L’indulgenza, dal latino indulgere, viene definita: «La remissione davanti a Dio della pena temporale dovuta per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che l’autorità ecclesiastica concede dal tesoro della Chiesa per i vivi a modo di assoluzione e per i defunti a modo di suffragio» (can. 931 CIC). Da tale definizione appare che l’indulgenza può dirsi il complemento del sacramento della penitenza: nella confessione, infatti, viene rimessa la colpa e condonata la pena eterna, che segue qualunque colpa grave, ma non sempre o almeno non del tutto viene rimessa la pena temporale, che tien dietro a qualunque peccato. Tale pena temporale può essere rimessa in questa vita con le opere satisfattorie o con le indulgenze, oppure dovrà essere rimessa nell’altra vita, in Purgatorio. La concessione d’indulgenza è un atto di giurisdizione, che richiede nel concedente la potestà e nell’acquirente lo stato di grazia: fino a che vi è colpa mortale, non può esservi remissione di pena. Tale remissione di pena, che opera non solo in foro esterno ma anche in foro interno, viene concessa per i vivi a modo di assoluzione, ossia di remissione per un atto di potestà giudiziale, che non può esercitarsi se non sui propri sudditi: per i defunti, invece, viene concessa a modo di suffragio, in quanto in base al dogma della Comunione dei Santi, la Chiesa o i singoli fedeli, usufruendo delle largizioni della Chiesa, offrono a Dio i meriti di Cristo e dei Santi, fatti propri dall’individuo attraverso l’acquisto dell’indulgenza perché Iddio li voglia accettare come mezzo di soddisfazione per il debito di giustizia, che eventualmente rimanesse al defunto o ai defunti da soddisfare ancora (S. Theol, Suppl. 25, a. 2 ad 1). Il testo prosegue qui.