Comunicato numero 122. Altri Miracoli e primi ostacoliStimati Associati e gentili Sostenitori, riteniamo di fare cosa buona iniziando l’editoriale della settimana con il seguente pronunciamento di Papa Leone XIII: «Conta moltissimo che si vada largamente diffondendo la buona stampa. Coloro che avversano con mortale odio la Chiesa, hanno preso l’abitudine di combattere con pubblici scritti, che adoperano come armi adattissime a danneggiare. Quindi una pestifera colluvie di libri, quindi giornali sediziosi e funesti, i cui furiosi assalti né le leggi raffrenano, né il pudore trattiene. Sostengono come ben fatto tutto ciò che in questi ultimi anni è stato compiuto per mezzo di sedizioni e di tumulti; coprono o falsano la verità; scagliano quotidianamente brutali contumelie e calunnie contro la Chiesa e il Sommo Pontefice, e non vi è alcuna sorta di dottrine assurde e pestilenziali che non si risparmino di diffondere ovunque. È necessario dunque fare argine alla violenza di questo grande male che va ogni giorno più largamente serpeggiando; e per prima cosa conviene con tutta severità e rigore indurre il popolo a guardarsene il più possibile, e ad usare scrupolosamente il più prudente discernimento sulle cose da leggere. Inoltre occorre contrapporre scritto a scritto, affinché lo stesso mezzo che tanto può nel rovinare, sia rivolto alla salute e al beneficio dei mortali, e i rimedi vengano appunto da dove vengono preparati i micidiali veleni» (dalla Etsi nos).

• Prosegue il Pontefice: «Per questo è necessario che coloro che si dedicano alla professione dello scrivere, tengano presenti diverse considerazioni: che tutti, nello scrivere, mirino ad un medesimo scopo [la salvezza delle anime: alla maggior gloria di Dio e della Santa  Romana Chiesa, ndR]; vedano di stabilire con giudizio sicuro ciò che torna più vantaggioso [per tale scopo] e si sforzino di realizzarlo; non lascino da parte alcuna di quelle cose che sembrino utili e desiderabili a sapersi; gravi e temperati nel dire, confutino gli errori e i difetti, ma in modo che la critica sia senza acerbità, e si porti rispetto alle persone; infine, si esprimano con piano e chiaro discorso, in modo che la moltitudine possa comprenderlo agevolmente».

• Papa Leone XIII  scrive la Etsi Nos - il 15 febbraio 1882 - contro «la dannosissima setta [della massoneria, ndR], i cui autori e corifei non celano né dissimulano affatto le loro mire, già da gran tempo ha preso posto in Italia e, intimata la guerra a Gesù Cristo, si propone di spogliare in tutto i popoli di ogni cristiana istituzione». Purtroppo da quel lontano 1882 la situazione globale, non solo italiana, è davvero peggiorata. Dapprima l’alacre e indomito lavoro dei suoi successori - da San Pio X a Pio XII - fu di grande giovamento per la difesa della fede e della santità pubblica dalla mortifera peste dottrinale e morale del Modernismo; e per ristabilire quei diritti che erano stati usurpati alla Santa Sede. Successivamente, dopo la morte di Papa Pio XII, dobbiamo riconoscere con grande dolore che la cospirazione della «dannosissima setta» ha proliferato anche all’interno della Chiesa di Roma. Così la «setta diabolica» è stata in grado di espandere la propria «guerra a Gesù Cristo» non più solo in Nazioni ben circoscritte ma, usando la struttura della Chiesa, di «eruttare veleno sul mondo intero». Serviva tuttavia una parvenza di universalità per sdoganare globalmente il funesto progetto, pertanto essi credettero