Comunicato numero 91. Il Vangelo secondo San Giovanni. Parte seconda ed ultima

Stimati Associati e gentili Sostenitori, grazie a Dio oggi studieremo la seconda ed ultima parte de «Il Vangelo secondo San Giovanni». L’opera utilizzata è la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti, Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

• § 162. In Giov., 2, 28, si parla di una Bethania di la’ dal Giordano, sconosciuta altronde; al contrario, in 11, 18, si ricorda che Bethania era soltanto a 15 stadi da Gerusalemme, cioè a circa 2800 metri, mentre da Gerusalemme per arrivare al Giordano, sono una quarantina di chilometri. - Senonché c’erano due Bethanie (come c’erano due Beth-lehem, e due Beth-horon, ecc.). La Bethania del Giordano era vicina ad un passaggio del fiume che si compiva su barca, donde forse il suo nome (beth-onijjah, «casa della nave»); ma il luogo, per la stessa ragione, era chiamato anche Beth-abarah («casa del passaggio»), come Origene legge in questo tratto invece di Bethania. Sul posto si sono trovate recentemente antiche installazioni. In 5, 2 (testo greco) si dice che a Gerusalemme, presso la Porta delle pecore o Probatica, c’era una piscina chiamata Bethzatha, o Bezetha, forse dal nome del quartiere; ma si aggiunge che questa Piscina aveva cinque portici. Era dunque recinta da un porticato pentagonale? Forma assai strana: la quale non ha mancato di suggerire a studiosi moderni che deve trattarsi di una scena tutta allegorica, in cui la piscina simboleggia la fonte spirituale del giudaismo, e i cinque portici rappresentano i cinque libri della Legge. - Senonché, anche qui, gli scavi recenti hanno fatto crollare tutto questo bel castello di fantasie allegorizzanti. Si è trovato, cioè, che la piscina era regolarmente recinta da quattro portici, formando un rettangolo lungo 120 metri e largo 60; ma un quinto portico l’attraversava in mezzo, dividendola in due bacini (§ 384). In 19, 13 si narra che Pilato, mentre si svolgeva il processo, condusse fuori Gesù e si assise su tribunale in un luogo chiamato Lithostrotas, ma in ebraico Gabbatha. Dov’era questo luogo dal doppio nome, di cui non si hanno altre notizie? - Precise notizie invece sono state fornite da scavi di qualche anno fa. I due nomi non pretendono affatto di essere la traduzione etimologica l’uno dell’altro, bensì sono due equivalenti designazioni di uno stesso luogo: questo luogo, ch’era sulla fortezza Antonia, è stato testé ritrovato, e archeologicamente mostra tutti i caratteri dell’epoca di Erode il Grande, costruttore dell’Antonia (§ 578).

• § 163. Questa precisione riguardo alla topografia si ritrova anche riguardo alla cronologia, quasi per dar ragione al noto assioma che i due occhi della vera storia sono la geografia e la cronologia. Confrontando la cronologia interna offerta dai Sinottici nella biografia di Gesù, con quella offerta da Giovanni, si ha l’impressione che quest’ultimo vada in cerca d’occasioni per precisare e delimitare ciò che quelli hanno lasciato nel vago. Limitandosi ai Sinottici, sembrerebbe che la vita pubblica di Gesù potesse restringersi entro un solo anno, e anche meno; Giovanni invece, ricordando espressamente tre differenti Pasque, estende quella durata almeno a due anni e qualche mese (§177). In 2, 11, si fa espressamente notare che l’inizio dei miracoli operati da Gesù fu quello delle nozze di Cana, cioè proprio un fatto non narrato dai Sinottici; e subito appresso (2, 13 segg.) si mette, quasi come primo atto solenne e autoritario della vita pubblica di Gesù, la cacciata dei venditori dal Tempio, mentre i Sinottici trattano di questo argomento solo pochi giorni prima della morte di Gesù. E in quale anno avvenne la cacciata dei venditori dal Tempio, computando da qualche insigne avvenimento della storia palestinese? Avvenne 46 anni dopo che si era cominciata la ricostruzione del «santuario» nel Tempio: ma anche ciò sappiamo solo da Giovanni (2, 20). Infine, se si legge il racconto