Comunicato numero 124. Il Discorso della montagna (parte 1)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, i numeri 124, 125 e 126 del nostro Settimanale saranno pubblicati in formato ridotto. Pur dimezzando il numero di pagine, siamo certi che apprezzerete l’importanza dottrinale e storica dell’argomento che, con l’Abate Ricciotti, andremo a trattare: «Il discorso della montagna».

• § 315. L’elezione dei dodici fu una scelta materiale, che sarebbe valsa a ben poco se non fosse stata seguita da una spirituale, ossia da un’informazione dottrinale. Nonostante il loro affetto per il maestro i dodici dovevano essere informati assai scarsamente circa il pensiero di lui, e si sarebbero trovati certamente in un serio impaccio se qualche dotto Fariseo li avesse invitati a fare un’esposizione precisa e compiuta delle dottrine di Gesù. Lo avevano visto operare miracoli per fare del bene agli afflitti; lo avevano udito predicare come avente autorità (§ 299) ed affermare princìpi di giustizia e di bontà; essi stessi si erano sentiti dominati da lui ed attratti a lui, e lo amavano cordialmente: ecco tutto, altro non avrebbero potuto dire. Ma ciò evidentemente diventava troppo poco in quel giorno in cui essi pure erano stati eletti suoi cooperatori, né Gesù aveva fatto loro alcuna comunicazione ulteriore circa i suoi insegnamenti ed intendimenti. Inoltre, anche per il popolo era necessaria un’esposizione fondamentale della dottrina di Gesù, perché i popolani, che fino allora lo avevano udito predicare occasionalmente, dovevano averne un’idea anche più imprecisa e vaga di quella che ne avevano i dodici (gli Apostoli). Le ostilità sempre crescenti degli Scribi e dei Farisei rendevano, anch’esse, opportuna una dichiarazione di programma, affinché le rispettive posizioni fossero nettamente definite: il popolo, sì, aveva subito notato che Gesù «insegnava loro ... non come gli Scribi» (§ 299), ma se anche quei popolani avessero dovuto scendere al particolare elencando i punti di consenso e quelli di dissenso fra Gesù e i Farisei, sarebbero rimasti certamente anche più impacciati dei dodici. A queste varie esigenze corrispose il Discorso della montagna.

• § 316. Gesù oramai era ben noto non soltanto nella Galilea ma anche fuori; con quella sorprendente rapidità ed ampiezza con cui si diffondevano oralmente le notizie nel mondo semitico, sempre avaro di documenti epistolari, la fama di lui si era sparsa sia a mezzogiorno nella Giudea e nell’Idumea ambedue giudaiche, sia nella ellenizzata Decapoli ad oriente (§ 4), sia nei grandi centri mediterranei della pagana Fenicia ad occidente. Gruppi di gente salivano su da questi paesi verso il profeta galileo per vederlo e udirlo, ma insieme, e anche più, «per esser guariti dalle loro malattie» (Luca, 6, 18); «molti infatti egli curò, tanto da gettarsi addosso a lui per  toccarlo quanti avevano malori» (Marco, 3, 10). Le ondate di gente dovettero susseguirsi e crescere per qualche tempo, finché un giorno Gesù giudicò opportuno tenere alla numerosa folla ed ai dodici (agli Apostoli) il discorso espositivo del suo programma. Tutti e tre i Sinottici indicano come luogo del Discorso «la montagna», con l’articolo ma senza una precisa determinazione dunque, una delle colline della Galilea. La tradizione che riconosce questa collina nell’odierno «Monte delle beatitudini» ha ragioni non spregevoli in suo favore: è attestata esplicitamente solo nel secolo XII, ma se si considera in sostanza tutt’una con la tradizione riguardante Tabgha (§ 375 nota) essa risale al secolo IV. La montagna sarebbe la collina alta circa 150 metri posta sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade sopra a Tabgha, e distante  13 chilometri da Tiberiade e circa 3 da Cafarnao; il preciso luogo del Discorso non sarebbe sulla cima della collina, ove oggi sorge l’ospizio dell’Associazione Nazionale per i Missionari Italiani, ma alquanto più in basso su una spianata a sud-ovest della collina. Era un posto preferito da Gesù per trattenersi con le turbe, come vuole l’antica tradizione, e non lontano da Cafarnao, come esige la narrazione sinottica.

