Da una certa qualità di pratiche esteriori, alcuni si allontanano a causa della rea vita che conducono. Questi, come credono alle verità della fede, così non dovrebbero avere difficoltà dal canto loro a praticarla. Ma quello che ne impedisce la pratica sono le passioni, di cui vivono schiavi. Essi vorrebbero anche accostarsi alla Penitenza, all’Eucaristia, ma, come non vogliono rinunziare ai guadagni illeciti dell’avarizia, alle trame nascose della vendetta, alle sozzure della lascivia, o ad altre passioni che li travagliano, sentono che non possono senza orribile sacrilegio congiungere insieme Cristo e Belial, la mensa del Signore e quella dei demonii. Perciò, malgrado i rimorsi interni e gl’inviti che più volte sentono nel cuore di spezzare quelle catene, vanno differendo di giorno in giorno, e continuano efficacemente a starne lontani. Essi dunque sono tanto più rei, quanto più conoscono chiaramente che potrebbero, col divino aiuto, e dovrebbero abbattere gli ostacoli che si frappongono alla pratica del divin culto. Inoltre il provocare Dio a vendetta è sempre pericoloso, ma il provocarLo abitualmente, il provocarLo con una costanza diabolica per anni ed anni, come fanno essi, non è peccare una volta, non è peccare per impeto di passione, non è un caso straordinario, ma è peccare a ragion veduta, per massima, per sistema, con una lunga infedeltà al Signore: il che quanto sia iniquo è palese. So bene, soggiunge il Padre Franco, che tra questi non mancano molti che covano, in fondo al cuore, il pensiero segreto, che una volta che, o per gli anni o per le circostanze, venga a spezzarsi quel laccio che ora li tiene prigionieri, si recheranno senza indugio a compiere tutti i doveri che loro impone la cattolica fede: ma so ancora, che i più si trovano stranamente delusi. Senza negare che se si convertiranno a Dio sinceramente, essendo giusto il rendere testimonianza alla misericordia divina, che in qualunque momento il peccatore si rivolga a lei con umiltà e con vero dolore, essa sia sempre pronta a riceverlo; ciononostante i più si perdono, in quanto spesso manca poi loro il tempo per deplorare quella vita sciagurata che hanno condotto, o per morte subitanea che sopraggiunge, o per infermità che toglie loro l’uso della ragione, o perché non avvisati in tempo, o perché, anche avvisati in tempo, non sanno come rimediare ai loro casi. Pentirsi è anche rimediare. La lunga trascuratezza d’ogni pratica religiosa ha tolto loro l’abitudine; e come quelli che da lunghi anni hanno smesso un’arte e non sanno più esercitarla, così essi non sanno più né quello in cui credere, né quello in cui sperare, né quello da amare. Temono anche, se volete, l’inferno, ma non è un timore che giunga fino a far loro odiare la colpa, e così non basta alla salute: non ci si salva così! Bisogna allora cambiare il cuore così rattamente, che esso prenda ad odiare tutto in blocco, quel che fino a quell’ora ha amato, ed amare quel che aveva fino ad allora odiato, e questo è arduo e difficile: bisogna sbrogliare certe tele che sono ordite per tanto tempo, e questo è laborioso: bisogna fare le debite riparazioni degli scandali dati, della roba tolta, dei danni cagionati, e questo è doloroso: ma siccome è necessario per morire bene, vuole e deve essere fatto. Rende loro anche più difficile il ravvedimento: l’infermità che travagliando il corpo non lascia libera la mente, ed il terrore del vicino disfacimento, dei giudizi di Dio, dell’inferno spalancato sotto ai piedi che conturba lo spirito. Di che conseguenza funestissima è poi il non far quel che debbono, o il farlo male, e verificare quel detto così comune, che nessuno è così pazzo che non faccia disegno di provvedere finalmente alla salute, tuttavia pochi sono così savi che lo facciano mentre sono in tempo. Né Iddio nel condannarli fa loro alcun torto: dato che, se non sono essi i grandi scellerati ed i grandi peccatori, al mondo evidentemente non ve ne sono (sic!). Da una parte, non praticando alcuna religione, sono davvero alieni da Dio, dall’altra parte essendosi abituati alla colpa, la loro vita non è se non una catena di offese divine. La giustizia di Dio richiede dunque che ne portino la pena: difatti, se la misericordia che Dio fa a qualcuno all’ultimo istante della vita, divenisse cosa ordinaria, si verrebbe ad accreditare nel mondo quell’orrendo principio che si può vivere da demonio e morire da santo, e che Dio ci ha creati e collocati sopra la terra perché l’amiamo solo un istante, cioè in punto di morte. Prosegue negli articoli odierni del Centro Studi Vincenzo Ludovico Gotti (tag Credente non praticante) ...

da Padre Franco «Risposte alle obiezioni più popolari contro la religione», ed. IV, Capo XLV, Roma, Civiltà Cattolica, 1864, con Imprimatur, dalla pagina 429 alla pagina 438

(a cura di CdP)