, vv. 41-42: Migne, PL 51, 97).

In quel grande naufragio di popoli, come il genio e la fede, così la lingua dell’Urbe non rimasero completamente sommersi. Tacquero sì gli Imperatores, i consules, i legionarii, ma parlarono alto sopra le rovine immani e la marea tumultuante i Papi, i Vescovi, i nuovi apostoli delle genti. La lingua del Lazio, lentamente trasformandosi, continuò ad echeggiare nel mondo e ad affratellare i popoli rinnovati sotto l’influsso benefico della Chiesa.

Gli Apologisti e i Padri occidentali, scrivendo in latino, trasfusero un alito di vita nuova in questo antico linguaggio, che col decadere dell’impero Romano necessariamente declinava e s’imbarbariva; e così si ebbero con Tertulliano, con Cipriano, con Girolamo, con Ambrogio, con Leone Magno, pagine così belle da gareggiare con gli scrittori dell’epoca aurea. Più tardi i Dottori della Chiesa ed i filosofi, specialmente gli scolastici, crearono un latino, decadente sì nella forma letteraria e nel lessico, ma più snello, più flessibile, più aderente al pensiero nuovo, ravvivato dal fermento evangelico e maturatosi nelle lunghe meditazioni dei chiostri; parimente le Studiorum Universitates, sorte dovunque, parlarono, scrissero, educarono in latino. Tutta la vita della Chiesa si svolse, si espresse e si venne via via sempre più allargando e dilatando servendosi di questo idioma come di nobile strumento per unire fra loro i popoli nella nuova Civitas gentium.

Il latino insomma non era morto, non poteva morire, perché chiamato a partecipare della stessa indefettibile vitalità della Chiesa Cattolica.

È vero però che più tardi, con l’acuirsi del sentimento di nazionalità, col formarsi e perfezionarsi degli idiomi volgari, col sorgere degli scismi e delle eresie, che divisero fra loro e da Roma molti popoli d’Europa, e finalmente col progressivo e grandioso sviluppo delle scienze sperimentali, il latino venne lentamente perdendo la sua diffusione e la sua importanza; di maniera che si può dire che ai nostri giorni questa lingua è rimasta quasi segreta nell’ambiente chiuso delle scuole, tormento degli scolari e godimento soltanto di una piccola cerchia di studiosi e di specialisti.

Questo straniarsi del latino dalla vita moderna, questo cessare di essere il tramite universale del pensiero fra i dotti, fu senza dubbio un danno gravissimo per la diffusione della cultura, a cui rimase spesso precluso o reso più difficile l’adito ai vari popoli glottologicamente divisi; sembrò anzi spezzare per sempre quel provvidenziale legame culturale e linguistico, che fondeva in un’unità superiore e intellettuale le varie genti fra loro. L’universalità del latino avrebbe potuto risolvere tanti problemi anche nella tumultuosa vita moderna, come tanti ne aveva risolti nella tumultuaria vita del passato.

Tuttavia, malgrado questa grave crisi, la Chiesa - società soprannazionale e universale - pure accettando e favorendo il formarsi e lo svilupparsi degli idiomi nazionali, non rinunziò all’antica lingua del Lazio, che fu ed è tuttora la sua lingua viva ed ufficiale, attraverso la quale il centro della cattolicità comunica con le parti, anche le più lontane, della grande famiglia umana.

Ma anche al di fuori della Chiesa si è continuato a sentire il desiderio vivo di avere una lingua unica, che nel frazionarsi molteplice degli idiomi moderni unisca i vari popoli nelle loro relazioni culturali, morali e scientifiche. Alcuni hanno cercato la soluzione del difficile problema nel far prevalere una lingua nazionale sulle altre, perché più adatta allo scopo, più diffusa, più flessibile, più facile a impararsi. Ma gli antagonismi delle varie Nazioni e la naturale preferenza di ciascuna di esse per il proprio idioma, hanno sempre ostacolato e sempre ostacoleranno il raggiungimento dell’intento. È impossibile oggi, e sarà impossibile domani, che una lingua nazionale domini sulle altre.