necessario convocare addirittura un “Concilio”. Dal “Vaticano Secondo” in avanti, poi, si sono quasi perse le tracce del cattolicesimo. Tutto sembra poggiare, oramai, sulle personalità degli individui: che più o meno si distinguono nelle cosiddette “parrocchie” o nelle - altrettanto cosiddette - “realtà ecclesiali”. Siamo in presenza di un vero teatro, anzi di un lugubre circo. La società si manifesta, quindi, mossa dal pensiero eretico, dagli istinti più passionali (che in alcuni casi vengono definiti addirittura “carismi” - sic!) e dallo spirito di scisma; basta percorrere pochi chilometri per imbattersi in tante fedi differenti; ma, addirittura all’interno delle medesime chiese (edifici), possiamo incontrare sedicenti cattolici - talvolta infervorati o grandi maratoneti di pellegrinaggi (a cosa servono queste azioni se non si possiede la vera fede? - Ubi est ergo gloriatio? Exclusa est. Per quam legem? Operum? Non, sed per legem fidei) - tutti con idee differenti e con dottrine tanto fantasiose quanto eretiche, cosicché sembra essersi avverata la sentenza di Papa San Pio X: «Il Modernismo distrugge ogni religione». Possiamo dire, senza timore di sbagliare, che la società d’oggi - anche quella che pretende rivendicare la sua cattolicità - appare piuttosto il trionfo del demonio protestante e finalmente dell’ateismo pratico. È nostra intenzione, perciò, insistere nella pubblicazione della sola buona stampa di cui parla Papa Leone XIII, ed anzi vogliamo - se Dio ce ne darà tempo, salute e mezzi - incrementare questo lavoro con indefessa volontà. Parimenti dobbiamo biasimare quei tanti autori contemporanei, anche i proclamatisi «cattolicissimi», che scrivono sciocchezze per vanità e non «a vantaggio del vero scopo».

• Facciano attenzione, poiché su di loro pende già la sentenza di Nostro Signore: «Omne verbum otiosum, quod locuti fuerint homines, reddent rationem de eo in die iudicii». Chi vi scrive [Carlo Di Pietro] in passato ha molto sbagliato in tal senso; ed oggi, ringraziando Iddio di avermi temporaneamente risparmiato dalla spada del Suo giudizio, sto provando a rimediare. Mi auguro e prego affinché altri rigettino i loro tanti flati, scaccino vanità e vanagloria come nemico infernale, corrano al confessionale e si lascino guidare da quei pochi veri Preti rimasti sulla faccia della Terra: affinché, deposta ogni impurità ed ogni resto di malizia, accolgano con docilità la parola che è stata seminata da Dio e che sola può salvare tutte le anime (cf. Gc., I, 21). Posta la mia lunga premessa, oggi l’Abate Ricciotti dedica un capitolo agli «altri miracoli iniziali di Gesù» ed ai «primi ostacoli».

• § 304. Il ministero di Gesù proseguì nella Galilea, e di esso i Sinottici ci presentano taluni episodi senza un ben sicuro ordine cronologico: ma, insieme col diffondersi della fama del nuovo profeta, sorgono anche ostacoli: in primo luogo dai Farisei com’era da aspettarsi, poi anche da altri. Una volta, forse poco dopo l’elezione dei quattro, si avvicinò a Gesù un lebbroso che cadendogli ai piedi non gli chiese esplicitamente nulla, ma disse soltanto: «Signore! Qualora (tu) voglia, puoi mondarmi!» (Luca, 5, 12). I lebbrosi nell’antico Israele erano oggetto di sommo orrore; esclusi per la Legge mosaica dal consorzio umano, avevano l’obbligò di mantenersi appartati in luoghi solitari, e di gridare «Scostatevi! c’è un impuro!» (Lament., 4, 15) quando un viandante si avvicinava inconsapevole al luogo di loro