• § 317. Del Discorso abbiamo due recensioni, quella di San Matteo e quella di San Luca, ma ben differenti fra loro. La principale differenza è nella quantità e disposizione della materia, perché la recensione di Matteo è circa tre volte e mezzo più ampia che quella di Luca (107 versetti contro 30); tuttavia, in compenso, Luca riporta in altre circostanze della vita di Gesù ampie parti del Discorso come è trasmesso da Matteo (circa 40 versetti). Questa attribuzione ad altre circostanze è molto importante; essa si ritrova non solo in Marco, che pur tralasciando l’intero Discorso ne riporta qua e là poche sentenze staccate, ma inaspettatamente anche nello stesso Matteo, che fa ripetere a Gesù sentenze del Discorso in altre circostanze (cfr. Matteo, 5, 29-30, con 18, 8-9; e 5, 32, con 19, 9). Tutti questi fatti non sorprendono chi abbia presente quanto già dicemmo sia riguardo alla dipendenza diretta degli Evangelisti dalla catechesi viva della Chiesa (§110 segg.), sia riguardo agli scopi ed ai metodi particolari a ciascun Evangelista: su quest’ultimo punto è necessario ricordare particolarmente che San Matteo è l’Evangelista che scrive con ordinamento (§ 114 segg.) e San Luca è quello che si è proposto di scrivere secondo consecuzione (§ 140 segg.). Si potrà quindi ammettere senza difficoltà che talvolta Luca abbia staccato dal Discorso della montagna alcuni tratti riferendoli in altre circostanze storiche, e per contrario che Matteo abbia conglobato nel Discorso sentenze pronunziate da Gesù in altre occasioni. Per citare un solo esempio del secondo caso, Matteo porta l’orazione del Pater noster in questo Discorso (6, 9-13); Luca invece la porta molto più tardi, nel secondo anno inoltrato della vita pubblica di Gesù e pochi mesi prima della sua morte, ed inoltre fa che l’insegnamento di quell’orazione sia provocato dalla domanda di uno dei discepoli che chiede a Gesù in quale maniera dovessero pregare (Luca, 11, 1-4). È certo possibile che Gesù abbia insegnato più d’una volta il Pater noster, tanto più che le due recensioni di esso sono abbastanza diverse; tuttavia in favore della circostanza storica di Luca sta la domanda del discepolo che provoca la risposta, mentre nel Discorso della montagna tale “provocazione” manca, e il Pater noster si potrebbe anche staccare dal Discorso senza interromperne il filo logico. E, come questo, si potrebbero addurre altri esempi per un caso e per l’altro: i quali tuttavia non sarebbero né sempre sicuri, né tali da offrire la base ad una norma generale. Un’altra e maggiore possibilità è che il Discorso della montagna, quale fu pronunziato da Gesù, fosse anche più ampio di ciascuna delle due recensioni odierne. Quella di Matteo, ch’è la più estesa, si potrebbe oggi recitare ad alta voce come predica per una folla in una ventina di minuti, e aggiungendovi le poche sentenze che sono particolari a Luca si allungherebbe la predica solo di tre o quattro minuti: non era certamente una predica troppo lunga per folle che venivano da lontano ad ascoltare Gesù. È dunque molto probabile che questo Discorso fondamentale fosse riportato nella primitiva catechesi orale in maniera molto più ampia di come noi l’abbiamo adesso e che, mentre Marco lo ha tralasciato quasi totalmente, gli altri due Sinottici ne abbiano riprodotto solo quelle parti che meglio rispondevano ai loro scopi. Inoltre più tardi, presentandosi l’occasione, Gesù può essere benissimo ritornato su alcuni punti di quella sua esposizione programmatica, fors’anche ripetendo le stesse sentenze e impiegando le stesse comparazioni, come hanno sempre fatto i maestri di qualunque età e di qualunque argomento. In conclusione, la recensione secondo Matteo sembra la più vicina alla forma che il Discorso aveva nella catechesi primitiva, e quindi la più opportuna ad essere scelta come base.