della passione secondo i Sinottici, si conclude che Gesù ha celebrato con i suoi discepoli il banchetto della Pasqua ebraica la sera precedente al giorno di sua morte: quel banchetto, cioè, che legalmente doveva celebrarsi la sera del giorno 14 del mese Nisan, cosicché Gesù sarebbe morto il 15 Nisan. Giovanni invece ha cura di avvertire che, il mattino stesso del giorno in cui Gesù fu ucciso, i Giudei che in folla lo accusavano davanti a Pilato non avevano ancora celebrato il banchetto pasquale; infatti essi non entrarono nel pretorio affinché non si contaminassero, bensì mangiassero la Pasqua (Giov., 18, 28), giacché contaminandosi si sarebbero resi inabili a quella celebrazione da tenersi la sera stessa: in tal caso Gesù sarebbe morto il 14 Nisan, ma il suo banchetto della sera precedente non sarebbe stato quello legale della Pasqua ebraica. Non è questo il momento d’addentrarsi in questa celebre questione, per mostrare che i Sinottici e Giovanni possono avere egualmente ragione (§ 536 segg.): ma è ben opportuno far rilevare, ancora una volta, con quanta studiata fermezza Giovanni segua una sua propria cronologia, precisando ciò che gli evangelisti anteriori avevano lasciato imprecisato.

• § 164. Questi, del resto, sono soltanto alcuni tratti da cui risulta che il narratore scrive con una conoscenza tutta personale e diretta dei fatti, ma le prove potrebbero facilmente allungarsi di molto. Giovanni sa bene ciò che hanno raccontato i Sinottici, ma deliberatamente vuol battere una strada diversa dalla loro. Senza pretendere affatto di esaurire l’argomento (cfr. Giov., 21, 25), egli vuole supplire parzialmente a quanto i Sinottici non hanno narrato: il computo materiale dimostra che su 100 parti del IV Vangelo, 92 non si ritrovano nei Sinottici. Qualche volta, tuttavia, i due racconti si corrispondono necessariamente a causa dell’argomento: ma anche in questi casi Giovanni appare spesso come il testimonio che vuole integrare e precisare. Ciò è chiarissimo nel racconto della passione. I Sinottici non hanno detto chi fosse quel discepolo che con un colpo di spada mozzò l’orecchio destro al servo del sommo sacerdote, né come si chiamasse il servo; Giovanni precisa che il discepolo fu Simone Pietro e che il servo si chiamava Malcho (18, 10). Arrestato Gesù, sembrerebbe secondo i Sinottici che fosse condotto direttamente alla casa del sommo sacerdote Caifa; Giovanni vuol dissipare questa inesatta apparenza, ed informa che lo condussero presso Anna dapprima (18, 13) dandone subito appresso la ragione. - I Sinottici fanno che Pietro segua l’arrestato ed entri immediatamente nell’atrio del sommo sacerdote; secondo Giovanni, invece, Pietro segue insieme con un altro discepolo ma si ferma dapprima fuori dell’atrio, mentre l’altro discepolo entra subito, e solo più tardi Pietro può entrare grazie all’intercessione del discepolo (18, 15-16). - Dal solo Giovanni e non dai Sinottici, si apprende che Pilato interroga Gesù nell’interno del pretorio, mentre i Giudei restano al di fuori; come pure solo Giovanni descrive la scena dell’Ecce homo, e riporta la discussione fra Pilato e i Giudei, mentre il primo anche dopo la flagellazione di Gesù tenta di liberarlo e i secondi si protestano fedeli sudditi di Cesare (18, 33 segg.; 19, 4 segg.). - Soltanto Giovanni fa sapere che a Gesù morto non fu praticato il crurifragio romano, ma che in sua vece gli fu squarciato il petto con una lanciata (19, 31-34). Subito appresso a quest’ultima notizia si aggiunge: E chi ha visto (ciò) ha testimoniato, e verace è la testimonianza di lui (19, 35); questo testimonio oculare è appunto il discepolo prediletto, la cui presenza ai piedi della croce, insieme con la madre di Gesù, è stata ricordata poco prima egualmente dal solo Giovanni (19, 25-27). In tutti questi particolari, così minuziosi e realistici, non traspare in alcun modo nessuno di quei tanti sottintesi allegorici che taluni studiosi recenti v’insinuano di proprio arbitrio.