dimora. In premio di questo lugubre grido s’inviava nella loro solitudine qualche cibo; ma fuor di questo, la società non voleva saperne di loro, come di spurghi dell’umanità, di personificazioni dell’impurità stessa, di vittime della massima collera del Dio Jahvè. Non di rado, tuttavia, i lebbrosi violavano la segregazione loro imposta; e così fece quella volta il lebbroso che si presentò a Gesù. Certamente aveva inteso parlare di lui e dei prodigi che operava con miseri di ogni sorta: chissà se, buono e potente com’era, il profeta galileo non avesse fatto qualcosa anche per la sua estrema sciagura! Il suo caso però era tanto spaventoso, che l’implorante neppure ardì esprimere ciò che implorava, ma solo espresse fiducia nell’implorato. Gesù ebbe pietà di lui e dell’illegale audacia che l’aveva spinto fra uomini mondi; perciò, stese la mano, con un gesto orribile per quanti avranno assistito toccò lui, quel lebbroso tutto marciume e fetore, e rispondendo alle sue precise parole ma più ancora al segreto pensiero disse: «Voglio! Sii mondato» (Marco, 1, 41). Il lebbroso fu mondato all’istante. Subito però Gesù lo fece allontanare per il solito motivo di evitare l’entusiasmo della gente, e severamente gli comandò di non divulgare ciò ch’era avvenuto; ma insieme gli ricordò di adempiere quanto la Legge mosaica prescriveva nei rarissimi casi di guarigione d’un lebbroso, cioè di presentarsi al sacerdote per far riscontrare la guarigione e di offrire il sacrificio di purificazione. Fu da parte di Gesù un atto d’ossequio alla Legge ufficiale, e nello stesso tempo un qualche compenso alla violazione fattane dal lebbroso col presentarsi in mezzo alla società. È probabile che il guarito eseguisse più tardi le prescrizioni legali, ma frattanto cominciò col violare il comando di Gesù divulgando quant’era avvenuto; tuttavia, anche s’egli avesse taciuto, avrebbe parlato in altra maniera la sua faccia, che da quella d’un mostro era diventata quella d’un uomo normale. Le conseguenze della divulgazione non si fecero attendere. Accorsero al taumaturgo altre folle per udirlo ed altri infelici per esser guariti, cosicché egli non poteva più entrare palesemente in città ma stava fuori in luoghi solitari (Marco, 1, 45). E là, nella solitudine, stava a pregare (Luca, 5, 16).

• § 305. Più tardi, quando la commozione della gente si fu abbastanza calmata, Gesù rientrò a Cafarnao. Ormai la sua popolarità aveva messo sull’avviso Farisei e Scribi, i quali non potendo ancora dare un giudizio sicuro sul nuovo profeta cominciavano a sorvegliarlo, come già avevano fatto con Giovanni il Battista (§ § 269, 277); troviamo perciò, durante questa permanenza a Cafarnao, che essendo Gesù in una casa ad insegnare vi stavano anche seduti Farisei e Dottori della Legge, i quali erano venuti da ogni borgata della Galilea e Giudea e Gerusalemme (Luca, 5, 17). È importante rilevare come fin da Gerusalemme si fossero mossi per sorvegliarlo; tuttavia apparentemente il contegno di quei dottori non doveva essere aggressivo, e sembrava piuttosto che stessero lì unicamente per apprendere, come tanti altri che avevano riempito la casa e facevano anche ressa all’uscio. Mentre Gesù sta parlando, alcuni uomini cercano di aprirsi un passaggio tra la folla accalcata all’ingresso: Essi portano un paralitico steso su un giaciglio, e sperano d’arrivare fino al maestro per presentarglielo. Ma il passaggio è impossibile; la folla è troppo fitta e non si sposta. Eppure, se non