Allo scopo di evitare questi antagonismi, altri hanno escogitato una nuova lingua artificiale, che nel loro intendimento dovrebbe divenire la vera lingua internazionale dei popoli. Di tali lingue artificiali se ne sono costruite varie, fra cui ricordo il Volapük, composto circa il 1870 dal celebre poliglotta Schleyrer, curato di Liechtenstein; l’Esperanto, che si deve a un medico di Varsavia, il dott. Zamenhof, il quale la fece conoscere circa il 1887 sotto un altro nome; infine l’Interlingua, il Latino sine flexione, ed altri tentativi simili. Nessuna però di queste lingue artificiali, nonostante i lodevoli intendimenti e la buona volontà dei loro fondatori e seguaci, è riuscita a ottenere quel consenso generale e quei risultati pratici, che alcuni si attendevano.

Altri finalmente hanno difeso in ogni tempo la causa del latino, cercando con ogni miglior modo di restituire ad esso il suo insostituibile ufficio di lingua dotta nei rapporti internazionali fra le persone istruite e, dimostrando in teoria e in pratica che essa può ancora servire ad esprimere il pensiero moderno ed allo stesso tempo essere accolta da tutti senza alcuna suscettibilità di nazionalismo, ed essere intesa oggi, come lo fu per il passato, da tutte le persone colte. Il problema è certamente arduo, ma non è impossibile: ed io credo che la soluzione di esso non possa ottenersi se non incamminandosi volenterosamente per la strada seguita da questi ultimi.

Come può conservarsi l’universalità del Latino 

Ma è necessario intenderci bene. Può la lingua classica di Cicerone, di Livio e di Virgilio essere oggi ravvivata e largamente diffusa, di maniera che le persone colte la possano facilmente scrivere e parlare, e le persone di media o superiore istruzione la possano intendere correntemente? Certamente no. Troppo pochi sarebbero coloro che oggi potrebbero gettare il loro pensiero nella voluta armoniosa della prosa ciceroniana, o nel periodare rapido e incisivo di Cesare; pochi, troppo pochi, quelli che potrebbero agevolmente intenderla. La soluzione quindi, prospettata in questo modo, incontrerebbe delle difficoltà insormontabili e non potrebbe tradursi in pratica. Come dunque può risolversi la vexata quaestio? Ricorrendo a quel latino, che non è mai venuto meno fra i popoli di civiltà cristiana, e che è stato ed è tuttora la lingua viva e ufficiale della Chiesa.

