La catechesi, nei secoli delle catacombe, in preparazione del battesimo santo infondeva questa idea-forza, ed i futuri battezzandi cominciavano a vivere, non più come bruti o come uomini, ma come esigeva la nuova vocazione alla quale erano chiamati: la vocazione di uomini divinizzati, di figli del Signore. Ecco perché san Leonida si chinava sul piccolo suo Origene e gli baciava il petto con riverenza; le acque battesimali avevano fatto del suo bambino un tempio della grazia, un tempio vivo dello Spirito Santo. E qui sta la ragione di tante pagine, oggi da una imperdonabile ignoranza poste in oblio, e che, pur nella freddezza dello scritto, fanno giungere a noi i fremiti dell’eloquenza patristica. Quando parlano della grazia, i Padri espongono il dogma coi colori più vivi. Sant’Ambrogio assomiglia Dio ad un artista che s’accosta all’anima, come il pittore s’avvicina alla tela, e meravigliosamente la dipinge, in modo da far brillare in essa lo splendore della gloria e l’immagine della sostanza del Padre. «È per questo pennello che l’anima ha un valore così grande... O uomo, tu sei stato dipinto; dipinto, dico, dal Signore Iddio tuo. Come è eccellente l’artista e quanto ammirabile è il pittore! Guardati bene dal distruggere in te un dipinto così divino, fatto non di menzogne, ma di verità, non di colori che periscono, ma con una grazia immortale». San Cirillo Alessandrino ricorre all’esempio del sigillo sulla cera e dell’effige del re sulla moneta. Un’impronta misteriosa, che ci informa a somiglianza di Dio, ricevono le anime, che portano poi impressa la bellezza del divino archetipo e l’immagine del nostro Re, del nostro Dio, senza la quale noi non saremmo degni d’essere ammessi fra i tesori eterni. San Basilio preferisce la similitudine dello scultore, per illustrare ciò che è la grazia, mediante la quale vien «comunicata alle creature una santa partecipazione dell’infinita bellezza di Dio». Come il marmo si vivifica e partecipa dell’idea dell’uomo che lo lavora, così l’anima si trasforma divinamente, quando Dio scolpisce in essa l’effige della sua sostanza. E, con un altro poetico paragone suggeritogli dal sole, lo stesso Padre continua: «Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo intero... Con la Sua luce Egli inonda interiormente chiunque se ne dimostra degno. E come, quando il sole piove i suoi raggi su una nube leggera, questa diviene tutta scintillante d’oro e risplendente di chiarore, così lo Spirito di Dio, entrando in un’anima, vi diffonde la vita, la immortalità, la santità». Quante volte, poi, nei voli della sua oratoria, l’eloquente Crisostomo saluta nell’anima divinizzata dalla grazia una lira, dalla quale il dito di Dio trae una dolce musica celestiale! Quante volte, dopo simili splendidi pensieri e dopo d’aver messo la celeste poesia del cuore a servizio del dogma, i Padri deducono con logica vigorosa le applicazioni pratiche! La morale sgorgava come conseguenza dal dogma, come appare in un modo indimenticabile nella forte esortazione, rivolta da san Leone ai fedeli del suo tempo: «Riconosci, o cristiano, la tua dignità! (e par di sentirlo ancora il grande Papa; sembra di contemplarlo nella sua solennità ammonitrice). Divenuto partecipe della natura divina, non ritornare con una condotta sregolata alla tua antica bassezza. Ricordati di qual corpo tu sei membro e chi è il tuo Capo. Ricordati che, strappato alla potenza delle tenebre, sei stato trasferito nel regno della luce!». Educati con questa conoscenza dei principi fonda mentali del Cristianesimo, i cristiani non potevano più vivere da pagani o secondo la legge del senso; sentivano Dio nel loro cuore; si commovevano leggendo nel Vangelo che «il regno di Dio è dentro di noi»; vivevano uniti al Signore; le persecuzioni e le lotte non bastavano ad atterrirli; fanciulli come Tarcisio, vergini come Agnese e Cecilia, sorridevano d’un sorriso nuovo: era la gioia di anime divinizzate, riconoscenti a Cristo Redentore ed esultanti nella speranza. Questo stesso sorriso io oggi cerco invano sul volto di molti credenti: essi non sanno, non conoscono il gran dono di Dio. - Il valore delle azioni divinizzate. Trattandosi solo dei primi elementi della verità e della vita cristiana, io non posso evidentemente soffermarmi sulle virtù infuse e sui doni dello Spirito Santo, che accompagnano la grazia. Sarebbe pur bello, ad esempio, dire una parola su questa nave - che è l’anima divinizzata dalla grazia, munita d’una forza motrice interna e sospinta anche dal soffio dello Spirito che ne agita le vele. A coloro che, dopo lo studio del