si vuol perdere la buona occasione, bisogna far presto: il maestro può terminare improvvisamente il suo discorso, e poi ritirarsi subito appresso in qualche luogo solitario e sconosciuto per pregare, com’è solito fare. Ecco quindi che, mentre il maestro parla ancora nello stanzone principale dell’interno, il paralitico con tutto il giaciglio cala giù davanti a lui dal soffitto dello stanzone. Che era avvenuto? I portatori erano stati sbrigativi; poiché in Palestina le case di povera gente consistevano di solito nel solo pianterreno, coperto da una terrazza di terra battuta, essi erano saliti per la scaletta esterna sulla terrazza, avevano rimosso la terra battuta, spostando qualche tavola e qualche travicello, e dalla buca ottenuta avevano per mezzo di funi calato giù giaciglio e paralitico. Naturalmente, al comparire di quell’uditore di nuovo genere, la predica cessò. Gesù, per prima cosa, ammirò la fede di quei portatori e di quel portato; quindi, rivolto al paralitico, gli disse soltanto: «(Figlio,) sono rimessi i tuoi peccati!». In ebraico la parola «peccato» può indicare sia una colpa commessa sia le conseguenze della colpa stessa: presso gli Ebrei una fra le principali di tali conseguenze era stimata l’infermità corporale, specialmente se grave e cronica. In qual senso impiegò Gesù la parola? Probabilmente in ambedue i sensi, quello invisibile della colpa morale e quello visibile della conseguenza materiale. Senonché, appena udite quelle parole, i sorveglianti s’inalberarono; gli Scribi e i Farisei cominciarono a ragionare dicendo: «Chi è costui che parla (con) bestemmie? Chi può rimettere peccati, se non solo Iddio?» (Luca, 5, 21). Evidentemente l’obiezione si atteneva al solo senso invisibile della parola peccato, cioè a quello di colpa, la cui remissione non poteva essere riscontrata fisicamente da nessuno. Ma c’era anche il senso visibile, quello della malattia corporale; qui il riscontro fisico era ben possibile, ed ognuno avrebbe potuto vedere se Gesù aveva parlato a vanvera. E Gesù appunto rispose adducendo la remissione visibile come prova della remissione invisibile. Conosciuti però Gesù i ragionamenti loro, rispondendo disse loro: «Di che cosa ragionate nei vostri cuori? Che è più facile dire: “Ti sono rimessi i tuoi peccati” oppure dire: “Sorgi e cammina”?». Gli sfidanti dovettero capire subito che si metteva male per loro, giacché la loro sfida era stata accettata; e lì non si trattava di qualche elegante questione di casuistica rabbinica, ad esempio di sapere se fosse lecito di sabbato sciogliere il nodo d’una fune o trasportare un fico secco (§ 70), bensì si trattava di far saltare in piedi un paralitico, e da quell’operatore di miracoli c’era da aspettarsi tutto. Perciò alla domanda di Gesù dovette seguire un silenzio piuttosto lungo e molto imbarazzato, come di chi abbia paura di far peggio se parli. Non ottenendo risposta, Gesù prosegui: «Ebbene, affinché sappiate che il figlio dell’uomo ha autorità sulla terra di rimettere i peccati - a questo punto si voltò verso il paralitico - dico a te: “Sorgi, e preso il tuo lettuccio cammina a casa tua!”». E quello, saltato in piedi all’istante, arrotolò il suo giaciglio e se n’andò. Ci viene riferito che tutti rimasero stupefatti, ma non quale atteggiamento prendessero i Farisei: probabilmente pensarono che non era quella la maniera di rispondere ad un’elegante questione di teologia giudaica, ad ogni modo sicuramente a Gesù non dettero ragione.