È necessario infatti distinguere latino da latino. Vi è anzitutto il latino classico, che nacque con Roma, fiorì col fiorire della Repubblica e dell’Impero, e decadde col decadere di questo; e vi è inoltre il latino perenne dei dotti, che, anche dopo il declinare del primo, è sopravvissuto fra le persone colte, si è arricchito di nuovi vocaboli, di nuove forme; e che, pur perdendo molto della sua bellezza letteraria, si è reso strumento più ricco, più duttile, più facile ad esprimere i molteplici aspetti del pensiero cristiano, della filosofia ed anche delle scienze e della vita moderna. Il primo è una lingua meravigliosa, ma morta; il secondo, benché non rispecchi più l’antica bellezza, è tuttavia una lingua perenne e progrediente nell’uso della Chiesa e nel mondo dei dotti. Il primo ha dato la civiltà romana al mondo, il diritto delle genti; il secondo ha disseminato e cementato la civiltà cristiana, ha affratellato i popoli nella luce del Vangelo, e ha dato i primi bagliori del sapere moderno. Esso nacque con gli scrittori della Chiesa occidentale, nelle cui pagine assurse ad una bellezza nuova; si propagò coi monaci silenziosi e operosi, e coi missionari dell’età di mezzo, che seppero spingersi fino ai popoli più lontani, assertori di verità, di (vera) fratellanza universale e di virtù civili e cristiane; si venne tecnicamente perfezionando nel sottile e pieghevole eloquio degli Scolastici; si affermò gloriosamente con l’opera degli umanisti, degli epigrafisti ed anche dei nostri storici e scienziati fino al declinare del secolo XVIII, e più oltre, giacché non sono mai mancati, soprattutto fra i cultori delle scienze mediche, dei valorosi assertori del latino, fatto strumento di comunicazione scientifica, e dei continuatori delle nobili tradizioni del Muratori, del Malpighi, del Lancisi e del Morgagni, che sapevano esprimere in modo degno dell’antica lingua del Lazio i trovati del loro ingegno e delle loro esperienze. È ordinariamente un latino senza troppe pretese letterarie e classiche, piano, facile, pieghevole, aderente al pensiero, senza frange o paludamenti. Dell’antico ritiene la morfologia e la generale struttura sintattica; delle lingue moderne rispecchia la scioltezza, la ricchezza dei termini nuovi e necessari all’uso, la facilità del periodare e del procedere nel ragionamento. Talora potrà sembrare un latino imbarbarito, perché non si attiene più al purismo dei classici, e di essi non imita l’ampia voluta armoniosa del cursus e l’elegante concinnitas. Ma la sua pieghevolezza e la maggiore corrispondenza al nostro pensiero, come la sua qualità di lingua madre e la sua attitudine ad essere facilmente inteso da ogni persona colta, può ottenere quei risultati che nessuna delle lingue nazionali possono pretendere e tanto meno raggiungere. Così si è fatto nell’età di mezzo con la meravigliosa fioritura dei Dottori della Chiesa e dei filosofi scolastici; così si è fatto al sorgere dell’umanesimo, quando grandi scrittori a Rotterdam, a Parigi, a Padova, a Bologna, a Roma sapevano dare alla vecchia lingua del Lazio un nuovo afflato di vita; così si è continuato a fare anche nei primi periodi dell’età moderna, in cui non sono mancati dei coraggiosi assertori della latinità come strumento universale della cultura e del sapere.

Perché dunque non si potrà continuare anche ai nostri giorni ad attribuire al latino «perenne», che la Chiesa e i dotti hanno riplasmato e arricchito di nuovi termini, il compito di lingua universale fra le persone colte? Certo le difficoltà oggi sono divenute maggiori: è necessario riprendere una tradizione quasi interrotta da circa due secoli; è necessario arricchire i lessici, che si sono fermati da tanto tempo, di quelle nuove voci, che, o modellate sulle antiche con ingegnose e brevi perifrasi, o derivate con prudente cautela dal greco secondo il precetto Oraziano, sono indispensabili per dare un nuovo fermento di vita a questo glorioso linguaggio e per metterlo in grado di esprimere i complessi e complicati atteggiamenti del pensiero moderno e i suoi molteplici ritrovati; è necessaria la concorde volontà e cooperazione dei dotti di ogni nazione; e soprattutto è necessario restituire all’insegnamento del latino quell’importanza fondamentale, che esso deve avere nella formazione culturale dei giovani.

Ma se si vuole realmente risolvere il difficile problema di ridare al mondo diviso una lingua madre, che sia fra i dotti un valido strumento di comunicazione nelle loro scambievoli relazioni intellettuali, culturali e scientifiche, ciò non potrà farsi che tornando a quel latino «perenne», che è venuto snellendosi e arricchendosi attraverso i secoli, e che tante voci e risonanze ha in tutte le lingue moderne.

L’esempio della Chiesa 

Con questo sono ben lontano dal ritenere che si debba trascurare, specialmente nelle scuole, il latino classico; esso anzi dovrebbe riottenere quel primato, che un giorno aveva nella cultura letteraria e nella formazione delle menti giovanili. Ma per amor di questo non si può né si deve ignorare, o disprezzare quel latino perenne nato da esso, che tante benemerenze ha recato alla cultura moderna, e tante ancora ne può recare, qualora sia di nuovo chiamato a dare alla comunità umana, linguisticamente divisa, un nuovo tramite di unione e di scambi vicendevoli.