presente sillabario, vorranno proseguire nella scuola del catechismo, suggerisco l’opera, che anch’io utilizzo, del P. Terrien: La grâce et la gloire. Ma io debbo limitarmi alle cose più elementari e perciò senz’altro spiegherò brevemente il significato di quelle parole: «la grazia... ci rende capaci di compiere opere meritorie». Suppongo di avere dinnanzi a me una persona onesta, non battezzata, un fior di galantuomo, che non solo agisce bene, ma non mi deturpa la sua azione bella con qualche poco nobile fine nascosto; ed accanto ad essa, un’altra persona, in grazia, un cristiano, cioè, senza peccato mortale, che mi fa lo stesso atto buono con un fine retto. In apparenza, le due azioni sono eguali; in realtà, il loro valore morale è immensamente diverso. Spieghiamoci con chiarezza, anche per finirla una buona volta di confondere un atto naturalmente onesto (che è tutt’altro che un male) con un atto meritorio, ossia di confondere l’uomo col cristiano. E, come sempre, ricorriamo ad un esempio. Rotschild, il famoso banchiere straricco, mi prende uno chèque dove è scritto: «pagate a vista un milione » e sotto di esso pone la sua firma. Io mi presento con lo chèque ad una banca. Tutti mi riveriscono; il cassiere mi dà un milione; esco fra gli inchini comuni. Prendo io lo stesso chèque e, invece di disturbare il signor Rotschild, scrivo io la sua firma. Anzi, siccome la mia calligrafia è migliore di quella di Rotschild, mi consolo e spero. Ahimè! Se vado alla banca con un simile chèque, la scena è diversa. Non denari; non rispetto; ma mi assalgono, chiamano i carabinieri e mi inviano in quel collegio convitto gratuito della città, che sono le prigioni. Perché mai? Non è eguale la firma? No. La stessa firma, scritta da Rotschild, ha un valore; scritta da me, ne ha un altro. Così pure, un identico atto, compiuto da chi è in grazia, ha un valore, è meritorio in rapporto alla vita eterna, è riconosciuto - stavo per dire - alla banca del Paradiso; compiuto da chi non è in grazia, - non è una truffa, come la firma di Rotschild da me falsificata, - è un atto buono nell’ordine naturale, ma non può evidentemente valere nell’ordine soprannaturale. Colui che è in grazia, non è più un semplice uomo; è un uomo divinizzato; è figlio di Dio. E chi non sa che una stessa frase, una stessa parola cambia d’importanza, secondo la persona che la pronuncia? Un atto d’un uomo ha un valore umano; l’atto del figlio di Dio ha un valore divino. Non basta, adunque, essere galantuomini, vivere onestamente, far del bene. Questo è necessario, perché l’ordine soprannaturale non distrugge, ma suppone l’ordine naturale. Ma non è sufficiente. Occorre elevare con la grazia l’attività umana; occorre in altre parole, essere cristiani. Se si meditassero questi elementi così limpidi della religione, la si finirebbe di ammannire la minestra cento volte riscaldata di certe obbiezioni (ad esempio questa: basta vivere secondo la legge morale, non è necessario praticare la religione); non si commetterebbero più tanti peccati mortali con un enorme leggerezza; e nel giudicare le azioni della nostra vita, nella soluzione del problema della vita, cominceremmo a persuaderci che, senza la grazia, noi sciupiamo i nostri giorni ed anche le nostre azioni generose, poiché ciò che deriva dalla natura sola, non ha valore per la vita eterna. San Paolo ha messo in luce questa verità, quando, nella prima lettera ai fedeli di Corinto, scrive: «Quand’io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, se non ho la carità, non sono che un bronzo che risuona o un cembalo squillante. E quand’anche avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e possedessi tutta la scienza e avessi una fede che trasporta le montagne, se non ho la carità, non sono nulla. E quando distribuissi tutto il mio per darlo ai poveri e dessi il mio corpo alle fiamme, se non ho la carità, nulla mi giova». «In altre parole, - commenta il Marmiom nel suo splendido volume ‘‘Cristo, vita dell’anima’’ - i doni più straordinari, i talenti più eccellenti, le imprese più generose, le azioni più grandi, gli sforzi più considerevoli, le sofferenze più profonde, non sono di nessun merito per la vita eterna, senza la carità, vale a dire senza questo amore sovrano dell’anima per (il vero) Dio considerato in se stesso, senza questo amore soprannaturale che nasce dalla grazia santificante come il fiore esce dal gambo».

La Grazia. I figli di Dio (parte 2). Il valore delle azioni divinizzate. Da Il Sillabario del Cristianesimo, mons. F. Olgiati, Vita e Pensiero, Milano, 1942. SS n° 12, p. 3 - 4