• § 306. Anzi, neppure rallentarono la loro sorveglianza. Infatti poco dopo la guarigione del paralitico, secondo la serie di tutti e tre i Sinottici, avvenne un fatto d’altro genere. Passando Gesù per Cafarnao vide un pubblicano, Levi figlio di Alfeo, che al suo banco di dogana riceveva pagamenti, rilasciava ricevute attirandosi, da quei che pagavano le imposte, maledizioni ed esecrazioni certo più numerose dei denari lasciati sul banco. Forse quel pubblicano già conosceva Gesù di fama, o anche di persona, e nutriva venerazione per lui; forse nutriva pure una certa invidia per i discepoli di lui, poveri ma benedetti ed amati dal popolo, mentre egli con i suoi mucchietti d’argento e d’oro allineati sul banco era riguardato dalla gente come un cane rognoso. Fatto sta che Gesù, nel passare vicino al suo banco, lo guardò e gli disse soltanto: «Seguimi!». Quella parola fu scintilla caduta su materia infiammabile; il pubblicano, appena l’udì, lasciata ogni cosa, alzatosi lo seguì (Luca, 5, 28). Il pubblicano, secondo il costume allora frequente, aveva oltre al nome di Levi anche quello di Matteo (ebraico Mattai, contratto da Mattenai), che equivaleva al greco Teodoro e al latino Adeodato. È l’autore del primo Vangelo. Ora, questo nuovo seguace di Gesù che aveva ripudiato così prontamente la sua condizione sociale, non ne ripudiò immediatamente i vantaggi materiali, ma se ne servì per fare onore al nuovo maestro. Facoltoso com’era, tenne un suntuoso banchetto a cui invitò Gesù con i suoi discepoli e fianco a fianco con essi anche i propri antichi colleghi, cioè molti pubblicani e peccatori: così si esprime egli stesso (9, 10; Marco, 2, 15), mentre il fine Luca (5, 29) lascerà l’odioso termine di peccatori, e dirà pubblicani e altri (§ 143). Ma appunto questo affiancamento promiscuo apparve indecoroso, anzi obbrobrioso, agli Scribi ed ai Farisei che continuavano a sorvegliare: scandalizzatissimi, essi s’astennero dall’entrare nella casa di quel peccatore per non contarninarsi, ma sulla porta avvicinarono i discepoli di Gesù e fecero osservare: «Ma come? Voi e il vostro maestro vi abbassate a mangiare e bere insieme con i pubblicani e i peccatori? Dove va il vostro decoro? Dove la purità legale?». Le osservazioni giunsero all’orecchio di Gesù, il quale rispose per tutti: «Non hanno bisogno i validi di medico, ma quelli che stanno male. Andate quindi ad imparare che cosa significhi (il detto): “Misericordia voglio e non sacrifizio”. Non venni infatti a chiamare giusti ma peccatori». Il detto citato appartiene agli scritti profetici (Osea, 6, 6): il che mostra che l’insegnamento di Gesù, risalendo più in su della tradizione rabbinica, si ricollegava con quello degli antichi profeti, i quali avevano mirato molto più alla formazione spirituale che alle formalità rituali, come aveva fatto poco prima anche Giovanni il Battista (§ 267).

• § 307. Naturalmente i farisei non rimasero affatto persuasi di quella risposta, che si attaccava proprio a una delle sentenze più pericolose dei già pericolosi profeti. A prenderla alla lettera, quella sentenza avrebbe abolito tutta la Legge di Mosè e tutte le osservazioni giudaiche: e allora come sarebbe rimasto in piedi l’immenso castello della legislazione rabbinica, somma delizia di Dio nei cieli e degli uomini sulla terra? E, a proposito, che opinione aveva Gesù delle pratiche devozionali dei Farisei, ad esempio del digiuno (§77)? Su questo punto i sorveglianti pedinatori di Gesù trovarono un sostegno in alcuni discepoli di Giovanni il Battista ingelositi della popolarità del nuovo maestro, cosicché un giorno vennero insieme e chiesero a Gesù: «Come mai noi, sia seguaci di Giovanni sia Farisei, facciamo frequenti digiuni, e i tuoi discepoli invece mangiano e bevono? Come acquisteranno essi santità presso Dio e autorità presso il popolo, se non diverranno mesti e macilenti a forza di digiuni?» - Gesù rispose: «Possono forse i figli della camera nuziale (cioè gli “amici dello sposo”; § 281) essere mesti fino a che lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando sia tolto via da essi lo sposo, e allora digiuneranno» (Matteo, 9, 15). La risposta s’impernia sulla persona di Gesù, pur difendendo i discepoli: per essi verrà indubbiamente il tempo d’esser mesti e di digiunare ma non è il presente, in cui sta fra loro il loro maestro a guisa di sposo fra gli “amici dello sposo”; faranno essi cordoglio quando, con improvvisa separazione, il maestro sarà tolto d’in mezzo ad essi e la festa nuziale si svolgerà in lutto. Se non totalmente, almeno parzialmente, la risposta poteva esser compresa da