Guardiamo l’esempio della Chiesa. Essa non solo ha sempre favorito e incoraggiato lo studio del latino, e lo ha proclamato lingua universale, («quam dicere catholicam vere possumus» (cfr. Acta Ap. Sedis, 1922, p. 453), ma lo ha anche adottato come lingua ufficiale, e lo usa oggi, come lo usò nei secoli passati, per trasmettere i suoi ammaestramenti, i suoi ordini e i suoi salutari ammonimenti a tutto l’orbe cattolico. Essa infatti, ieri come oggi, ammaestra in latino; legifera in latino nella Curia Romana, nei Concili, nei Sinodi; sentenzia in latino nei suoi tribunali; prega in latino nei suoi templi. I grandi documenti del Pontefice Romano - come le Encicliche, le Bolle, i Brevi, i «Motu-proprio», ecc. - sono scritti ordinariamente nell’antica lingua di Roma. Né si dica che questi documenti rispecchiano un mondo passato e sono assenti dalla vita e dal pensiero moderno. Chi legge gli Acta Apostolicae Sedis, organo ufficiale della Santa Sede, si persuaderà facilmente del contrario. Nessuna delle grandi questioni, che agitano il mondo di oggi, è assente da quelle pagine, poiché tutte, direttamente o indirettamente, hanno legami coi grandi problemi religioso-morali, che sono alla base della vita umana. La filosofia come la teologia, la politica come la sociologia, l’etica come la pedagogia, vi sono esaminate alla luce calma e penetrante del Vangelo. Non molti anni fa, ad esempio, un’Enciclica di Pio XI, «Vigilanti cura» (cfr. Acta Ap. Sedis, 1936, p. 249 sg.), ha esaminato espressamente il problema cinematografico; e non ha trovato difficoltà ad esprimere nell’antico idioma del Lazio cose e concetti tipicamente moderni. Più recentemente si sono impartite prescrizioni e direttive perfino in una scienza ancora quasi ignota, la Radiestesia (cfr. Acta Ap. Sedis, 1942, p. 148). [E recentemente è stata pubblicata un’ampia e dotta Enciclica del regnante Pontefice Pio XII, la Miranda prorsus (8 sett. 1957), in cui si danno precetti e indicazioni precise, non solo circa il Cinematografo, ma anche circa la Radio e la Televisione (cfr. Acta Apost. Sedis, 49 [1957], pag. 765-805)]. Inoltre le Congregazioni Romane, che sono i grandi Dicasteri della Chiesa, scrivono ordinariamente in latino, e i loro ordini sono intesi ed eseguiti in tutte le parti del mondo. Il Codice della Chiesa occidentale è composto in latino; e nella medesima lingua è composto anche il Codice della Chiesa orientale.

Nelle Università ecclesiastiche di Roma, come in quelle che sorgono in altre città dell’Europa, dell’Asia e dell’America, s’insegna ordinariamente in latino; i libri scolastici, che in esse si usano, per lo più sono scritti in latino; ed anche l’Osservatore Romano pubblica spesso importanti documenti scritti nell’antica lingua di Roma.

Un esempio tipico, che dimostra in modo evidente l’universalità del latino ed il suo uso di lingua viva nella Chiesa, si ebbe nel giugno del 1939, allorché nel vasto cortile di S. Damaso in Vaticano il regnante Pontefice parlò a varie migliaia di alunni degli Istituti Ecclesiastici di Roma, che rappresentavano tutte o quasi tutte le Nazioni del mondo. Il Papa apparve in mezzo a loro, e parlò ad essi nell’antica lingua dell’Urbe: la lingua di Cicerone, ravvivata e potenziata dal pensiero cristiano, echeggiò di nuovo sotto il cielo di Roma, testimonianza viva di una tradizione che non è morta e non morirà mai nella Chiesa, e vi ripetè in certo qual modo il miracolo della Pentecoste (cfr. Acta Ap. Sedis, 1939, p. 215 sg.).

