Alcuni anni or sono, un poeta non ancora credente, Giovanni Bertacchi, cantava Il Telefono con questi versi, che paiono un anelito ed un lamento: «Parla un uomo al telefono: qualcuno ch’io non odo né veggo a lui risponde. Prega un uomo all’altar: parla con Uno che per me tace, che per me si asconde. Oh se basta a varcar tanta distanza un tenue filo a chi pur resta immoto; se il tenue filo d’una pia speranza basta pei cuori a valicar l’ignoto, date a me pure il fil che si dilunga oltre il giorno dell’uomo e la sua sede... datemi il tenue tramite che giunga al Lontano che parla e non si vede». Anche le persone, alle quali prima accennavo, sentirono questa dolce necessità. La loro vita religiosa si svolgeva languida ed insulsa. Il loro Cristianesimo consisteva nel biascicare qualche preghiera distratta, nel recarsi talvolta ad epoche fisse e per moto d’inerzia alla chiesa, alla Messa, ai Sacramenti, nel meccanismo esteriore di qualche pia pratica o nella ripetizione pappagallesca di qualche formula. La fede non era l’anima della loro anima, non pervadeva neppure gli stessi atti di religione. Era come una foglia morta alla superficie delle acque di un lago, mossa qua e là dal vento delle circostanze e dell’ambiente. E la foglia minacciava di diventare sempre più inutile, in attesa di scomparire del tutto: il lago della propria vita non ne avrebbe risentito influsso alcuno e con la massima indifferenza avrebbe continuato ad essere solcato da barche e da battelli, vale a dire da tutta l’abituale attività quotidiana. Un giorno una tale apparente religiosità esteriore divenne insopportabile anche per loro. Un corso di istruzione cristiana, che potrebbe essere quello raccolto in questi capitoli, aprì loro gli occhi. Compresero cosa significa la grazia, cosa vuol dire essere figli adottivi di Dio; impararono a recitare il Padre nostro, che dapprima non avevano mai capito quantunque fossero arciconvinti di capirlo; e fu allora che essi provarono ad utilizzare una specie di “filo telefonico” tra la loro coscienza ed il Tabernacolo, tra il loro piccolo cuore ed il Cuore di Gesù. Quando siamo in grazia, quando il peccato mortale non deturpa la bellezza dell’anima nostra redenta dal Sangue di Cristo, noi siamo congiunti col nostro Dio ed ogni opera che non sia peccato, già a Lui virtualmente si riferisce. La grazia santificante è simile ad un filo divino, che ci collega con Lui e che solo può esser spezzato dalla colpa grave. Tuttavia, se basta questo candido filo posseduto dai bambini battezzati, che non possono peccare; se basta in noi ed in loro per essere figli di Dio, noi però, che abbiamo anche l’uso della ragione e possiamo col nostro volere rompere questo filo di vita spirituale, dobbiamo non solo conservare la grazia, ma trafficare altresì un così grande tesoro, operando cristianamente e pregando. Come non basta avere un’intelligenza ed una volontà, ma l’intelligenza dev’essere sviluppata ed alla volontà occorre una ginnastica energica, cosi pure la nostra unione con Dio, ottenuta mediante la grazia, deve conoscere non già il silenzio delle tombe, ma il fervore dell’azione e la parola del cuore riconoscente a Colui che è la stessa vita. Cominciarono, in tal modo, a... “telefonare”. Per ogni atto libero che compivano, per ogni dolore che accadeva, per ogni avvenimento che capitava, era un saluto al Cuore del loro Dio, ed al Dio del loro cuore, per dirla con santa Margherita Maria. Il comando dato da san Paolo nella lettera ai fedeli di Corinto: «Sia che voi mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto a gloria di Dio»; questo comando, ripetuto dall’Apostolo nell’altra lettera ai cristiani di Colossi: «Qualunque cosa facciate in parole od in opere, fate tutto in nome del Signore Gesù, rendendo azioni di grazie, per mezzo suo, a Dio Padre», non fu più per loro lettera morta. Uniti a Gesù Cristo per la grazia, furono uniti a Lui per una vita interiore intensa con la preghiera che zampillava dalle profondità della coscienza che rischiarava d’un sole nuovo ogni loro atto, che abbelliva e santificava l’attività stessa materiale, il lavoro, la sofferenza, i mille incidenti di una giornata. Non bisogna credere che, dopo una tale risurrezione spirituale, la loro vita fosse esteriormente mutata in modo sensibile. No, no. Eccettuate le colpe, continuarono a vivere come prima: identiche le fatiche, identici gli svaghi, identiche le persone con cui avevano a trattare, identico insomma tutto ciò che appare al di fuori. Ma interiormente quale diversità radicale! Se dobbiamo esser sinceri, dobbiamo confessare che provarono la sensazione d’essere divenuti un’altra persona, tanta fu la giocondità della nuova vita religiosa. Ma, prima di descrivere quest’ultima, descriviamo praticamente in che modo tali persone fanno funzionare il loro “telefono”. Nulla, più di questo, varrà a dare un’idea, pallida sì, ma efficace, a chi non fosse ancora... “telefonista”, del cambiamento profondo, operato da simile metodo, che, del resto, nulla ha in sé di nuovo, né di difficile. I Santi furono Santi, perché furono ottimi... “telefonisti”; anche se ai loro tempi il Meucci non aveva ancora scoperto il modo di “telefonare” ad un uomo, essi sapevano telefonare in una maniera meravigliosa a Dio. E che cosa ebbero di speciale, di essenziale, di caratteristico i veri mistici - queste coscienze elette dell’umanità, il cui culto risorge ai giorni nostri dopo un’epoca di materialismo e di grossolanità, - se non un’unione con Dio così intensa, che non solo essi parlavano al loro Signore, ma il Signore parlava talvolta direttamente a loro, o almeno indirettamente faceva sentire la sua voce al loro cuore? Guai se non si diventa, almeno inizialmente, “telefonisti”! Non si capisce nulla neppure dei primi principi del Cristianesimo!

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