• § 165. Che Giovanni batta una strada diversa dai Sinottici, appare da tutto il contenuto. I Sinottici insistono sul ministero di Gesù in Galilea, Giovanni invece insiste sul ministero in Giudea e Gerusalemme. Soltanto sette miracoli di Gesù sono riferiti da Giovanni, ma di essi ben cinque non si trovano nei Sinottici. Più che ai fatti di Gesù, Giovanni fa posto ai ragionamenti dottrinali di lui, e specialmente alle sue dispute con i maggiorenti Giudei. In questi discorsi, come nel restante dello scritto, affiorano frequentemente alcuni concetti caratteristici, che presso i Sinottici sono ben rari o del tutto sconosciuti: tali i simboli Luce, Tenebra, Acqua, Mondo, Carne, o gli astratti Vita, Morte, Verità, Giustizia, Peccato. Ma Giovanni, se non segue la tradizione sinottica, non la perde mai d’occhio. Giustamente ha detto il Renan che Giovanni aveva una sua propria tradizione, una tradizione parallela a quella dei sinottici, e che la sua posizione è quella d’un autore che non ignora ciò ch’è già stato scritto sull’argomento ch’egli tratta, approva molte delle cose già dette, ma crede d’avere informazioni superiori e le comunica senza preoccuparsi degli altri. Non è però tutto qui. Giovanni, pur nel suo silenzio, impiega la tradizione sinottica indirettamente, in quanto la presuppone già nota ai lettori; come, dall’altro lato, nei Sinottici non mancano allusioni che trovano la loro piena giustificazione solo nella tradizione di Giovanni. Si direbbe che le due tradizioni, cortesemente, si dicano a vicenda: Nec tecum, nec sine te. Nulla racconta Giovanni né della nascita di Gesù, né della sua vita privata; parla della madre di lui ma senza nominarla giammai, benché nomini altre Marie; riporta due volte l’espressione Gesù figlio di Giuseppe (1, 45; 6, 42), ma senza sentire la necessità di spiegare tale ambigua designazione; dice di scrivere per indurre a credere che Gesù è il Cristo, il figlio d’iddio (20, 31), e non accenna affatto alla scena della trasfigurazione sul Tabor che sarebbe stata opportunissima a quello scopo; riporta un lungo discorso taciuto dai Sinottici in cui Gesù si presenta come mistico pane celestiale (6, 25 segg.), e non ha una parola sull’effettiva istituzione dell’Eucarestia all’ultima cena. Eppure, queste manchevolezze non sono manchevoli e queste incongruenze sono congruentissime, per la semplice ragione che Giovanni non vuol ripetere ciò ch’era già notorio, e fa assegnamento sulla conoscenza che i suoi lettori già avevano della tradizione sinottica. Ma, alla sua volta, anche la tradizione sinottica presuppone quella di Giovanni. Pochissimo dicono i Sinottici, e specialmente i primi due, del ministero di Gesù a Gerusalemme; tuttavia due di essi riportano la deplorazione di Gesù: Gerusalemme, Gerusalemme, uccidente i profeti e lapidante gl’inviati ad essa! Quante volte volli coadunare insieme i tuoi figli, alla maniera che una gallina coaduna i suoi pulcini sotto le ali, e (voi) non voleste! (Matteo, 23, 37; Luca, 13, 34). Dalle sole narrazioni dei Sinottici non si riuscirebbe a giustificare l’esclamazione Quante volte volli...! perché essi trattano quasi esclusivamente il ministero di Gesù in Galilea. Giovanni invece, narrando non meno di quattro viaggi di Gesù a Gerusalemme, giustifica in pieno quell’esclamazione. Perciò i Sinottici presuppongono tacitamente la tradizione di Giovanni, e alla loro volta le ripetono: Nec tecum, nec sine te.