Se dunque nella Chiesa cattolica il latino è tuttora, dopo tanti secoli e tante vicende, la lingua ufficiale, che unisce nell’uso vivo e vitale del suo magistero supremo tanti popoli e tante genti disseminate su tutta la terra, perché esso non potrebbe essere di nuovo, anche nella grande comunità del pensiero e della cultura umana, strumento universale di comunicazione fra i dotti? Se la Chiesa ha superato e supera tuttora le difficoltà che si oppongono a questa soluzione, perché non potrebbe superarle anche la grande famiglia dei dotti di tutte le Nazioni? I fatti sono più forti degli argomenti, ed essi non solo dimostrano che la soluzione è possibile, ma anche quale sia la via da seguire; e cioè la via che ha seguito e segue la Chiesa. Anche nella questione del latino, come in ogni altra questione, essa è mossa da criteri superiori e universali: accetta anzi tutto e favorisce con ogni mezzo in suo potere l’antico latino classico, che è la vera lingua letteraria e che ha presso di lei le più nobili e le più belle tradizioni; ma non vuole ignorare, né tanto meno rigettare il latino cristiano dei Padri, e quel latino perenne, che i dotti sono venuti formando attraverso i secoli al contatto dei nuovi bisogni e davanti ai nuovi sviluppi del pensiero umano. Dirò anzi che questi criteri di universalità, anche nella questione del latino, sono la vera ragione per cui esso non è mai morto nell’uso ecclesiastico. Se la Chiesa infatti si fosse chiusa nella «torre d’avorio» del latino ciceroniano, escludendo dal suo uso quel latino più facile, più sciolto, più accessibile, che i Padri, gli scrittori ecclesiastici e più tardi i dotti hanno plasmato adattando l’antico idioma ai nuovi tempi, difficilmente avrebbe potuto conservare, nel suo vasto ambito, l’uso vivo di questa lingua. Credo quindi che proprio qui stia il segreto, per cui la Chiesa ha potuto mantenere l’uso vivo di questo idioma universale; essa cioè ha abbracciato ed abbraccia il latino in tutta la sua storia molteplice e gloriosa, nessuna parte ne ha rigettato o ignorato; e secondo le varie circostanze, i vari bisogni e i vari ceti di persone, ha usato e usa quel latino, che è più adatto allo scopo e alla cultura di coloro a cui si rivolge.

Né si dica che in tal modo la Chiesa ha imbarbarito e corrotto la meravigliosa lingua di Virgilio e di Orazio! La Chiesa ha impedito piuttosto, col suo apporto e la sua opera, che la parabola discendente del latino cadesse, come tutte le cose umane, completamente nel vuoto e nella morte: per questo è avvenuto - caso veramente unico nella storia - che fra tutti gli antichi idiomi soltanto il latino non è morto, ma è rimasto vivo nell’uso quotidiano della grande società soprannazionale che è la Chiesa Cattolica.

Difficoltà da superare 

Certo perché questo esempio possa attuarsi anche nel vasto cerchio delle relazioni civili, intellettuali e scientifiche del mondo colto, è necessario superare difficoltà molto maggiori. La principale difficoltà, che ad alcuni sembra insormontabile, è che oggi il latino si sa poco, si conosce meno, molto meno che per il passato. Ai nostri giorni si studiano più volentieri le lingue moderne, che sotto l’aspetto utilitario meglio si prestano ai bisogni e agli indirizzi dell’età nostra. E così si toglie, o almeno si attenua, nella formazione intellettuale, quel fondamento solido e profondo della cultura classica, che tempra gli ingegni, che ne allarga le vedute, e che rappresenta un necessario e logico congiungimento fra il passato e il presente.

È vero però che anche ai nostri giorni questa lingua si studia nelle scuole; direi anzi che si studia in troppe categorie di scuole... Ma purtroppo ordinariamente non è il latino che s’impara, ma l’erudizione latina, la cultura latina, la critica dei testi, la storia degli autori... Il povero studente esce dalle aule scolastiche col cervello imbottito di regole, di dati storici, d’insegnamenti filologici; ma se deve stendere un bel periodo nella lingua armoniosa di Cicerone e di Livio, si trova impappinato come la mosca nella tela di ragno; e non solo lui, ma forse anche molti dei suoi Professori si trovano nelle medesime condizioni.