• § 318. Impiegando una terminologia musicale, il Discorso della montagna può esser rassomigliato ad una maestosa sinfonia che fin dalle prime battute, senza preparazione di sorta, e con l’attacco simultaneo di tutti gli strumenti, enunzi con precisione nettissima i suoi temi fondamentali: e sono i temi più inaspettati, più inauditi di questo mondo, totalmente diversi da qualunque altro tema formulato giammai da altre orchestre, eppure presenti come se fossero i temi più spontanei e più naturali per un orecchio bene educato. E in realtà fino al Discorso della montagna tutte le orchestre dei figli dell’uomo, pur fra variazioni d’altro genere, all’unisono avevano annunziato che per l’uomo la beatitudine consiste nella felicità, la sazietà è data da saturità, il piacere è l’effetto di appagamento, l’onore è prodotto da stima; al contrario, e fin dalle prime battute del suo attacco, il Discorso annunzia che per l’uomo la beatitudine consiste nell’infelicità, la sazietà nella famelicità, il piacere nell’inappagamento, l’onore nella disistima, in vista però del premio futuro. L’ascoltatore della sinfonia rimane allibito all’enunciazione di siffatti temi: ma l’orchestra, proseguendo imperturbata, ritorna sopra i singoli enunciati, li scevera ad uno ad uno, li ribadisce, ricama variazioni attorno ad essi: raccoglie quindi nello squillo degli ottoni altri temi accennati timidamente dagli archi, li corregge, li trasforma, li sublima lanciandoli su altissime vette: sommerge invece in un fragore di toni talune vecchie risonanze riecheggiate da lontane orchestre, escludendole dal suo quadro sinfonico; fonde poi il tutto in un’ondata sonora che, salendo su su dall’umanità reale e dal mondo materiale, raggiunge e si riversa su un’umanità non più umana e su un mondo immateriale e divino. Gli antichi stoici avevano chiamato «paradosso» un enunciato che andava contro l’opinione comune: in questo senso il Discorso della montagna è il più ampio e più radicale paradosso che sia stato mai enunciato. Nessun discorso recitato sulla terra fu più sconvolgente, o meglio, più capovolgente, di questo: ciò che tutti prima chiamavano bianco qui è chiamato non già bigio o scuro ma addirittura nero, mentre il nero è chiamato precisamente candido; l’antico bene è ivi assegnato alla categoria del male, e l’antico male a quella del bene; dove prima si sublimava la vetta adesso è posta la base, e dove si sprofondava la base è collocata la vetta. In confronto con la “rivoluzione” contenuta nel Discorso della montagna, le massime rivoluzioni operate dall’uomo sulla terra sembrano finte battaglie fatte per giuoco da bambini, in confronto con la battaglia di Canne o quella di Gaugamela. E questo capovolgimento è presentato, non già come conseguenza di lunghe investigazioni intellettuali, bensì con un tono decisamente imperativo che trova il suo appoggio soltanto sull’autorità dell’oratore. «Così è, perché ve lo dico io Gesù»; «altri vi hanno detto bianco, ma io, Gesù, vi dico nero»; «vi è stata prescritta la somma di cinquanta, ma essa sta bene solo in parte ed io, Gesù, vi prescrivo la somma totale di cento».