• § 166. Che l’autore del IV Vangelo sia un Giudeo d’origine, appare anche dal suo stile e dal suo modo d’esporre; tanto che alcuni moderni hanno supposto, esagerando, ch’egli abbia scritto originariamente in aramaico. In realtà egli spesso impiega, oltre ad espressioni semitiche, come godere di gaudio (3, 29), figlio della perdizione (17, 12), ecc., anche voci semitiche, ma che regolarmente traduce in greco per farsi capire dai suoi lettori, come Rabbì e Rabbonì (1, 38; 20, 16), Messia (1, 41), Kefa (1, 42), Siloam (9, 7), ecc. Anche il periodare è grecamente povero, elementare, alieno da ogni costruzione complessa e subordinata; ma, al contrario, vi si osserva una spiccata tendenza a quel parallelismo di concetti che è base della forma poetica ebraica. Ad esempio: Non è servo maggiore del signore di lui, nè messo maggiore di chi inviò lui... Chi accoglie alcuno, se io lo mando, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie chi inviò me (13, 16... 20) La donna, quando partorisca, ha tristezza, perché venne l’ora di lei: ma quando partorì il bambino, più non rammenta l’angustia per il gaudio che è nato un uomo nel mondo (16, 21). La forma paratattica e slegata rende spesso difficile di rintracciare l’occulta connessione dei pensieri; ma, in compenso, il suo procedere sentenzioso e solenne infonde a tutto il discorso un’arcana maestà ieratica, che colpisce il lettore fin dal principio dello scritto: In principio era il Logos, e il Logos era presso Iddio ed era Dio il Logos. Costui era in principio presso Iddio: tutte le cose per mezzo di lui furono, e senza lui non fu neppure una cosa ch’e stata. In lui era Vita, e la Vita era la Luce degli uomini: e la Luce nella Tenebra apparve, e la Tenebra non la comprese... Era la Luce vera, la quale illumina ogni uomo venendo (ella) nel mondo. Nel mondo era, e il mondo per lui fu, e il mondo non lo conobbe... E il Logos carne divenne, e s’attendò fra noi (1, 1... 14).

• § 167. Ma appunto questo solennissimo inizio è servito da inizio a un lungo elenco di difficoltà. Come poteva l’incolto pescatore di Bethsaida elevarsi a concetti così sublimi? Come poteva, egli solo fra tutti gli scrittori del Nuovo Testamento, spingersi a proclamare l’identità dell’uomo Gesù non solo con il Messia ebraico ma perfino con l’eterno Logos divino? In qual maniera passò egli, dalle astuzie della pesca, a speculare sulle finezze concettuali di quel Logos di cui tanto avevano ragionato l’antica filosofia greca e la contemporanea alessandrina? Come mai il Gesù da lui tratteggiato è così diverso da quello dei Sinottici, e così trascendente, così «divino»? Donde provengono quei discorsi di Gesù, così ampi e così ricchi di astrazioni e allegorie? Donde quei dialoghi in cui gl’interlocutori di Gesù fanno la figura di pulcini che si sentano sollevati tra le nuvole dall’artiglio dell’aquila, e sbalorditi rispondono con goffaggini, come fanno Nicodemo e la Samaritana, e spesso gli stessi discepoli? Queste e molte altre considerazioni sono fatte, per poi concluderne che tutto lo scritto non può essere opera del pescatore di Bethsaida: esso quindi riassumerà le mistiche speculazioni di qualche solitario filosofo che ha religiosamente idealizzato il Gesù storico, non senza impiegare concetti che provenivano dal platonizzante giudaismo alessandrino, o dal sincretismo ellenistico, o dalle religioni misteriche, o anche dal Mandeismo. Che questa attribuzione ad uno sconosciuto sia in contrasto con le più antiche testimonianze storiche, è cosa più che evidente; ma ciò non disturba i suoi sostenitori, i quali non attribuiscono molto peso a quelle testimonianze, salvo che esse sembrino deporre in loro favore, come nel caso del presunto martirio di Giovanni (§ 156) giacché in casi siffatti quegli abituali scettici dei documenti si precipitano su testi miserevolissimi millantandone l’importanza. Ad