Perché il latino possa tornare ad essere la lingua universale fra le persone colte, sarebbe quindi necessario tornare all’antico; e l’antico in questo caso sarebbe un vero progresso. Bisognerebbe cioè che il latino si ricominciasse a studiare non come una cosa morta, non come un oggetto da museo, o come un fiore secco da erbario, ma come uno strumento vivo e pratico di cultura, che può e deve ancora servire ad esprimere i molteplici aspetti del pensiero e della vita moderna. Scrivere in latino; parlare in latino, poiché «lingua loquendo discitur»; arricchire questa vecchia lingua di tutti i termini, che sono necessari all’uso di oggi; e non contentarsi soltanto di professorali commenti ai classici.

Solo in questo modo l’antico idioma di Roma, ravvivato e rivissuto nella mente dei Professori e degli alunni, potrà riprendere la sua alta missione, che ha disimpegnato per tanti secoli, di lingua madre dei popoli e di tramite comune del pensiero fra le persone colte. Soltanto in questo modo potranno avverarsi, anche al di fuori del mondo ecclesiastico, quelle parole che il 30 gennaio di quest’anno il regnante Pontefice Pio XII rivolgeva a 7.000 studenti degli Istituti medi e superiori di Roma, adunati nell’aula delle Benedizioni, parole in cui si riaffermava solennemente la perenne vitalità del latino, chiave che apre le fonti della storia e del sapere, strumento di unità fra i popoli.

Ripristinare una delle più fulgide glorie di Roma 

Ma vi è qualche cosa di più. Ridando nuova vita al latino, non solo si pone in onore l’unica lingua che può essere ancora nel mondo dei dotti tramite comune del pensiero e della cultura, ma si ripristina altresì una delle più belle glorie di Roma; della Roma degli Imperatori, come della Roma dei Papi.

È stato detto che l’antico idioma del Lazio è il più armonioso, il più concettuale, il più logico. Ed è vero. Esso ha l’armonia ampia, rotonda, sonante dell’Oratore di Arpino; quella incisiva e lapidaria di Cesare; quella misurata e calma di Livio. Ha la robustezza di concetto, che lo rese degno ed efficace strumento per il dominio del mondo. Ha finalmente quella compagine organica, che lo fa rassomigliare alla maglia ferrea di un legionario, e quel procedere serrato e logico, che dette la veste più giusta, più precisa, più nobile al Diritto Romano, fonte prima e modello del diritto delle genti.

Queste tre qualità - armonia, concettuosità e logica - il latino non le ha perdute mai, perché formano la sua stessa sostanza e la sua indole immutabile. Dirò anzi che quando esso fu investito e potenziato dal pensiero cristiano, le accrebbe come per il sopraggiungere di una nuova forza meravigliosa.

È ben vero sì, che esso era ormai giunto al naturale suo declino come lingua letteraria. Ma pure nelle pagine latine degli Apologisti cristiani vi è un’armonia nuova, impetuosa, irresistibile; vi è un impeto di concetto che piega la vecchia lingua a nuove forme, e che quasi scalpella nuove frasi, rese necessarie per esprimere dottrine nuove; vi è una logica mordente, che stringe l’avversario, lo disarma, lo convince. E nelle opere dei grandi Padri della Chiesa occidentale il pensiero di Roma, divenuta cristiana, ha un’ampiezza di volo, che si allarga su tutte le genti civili e barbare, su tutte le filosofie vecchie e nuove, e che abbraccia tutto e tutti, correggendo, purificando, santificando in una sintesi armoniosa di pensiero e di azione.

Il latino fatto cristiano assurge ad un’altezza di contenuto, che gli antichi oratori, poeti, filosofi e retori neanche potevano intendere; e arricchendosi di nuovi termini, necessari per le nuove cose da esprimere, diviene strumento nobile, preciso, solenne delle grandi verità, che Gesù Cristo aveva recato in terra, e che i Romani Pontefici, suoi rappresentanti, divulgano nel verbo di Roma a tutte le genti affratellandole nella carità.