quanti l’udirono: anche Giovanni, poco prima, era stato tolto violentemente ai suoi discepoli e li aveva lasciati nel lutto, e qui Gesù predice una sorte analoga ai discepoli propri. Del resto, perché insistere tanto sul digiuno materiale? Se esso era diventato di somma importanza presso i Farisei, non aveva avuto eguale importanza presso la Legge antica, né i Farisei avevano ottenuto grandi risultati spirituali introducendo quel culto della pratica materiale. Se si voleva adornare a festa il proprio spirito bisognava addirittura cambiargli veste, non già rattoppare quella vecchia: Nessuno invero rattoppa con un rattoppo di panno grezzo una veste vecchia, giacché il rappezzo (con la sua durezza) ne fa qualche lacerazione alla veste, e lo strappo diventa peggiore. Né si mette vino nuovo in otri vecchi, se no si squarciano gli otri, ed il vino si versa e gli otri si rovinano: ma si mette vino nuovo in otri nuovi, e ambedue si conservano (Matteo, 9, 16-17). A sentire enunciati siffatti princìpi, quei Farisei - che non erano certamente degli imbecilli - dovettero capire che dal nuovo Rabbi non c’era nulla da sperare, e che giammai egli si sarebbe aggregato a qualche scuola dei grandi maestri della “tradizione”. Tuttavia, o essi o altri, seguitarono ancora a pedinare, se non altro per sorprendere Gesù in altri attentati alla “tradizione”.

• § 308. L’occasione si offrì di lì a poco. Dal colloquio con la Samaritana, avvenuto in maggio, erano trascorse alcune settimane: la messe quindi era ben matura, anche in Galilea, e forse qua e là s’era cominciato a mietere. In un sabbato (§ 178), attraversando Gesù e i discepoli un campo, qualche discepolo sentì appetito, perciò si dette a cogliere spighe, e strofinandole con le mani ne mangiava i chicchi. Non era un furto, perché il caso era espressamente contemplato ed esplicitamente permesso dalla Legge (Deuteron., 23, 25); c’era però la violazione del sabbato, perché il mietere era appunto uno dei 39 gruppi di lavori proibiti nel sabbato (§70) ed anche lo stropicciare fra le mani una spiga era un mietere secondo i rabbini; se costoro avevano sentenziato essere illecito mangiare un frutto caduto spontaneamente dall’albero di sabbato o un uovo fatto dalla gallina di sabbato (§ 251) perché ambedue i casi erano violazioni del riposo prescritto, tanto più dovevano condannare la deliberata azione dei discepoli. Sorpresili perciò in questo bel caso flagrante, si presentarono a Gesù additandogli i colpevoli: «Non vedi? Fanno ciò che non è lecito di sabbato!» - E chi aveva detto che non fosse lecito far delle eccezioni al sabbato? Gesù rispose discutendo su questo principio, e ricordando per analogia che anche David, quando fuggiva affamato, entrò nel tabernacolo di Jahvè e mangiò e fece mangiare ai suoi compagni quei «pani della proposizione» di cui era lecito cibarsi ai soli sacerdoti (I Samuele, 21, 2-6): dal caso di David era facile e spontaneo passare a quello del sabbato. Evidentemente per quei Farisei il caso di David era troppo remoto e apparteneva alla preistoria, mentre la vera storia delle istituzioni ebraiche cominciava per essi col sorgere del fariseismo. Tuttavia la stessa storia del fariseismo doveva esser loro poco nota: da principio infatti anche gli Asidei, cioè gli antenati immediati dei Farisei (§ 29), avevano rinunziato a difendere con le armi la propria vita per non violare il sabbato (§ 70), e con logicità perfetta si erano lasciati ammazzare dai loro nemici senza reagire; ma i superstiti venuti a più miti consigli, avevano stabilito il principio ch’era lecito di sabbato difendersi a mano armata da un assalitore (I Maccabei, 2, 40-41). C’era però la differenza che quegli antenati dei Farisei avevano creato e donato la libertà alla loro nazione, combattendo eroicamente sui campi di battaglia: al contrario, i classici Farisei dei tempi di Gesù combattevano solo sofisticamente nelle accademie rabbiniche, e quindi si potevano permettere il lusso di mostrarsi più rigorosi e più intransigenti di chi aveva procurato loro la possibilità di tenere accademie. Salendo poi al principio generico Gesù affermò: «Il sabbato fu fatto a motivo dell’uomo, e non l’uomo a motivo del sabbato», ch’era precisamente il contrario di quanto nella vita ordinaria pensavano i Farisei; e infine concluse: «... cosicché il figlio dell’uomo è signore anche del sabbato» (Marco, 2, 27-28). Il collegamento espresso dal «cosicché» è importante: il sabbato era stato fatto per l’uomo, e perciò aveva autorità anche sul sabbato colui che poco prima aveva dimostrato la propria autorità sui peccati dell’uomo (§ 305).