ogni modo si può domandare perché mai nelle condizioni del solitario filosofo sconosciuto non possa essersi ritrovato proprio Giovanni di Bethsaida. Egli era pescatore, è vero: ma da accenni dei Vangeli sembra che suo padre Zebedeo fosse un agiato possessore di barche, e quindi poteva aver fatto impartire a suo figlio una certa istruzione metodica. Checché sia di ciò, era perfettamente nelle abitudini palestinesi coltivare l’erudizione e nello stesso tempo praticare un mestiere. S. Paolo lavorava con le sue mani; e prima e dopo di lui lavorarono il celebre Hillel che guadagnava solo mezzo «denaro» al giorno, e Rabbi Aqiba ch’era spaccalegna, e Rabbi Joshua ch’era carbonaio, e Rabbi Meir ch’era scrivano, e Rabbi Johanan ch’era calzolaio, e tanti altri che formarono tra i dottori talmudici la maggioranza, mentre la minoranza era formata da uomini facoltosi che non avevano bisogno di esercitare un mestiere. Se l’ardente Giovanni, vero figlio del tuono (Marco, 3, 17), si mise ancor giovanissimo alla sequela dapprima di Giovanni il Battista e poi di Gesù, poté restare privo di quest’ultimo maestro nell’età di poco più che vent’anni. Allora egli, fedele alle usanze della sua regione, si concentrò nello studio della Legge, ma non già di quella investigata nelle contemporanee scuole rabbiniche, bensì di quella nuova Legge di perfezione e di amore ch’era stata proclamata dal suo ultimo maestro, e i cui ricordi - anche senza ch’egli scrivesse nulla - si conservavano nettissimi nel suo spirito. Nell’archivio della memoria, ch’era l’unico archivio che funzionasse anche nelle scuole rabbiniche d’allora (§§ 106, 150), Giovanni poté svolgere durante lunghissimi anni un amoroso lavorio attorno a quei tesori depositativi dallo scomparso maestro; il quale, come aveva avuto per il giovanissimo discepolo una predilezione particolare, così doveva avergli fatto confidenze e comunicazioni particolari. Da questo lavorìo di redazione mentale e di pratica sistemazione sorse la «catechesi» particolare a Giovanni, diversa ma non contraria a quella di Pietro e dei Sinottici, parzialmente suppletiva rispetto ad essa, parzialmente esplicativa, e soprattutto meglio rispondente alle nuove condizioni esterne del messaggio cristiano.

• § 168. Anche la catechesi di Giovanni, infatti, già elaborata mentalmente prima di essere scritta, deve aver vissuto vari decenni di vita soltanto orale. Mentre il discepolo meditava sui ricordi del maestro, li comunicava anche ai fedeli affidati alle sue cure, dapprima in Palestina, e poi in Siria e in Asia Minore. Ora, in questi nuovi campi d’azione Giovanni, inoltrato ormai negli anni e sempre più autorevole per la graduale scomparsa degli altri Apostoli, incontrava ostacoli di nuovo genere; non si opponevano più le vecchie conventicole di cristiani giudaizzanti che tanto avevano molestato Paolo, bensì erano le varie correnti di quella gnosi, in gran parte precristiana, che sul declinare del secolo I cominciavano ad infiltrarsi nell’alveolo del cristianesimo. Contro tali correnti bisognava far argine; e Giovanni, dai forzieri dei suoi ricordi, estraeva sempre nuovi e più adatti materiali per rendere particolarmente efficace la sua propria catechesi contro la nuova minaccia. Un certo giorno - come possiamo già astrattamente supporre, e come effettivamente attestano il Frammento Muratoriano e Clemente Alessandrino (§§ 159, 160) - i discepoli del vegliardo lo forzano amorevolmente per ottenere in iscritto la parte essenziale di quella sua catechesi. Giovanni la detta; ma in fondo a tutto lo scritto sarà apposta, a guisa di sigillo, una dichiarazione collettiva d’autenticità rilasciata unitamente da chi aveva concesso e da chi aveva richiesto lo scritto: Costui è il discepolo che testimonia circa queste cose e scrisse queste cose: e (noi) sappiamo che vera è la testimonianza di lui (21, 24).