L’idioma del Lazio non avrà più, ordinariamente, il fulgore letterario dei classici antichi, ma avrà un più profondo palpito di vita, una maggiore effusione di intima sincerità e una più schietta corrispondenza fra il pensiero e l’azione, fra l’insegnamento e la pratica dei costumi. Leggendo alcune pagine di San Cipriano si ricorderà forse la forma sentenziosa e fiorita di Seneca; leggendo altre pagine concise e martellate di San Girolamo verrà forse in mente il procedere rapido e concitato di Tacito; ma si sentirà che nell’uno e nell’altro vi è un alito di vita nuova; come si sentirà parimente, leggendo le solenni omelie di Leone Magno, che Roma ha ereditato e consacrato in Cristo la grandezza dei Cesari; e scorrendo le opere di Sant’Ambrogio, di Sant’Agostino, di San Gregorio Magno, la mente s’immergerà in una profondità intima di pensieri e di affetti, davanti ai quali impallidirà la sapienza degli antichi scrittori pagani.

Chi volesse ignorare tutto questo, non potrebbe dire di conoscere il latino nel suo complesso meraviglioso, poiché questa lingua, dopo l’innesto del Cristianesimo, ha avuto un nuovo rigoglio di vita ed ha prodotto frutti, che se pure nella forma esteriore non hanno l’aureo colorito dei primi, hanno però una sostanza vitale immensamente maggiore.

Anche sotto questo riguardo la Chiesa ci è maestra. Essa vuole, come ho detto sopra, che si studi e si ripristini il latino, non limitatamente ad un’epoca, ma in tutta la sua multiforme e gloriosa storia. Più volte i Romani Pontefici hanno impartito direttive sicure a questo proposito. Ma in modo particolare mi piace di ricordare un documento solenne, che Pio XI, nel 1922, diresse al Prefetto della S. Congregazione dei Seminari e delle Università: la Lettera Apostolica Officiorum omnium (cfr. Acta Ap. Sed., 1922, p. 419 sg.). In essa il Pontefice si rivolge agli alunni del santuario, raccomandando loro in particolare lo studio profondo, pratico e sicuro della lingua latina, lingua «che interessa non solo la religione, ma anche la cultura e la civiltà»: «Primum est de linguae latinae studio... omni cura fovendo atque provehendo, quam linguam scientia et usu habere perceptam non tam humanitatis et litterarum, quam religionis interest». Egli continua dicendo che questo idioma, mentre per disposizione della Divina Provvidenza serve mirabilmente alla Chiesa nel suo magistero, è pure «christifidelibus doctioribus ex omni gente magnum... vinculum unitatis». A ragione chiama il latino «loquendi genus pressum, locuples, numerosum, maiestatisque plenum, et dignitatis, quod mire dixeris comparatum ad serviendum Romani Pontificatus gloriae, ad quem ipsa Imperii sedes tam- quam hereditate pervenerit». Ed esorta quindi ad impararlo nella sua pienezza non solo gli aspiranti al sacerdozio - che diversamente neppure potrebbero apprendere con esattezza le discipline ecclesiastiche e le verità della fede, che trovano in questo linguaggio la loro più giusta espressione presso i Padri e i Dottori della Chiesa - ma anche tutti i cattolici colti, per i quali il latino è la lingua tuttora viva della grande società spirituale, di cui fanno parte.

Attuando - e non solamente nei Seminari - questi luminosi insegnamenti, si possono ottenere due cose, che sono nel desiderio di molti: e cioè ridare alla comunità dei dotti una lingua comune, e riporre veramente in onore una delle più fulgide glorie di Roma. (*)

Antonio Bacci 

(*) Il presente scritto di Mons. Antonio Bacci, Segretario di Sua Santità per i «Brevi ai Principi» - vale a dire per i documenti solenni in latino - è stato pubblicato in ROMA NOBILIS (L’Idea, la Missione, le Memorie, il Destino di Roma), volume di vasta e qualificata collaborazione, edito dalla Società EDAS (Edizioni Arte e Scienza), reperibile presso la Libreria Editrice Vaticana: Roma 1953, pag. 184-194.

Ripreso dal volumetto IL LATINO. Lingua viva nella Chiesa, Roma, 1957, S. C. dei Seminari e delle Università degli Studi, pagine 3-15.

A cura di CdP