• § 319. E quali sono le sanzioni di questo nuovo ordinamento? Non esistono sanzioni umane ma solo divine, non sanzioni terrene ma solo ultraterrene. I poveri sono beati perché di essi è il regno dei cieli, ma non un regno della terra; i dolenti sono beati perché saranno consolati, ma in un imprecisato futuro lontano; i puri di cuore sono beati perché vedranno Iddio, ma non perché la loro purità sarà pregiata ed encomiata dagli uomini; in genere, poi, tutti i tribolati per amore della giustizia sono beati, ma nuovamente perché di essi è il regno dei cieli e non perché spetti loro un’ampia ricompensa sulla terra. Cosicché il nuovo ordinamento promulgato da Gesù ha una regolare base giuridica soltanto per chi accetti ed aspetti il regno dei cieli; invece un qualunque Nicodemo - che sia nato dalla carne e, vedendo soltanto materia, non accetti né aspetti un regno dei cieli - troverà che l’ordinamento di Gesù manca di base ed è, ben più che un paradosso, addirittura un assurdo: ma appunto la ragione di questa ripulsa era stata prevista e spiegata da Gesù quando nel suo colloquio con Nicodemo lo aveva ammonito, «se qualcuno non sia nato dall’alto, non può vedere il regno d’Iddio, perché ciò ch’è nato dalla carne, è carne; e ciò ch’è nato dallo Spirito, è spirito» (§ 288). Infine il Discorso della montagna non prescinde dalla realtà storica, ma in molti ed essenziali punti si ricollega con fatti reali dell’ebraismo passato e contemporaneo. La Legge mosaica non è annientata, ma integrata e perfezionata; essa è conservata, ma come un pianterreno su cui venga sovrimposto un piano superiore. Le costumanze e perfino le elucubrazioni casuistiche degli Scribi e dei Farisei sono tenute presenti, ma considerate come un cadavere in cui bisogna infondere un’anima: dappertutto si ricerca la moralità dello spirito, assai più che la materialità dell’azione. Non sfugge neppure la questione finanziaria ed economica, ma anche questa è inquadrata in un atto di fede, in una visione della provvidenza di Dio. Sopra ogni cosa, poi, domina l’amore, nelle sue due ramificazioni verso Dio e verso gli uomini. Dio non è un monarca dispotico che invii da lontano i suoi ordini all’umanità e ne attenda i tributi; è, invece, il padre di tutta l’umana famiglia, che conosce quando i Suoi figli hanno fame e vuol essere onorato da essi con la richiesta insistente del pane. Gli uomini tutti, come figli tutti egualmente di questo Padre sovrumano, sono fratelli, hanno lo stesso sangue spirituale, sono altrettanti «io» davanti a cui deve scomparire l’«io» del singolo. Tanta è l’importanza di questo amore per gli uomini, che perfino l’amore per Dio non può essere vero e legittimo se non è accompagnato da quello per gli uomini: chi stia per fare un’offerta all’altare con sincere disposizioni di spirito, ma in quel momento gli sovvenga che un altro uomo ha ricevuto una qualche ingiustizia da lui, prima vada a riparare l’ingiustizia e poi torni a fare l’offerta, giacché Dio cede volentieri la precedenza cronologica all’uomo aspettando tranquillamente, mentre non gradirebbe l’offerta fatta da chi ha un rimorso di coscienza contro il proprio fratello. [Con queste parole il Ricciotti intende piuttosto segnare la netta demarcazione fra il fariseismo, ed in generale il deteriorato pensiero giudaico, ed il cristianesimo. Nulla a che vedere con le tante, e talvolta esteriormente simili, elucubrazioni dei modernisti. Questi ultimi hanno dimostrato e dimostrano di avere ben altre mire, ndR].

• § 320. Il Discorso della montagna si svolge conforme ad uno schema abbastanza chiaro, soprattutto nella recensione secondo Matteo: ma questo Evangelista, benché «ordinatore» per eccellenza (§ 114), non deve aver creato qui l’ordinamento e piuttosto lo ha ritrovato già nella catechesi primitiva, sebbene qua e là vi abbia potuto introdurre piccole modificazioni. Il prologo, ch’entra subito nella maniera più risoluta, è rappresentato dalle beatitudini (5, 3-12): altrettanto avviene in Luca (6, 20-26), sebbene con divergenze. In Matteo la felicitazione «Beati...!» è ripetuta nove volte, ma le beatitudini sono in sostanza soltanto otto perché l’ultima è quasi una ripetizione della penultima e come un riassunto di tutte le precedenti; in Luca la felicitazione è ripetuta solo quattro volte, ma subito appresso sono aggiunte quattro maledizioni - «Guai...!» - indirizzate agli opposti dei felicitati di prima. Questa forma letteraria, per cui si cominciava con affermare un’idea e subito appresso si negava un suo contrario, si ritrova usitatissima nella poesia biblica (parallelismo antitetico - per esempio Genesi, 9, 25-26; Giudici, 5, 23-24; Geremia, 17, 5-8) ; ma anche più importante è notare che precisamente in antiche promulgazioni della Legge mosaica era stata seguita questa alternativa di benedizioni e di maledizioni (Deuteronomio, 11, 26-28; 27, 12-13; 28, 2 segg. e 15 segg.; Giosuè, 8, 33-34). Ora, poiché il Discorso della montagna indubbiamente vuole essere, sia per il contenuto sia per lo scenario, il contrapposto messianico alla Legge mosaica (§ 322), è molto probabile che il suo prologo nella primitiva catechesi consistesse in un elenco di beatitudini seguite o alternate da altrettante maledizioni; da questo complesso Matteo estrasse soltanto otto beatitudini, Luca, invece, soltanto quattro beatitudini ma rafforzate da quattro maledizioni. Prosegue sul prossimo numero .... 

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.