• § 169. Questa preistoria spiega l’indole speciale dello scritto di Giovanni, già chiamato il Vangelo spirituale per eccellenza. In tutte le maniere esso fa risaltare la trascendenza e la divinità del Cristo Gesù, perché questo era il principale suo scopo (20, 31) contro la gnosi di provenienza pagana: di qui il suo particolare carattere. Ma la medesima tesi, sviluppata più parcamente o anche solo appena abbozzata, si ritrova già nei Sinottici, e specialmente in Marco brevissimo fra tutti, com’è riconosciuto da parecchio tempo da critici radicalissimi (i quali perciò scompongono Marco in vari strati, ripudiandone le parti «soprannaturali» e «dogmatiche»). Giovanni avrà enormemente accresciuto, ma non ha innovato; fra le moltissime cose che si sarebbero potute dire di Gesù (cfr. 21, 25), egli studiosamente trascelse taluni particolari fino al suo tempo non detti ma proprio allora opportunissimi a dirsi, senza però inventarli, e li unì con altre notizie già comuni e diffuse. Ne risultò un Gesù più illuminato di luce divina, ma fu in conseguenza della scelta di Giovanni: come il Gesù dei Sinottici è figura più umana, ma egualmente in conseguenza della scelta dei Sinottici. Ciascun biografo ha delineato il biografato dal punto di vista da cui lo ha contemplato: e lo ha delineato tutto, sebbene non totalmente, perché nessuno di essi ha preteso riprodurre tutti i singoli tratti della sua figura. Se i discorsi e i dialoghi di Gesù nel IV Vangelo sono straordinariamente elevati, non per questo sono meno storici di quelli dei Sinottici. Sarebbe antistorico supporre che Gesù parlasse in un medesimo tono sempre e in ogni occasione, sia quando si rivolgeva ai montanari della Galilea con cui lo fanno parlare di solito i Sinottici, sia quando discuteva con i sottili casuisti di Gerusalemme, con cui per lo più lo fa parlare Giovanni. Prescindendo poi dall’elevatezza dei concetti, il metodo seguito nelle discussioni con gli Scribi e i Farisei mostra numerose analogie con i metodi seguiti nelle dispute rabbiniche di quei tempi: dotti Israeliti moderni, particolarmente versati nella conoscenza del Talmud, hanno sagacemente rilevato siffatte analogie, considerandole come una collettiva conferma del carattere storico dei discorsi del IV Vangelo [Anche su questo argomento la più abbondante documentazione è raccolta in Strack e Billerberck, Kommentar zum N. Test. aus Talmud und Midrasch, vol. II, 1934, in tutta la parte riservata al Vangelo di Giovanni]. Anche rivolgendosi ai suoi discepoli, Gesù deve aver parlato in toni differenti: più semplicemente ai primi tempi in cui lo seguivano, più complessamente in seguito, per sollevarsi fino ad altezze non mai ancora raggiunte pronunziando il discorso di commiato all’ultima cena. Inoltre, fra i discepoli stessi egli dovette avere i suoi intimi e prediletti, a cui doveva riservare confidenze che non comunicava agli altri (cfr. 13, 21-28): intimo fra questi intimi era, come già sappiamo, Giovanni, il quale perciò, anche dal semplice punto di vista storico, fu un testimonio superiore ad ogni altro.