• § 309. Ma troppo gelosi del sabbato erano i Farisei perché la cosa finisse lì, con la sola affermazione che Gesù era padrone anche del sabbato: quella volta era mancata la prova visibile, che invece era stata data riguardo ai peccati dell’uomo. E la prova venne poco dopo, come risulta dalla serie di tutti e tre i Sinottici. È di nuovo un sabbato, e Gesù recatosi in una sinagoga vi predica secondo il suo solito. Ai Farisei che continuano a pedinare Gesù si presenta un’ottima occasione per dargli battaglia e metterlo alle strette nella questione del precetto sabbatico: è venuto alla sinagoga un uomo che ha una mano rattrappita, e può darsi che quell’operatore di miracoli sia tentato di guarirlo; osserveranno se egli cederà a sì sconcia tentazione, violando in maniera pubblica e scandalosa il precetto. Pare anzi che non si limitassero ad osservarlo, ma qualcuno per provocarlo a bella posta (Matteo, 12, 10) gli domandò se fosse lecito curare un infermo in giorno di sabbato. La questione era grossa assai, ed i rabbini continuarono anche più tardi a discuterla in tanti casi particolareggiati come già vedemmo (§ 71): ad ogni modo vigeva la norma che, salvo il pericolo di morte imminente, qualunque cura o medicamento erano assolutamente proibiti. Anche questa volta, come per il paralitico calato dal soffitto, Gesù non entra in discussione, ma adduce una prova visibile che dimostri se sia lecito o no curare di sabbato. Chi aveva imposto il precetto sabbatico secondo i Farisei? Certamente Dio. Chi era il signore delle leggi naturali? Certamente Dio. Se dunque una legge naturale era sospesa di sabbato, questa sospensione era opera di Dio. Questo fu il ragionamento che Gesù dette in risposta, ma lo espresse non a parole bensì a fatti. Disse pertanto all’uomo che aveva la mano rattrappita: «Alzati e mettiti nel mezzo!». E alzatosi (ci) si mise. Disse poi Gesù a quelli: «Domando a voi se è lecito di sabbato far del bene o far del male, salvare o mandare in rovina una vita?» (Luca, 6, 8-9). Come nel caso del paralitico, anche questa volta e per la stessa ragione fu risposto col silenzio. Ma quelli tacevano. E guardatili torno torno con sdegno, contristato per l’indurimento del cuore loro, dice all’uomo: «Stendi la mano!». E (la) stese, e fu ristabilita la mano di quello. Una risposta tuttavia ci fu, e consistette in questo che, usciti i Farisei, tennero subito consiglio insieme con gli Erodiani (§ 45) contro di lui, sulla maniera di mandano in rovina (Marco, 3, 4-6). La ragione era chiara. Poiché questa maniera di rispondere già usata dai Farisei nei riguardi di Giovanni il Battista si era mostrata efficace (§ 292), essi volevano applicarla anche a Gesù. Ma Gesù, saputa la macchinazione, si allontanò da quel luogo, come già aveva fatto alla notizia dell’imprigionamento di Giovanni, e molti gli andarono appresso (Matteo, 12, 15). Fine. Libro utilizzato: «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941, dell’Abate Giuseppe Ricciotti - riposi in pace!

GiuseppeRicciotti.jpg

Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.