• § 170. E questo singolare testimonio comincia il suo scritto affermando che Gesù è il divino Logos fattosi uomo. Ma anche in questa affermazione egli mostra il suo senso storico, sebbene applicato ad una visione teologica dei fatti: quel Logos che è dall’eternità presso Dio, è diventato uomo pochi anni fa, e contemplammo la gloria di lui, gloria come di unigenito da Padre (1, 14). Giammai però il verace testimonio, scrupoloso nella sua storicità, afferma che Gesù si sia chiamato da se stesso Logos: egli solo, Giovanni, lo chiama con questo nome, sia nel prologo al Vangelo, sia in quella sua lettera che si può ben considerare come uno scritto d’accompagnamento al Vangelo (I Giovanni, 1, 1), sia nell’Apocalisse (19, 13). In tutto il Nuovo Testamento il termine personale Logos occorre in questi tre soli luoghi. Se ne può concludere che il termine non era usato né dalla catechesi che metteva capo a Pietro, né da quella che metteva capo a Paolo: al contrario, nella catechesi orale di Giovanni il termine doveva essere abituale, giacché egli l’impiega fin dalle prime righe senza spiegazione alcuna, certamente supponendolo già noto ai suoi lettori. Il termine, come nuda voce, era già noto alla filosofia greca dai tempi di Eraclito in poi: ma al medesimo termine corrisposero lungo i secoli concetti differenti, o presso i Sofisti o presso i Socratici (logica) o presso gli Stoici. Gran parte fece al Logos nelle sue speculazioni anche il giudeo alessandrino Filone, ma il suo concetto del Logos è differente da quello dei Greci, e si avvicina piuttosto a quello della «Sapienza» dell’Antico Testamento: a quest’ultimo si avvicina anche il concetto dei termini Memra e Dibbura (abbiamo semplificato i caratteri, ndR), col senso di parola (di Dio), che si trovano frequentissimi nei Targumin giudaici ma non nel Talmud. In Samaria, poi, Giovanni fu in relazione col più antico gnostico cristiano a noi noto, Simone Mago (Atti, 8, 9 segg.), il quale nel suo sistema - qualora se ne accetti l’esposizione fatta da Ippolito (Refut., VI, 7 segg.) - aveva incluso, invece del Logos, il Logismòs, che faceva parte della terza coppia di eoni: ed emanata dal Supremo Principio.

• § 171. Fino a pochi anni addietro si affermava fiduciosamente che Giovanni avesse desunto il concetto del suo Logos dall’una o l’altra delle teorie suaccennate, ma più comunemente da Filone. In realtà il Logos di Giovanni, ipostasi essenzialmente divina ed increata, è tutt’altro dal Logos di Filone, che appare come un essere fluttuante fra la personalità e l’attributo divino, e fungente quasi da tratto intermedio fra Dio immateriale e il mondo corporeo. Ad ogni modo sarebbe oramai inutile insistere su ciò, poiché la differenza fra i due concetti di Logos è stata riconosciuta recentemente dagli studiosi più radicali: (addirittura) lo stesso Loisy (delirante modernista scomunicato, ndR), che nella sua prima edizione del commento al IV Vangelo (1903, pagg. 121-122) aveva sostenuto non potersi negare l’influenza parziale delle idee filoniane su Giovanni, nella seconda edizione (1921, pag. 88) ha giudicato improbabile una dipendenza letteraria da Filone ritenendo che il Logos di Giovanni faccia piuttosto seguito alle personificazioni della Sapienza nell’Antico Testamento. È ciò che, già da secoli, avevano detto i vecchi Scolastici. Anche della dipendenza del Logos di Giovanni dal Mandeismo, non mette conto di parlare: questa teoria è stata un fuoco di paglia che qualche anno fa divampò per breve tempo, ma di cui oggi restano soltanto fredde ceneri (§ 214). È dunque da concludersi che il concetto del Logos di Giovanni è proprio esclusivamente a lui, e non trova vere corrispondenze in concetti anteriori. Quanto alla voce con cui Giovanni espresse questo suo concetto, sembra che egli la impiegasse perché, trovandola adatta al concetto e divulgata già nel mondo greco-romano, volle avvicinarsi almeno per la strada della terminologia a quel mondo, e così guadagnarlo al Logos Gesù. Egli quindi diventò greco con i Greci, come egualmente Paolo diventava tutto con tutti, con Giudei e con non Giudei, per guadagnare tutti alla buona novella (I Cor., 9, 19-23). Si narra che Cristoforo Colombo, allorché nelle sue navigazioni era colto da qualche tempesta, usasse collocarsi sulla prora della nave, e là ritto recitasse al cospetto del procelloso mare l’inizio del Vangelo di Giovanni: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum... omnia per ipsum facta sunt... Sugli elementi perturbatori del creato risonava il preconio del Logos creatore: era l’esploratore del mondo che commentava a suo modo l’esploratore di Dio incominciando l’alto preconio, che grida l’arcano di qui laggiù, sovra ogni altro bando (Paradiso, XXVI, 43-45). Fine.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.