Comunicato numero 135. L’ampio insegnamento in parabole

Stimati Associati e gentili Sostenitori, come già precisato nel Comunicato n° 134 di Sursum Corda del 14 ottobre 2018, questo numero - il 135 - viene divulgato sul Web e spedito in anticipo, dato che i giorni 20 e 21 ottobre saremo verosimilmente impegnati prima a Modena in occasione della XIIIa Giornata per la Regalità Sociale di Cristo, poi per la santa Messa di domenica all’Oratorio IMBC San Gregorio VII di Roma. Veniamo all’argomento del giorno. L’Abate Giuseppe Ricciotti, nella sua preziosa «Vita di Gesù Cristo» in contrapposto alle fantasie e bestemmie dei novatori, inaugura un capitolo dedicato alle parabole di Gesù, di cui oggi possiamo studiare il primo paragrafo. In questo nostro percorso formativo stiamo seguendo minuziosamente l’indice del citato volume

• § 360. Durante questo periodo dell’operosità (di Gesù) in Galilea, probabilmente nel giorno stesso che precedette la tempesta sedata (§ 346), avvenne l’ampio insegnamento in parabole, che si può praticamente designare come «la giornata delle parabole». Certamente anche prima Gesù aveva impiegato taluni elementi parabolici nei suoi discorsi (cfr. Marco, 2, 17.19.21.22; ecc.), compreso il Discorso della montagna (Matteo, 5, 13-16; 6, 22 segg.; ecc.); ma quella fu una giornata dedicata particolarmente alla vera parabola, come risulta dalle brevi introduzioni premessevi da tutti e tre i Sinottici (Matteo, 13, 1-3; Marco, 4, 1-2; Luca, 8, 4; cfr. Marco, 4, 35). È parimenti quasi certo che anche qui gli Evangelisti si siano comportati come per il Discorso della montagna, cioè che in occasione di questa giornata abbiano riferito parabole pronunziate da Gesù in altre occasioni (Matteo) o viceversa abbiano trasferito altrove parabole di questa giornata (Luca) (§ 317); tuttavia un nucleo storico di parabole pronunziate in quella precisa giornata ci fu indubbiamente, e il suo materiale fu ripartito con una certa larghezza dai singoli Evangelisti.

[Dalla nota 1 alla pagina 430: Questa larghezza di ripartizione o distribuzione, e precisamente a proposito delle parabole evangeliche, era già stata affermata in uno scritto che va sotto il nome di Sant’Agostino: «Nonnumqum sane alius evangelista contexit, quod diversis temporibus dictum indicat. Non enim omnimodo secundum rerum gestarum ordinem, sed secundum suae quisque recordationis facultatem, narrationem quam exorsus est ordinavit» (Qucestiones septem-decim in Matth., qu. XV) - Traduzione: Da notare che talvolta un Evangelista collega fra loro cose che un altro riferisce essere state dette in altro tempo. Ciascuno di loro, infatti, ordinò il racconto che intendeva comporre non secondo l’ordine reale dei fatti ma piuttosto come gli era consentito dal ricordo che ne serbava., ndR].

La parabola è quel genere letterario che consiste nel servirsi di un fatto immaginario, ma assolutamente possibile e verosimile, per illustrare una data verità morale e religiosa. È, dunque, molto simile alla favola; ma ne differisce in quanto la favola fa agire o parlare esseri inanimati o irragionevoli, ed è quindi storicamente impossibile, ed inoltre non si propone uno scopo edificativo [I moderni sostengono le che le favole hanno anche scopo edificativo, in verità vengono usate, da molti decenni ormai, per indottrinare i bambini alle peggiori ideologie ed avviarli alle più perverse pratiche, ndR].

Ambedue i generi, presso tutti i popoli ove sono fioriti, sono stati sempre d’indole popolare: la plebe ha sempre trovato un mezzo facile e perspicuo, per ricevere e trasmettere la sapienza spicciola, in quel riavvicinamento di teoretiche situazioni morali alle reali situazioni umane di tutti i giorni, illuminando così l’astratto impalpabile col concreto tangibile. E, sebbene prediletto dalla plebe, questo metodo è più filosofico di quanto sembri a prima vista: è noto che Socrate, appunto per opporsi ai Sofisti, ricorreva volentieri alla parabola e al paragone; anzi fin da principio, per definire il suo ufficio di maestro, egli si serviva di una specie di parabola, giacché affermava di continuare nel campo morale la professione che nel campo fisiologico aveva esercitata sua madre, la levatrice Fenarete: egli era il maieutico dello spirito. In sostanza, dunque, la parabola è un paragone. È naturale però che, a seconda della finezza concettuale dei vari autori e ascoltatori di tali paragoni, la parabola potrà essere più o meno sviluppata, e talvolta potrà anche prendere alcuni aspetti dell’allegoria. Ad esempio, l’ufficio d’un maestro di scuola potrà essere semplicemente paragonato a quello d’un giardiniere, e allora si avrà una parabola; ma se il paragone verrà spinto fino a particolarità minute, e nelle piccole piante del giardino si vedranno simboleggiati gli alunni del maestro, nei fiori e nei frutti le promozioni e i premi, nella fatica della vanga le cure dell’insegnamento, nelle forbici potatrici le punizioni e così di seguito, il paragone diventa anche simbolico, ossia diventa una parabola allegorica; se infine, non nominando mai la scuola ma intendendo soltanto essa, si parlerà unicamente di piante, di fiori, di vanga, di forbici, si avrà una pura allegoria, ossia una metafora continuata. È chiaro pertanto che, com’è difficile e raro mantenersi a lungo nella pura allegoria (un celebre esempio è l’ode «O navis» di Orazio, che tratta della Repubblica simboleggiata in una nave), così dalla semplice parabola si sconfina volentieri e facilmente nel campo allegorico impiegando taluni elementi simbolici. Le parabole di Gesù obbediscono a queste norme generiche.

[Dalla nota 1 alle pagine 431 e 432: Queste norme generiche, così evidenti e confermate dall’esperienza, erano state già espresse, dopo Aristotile, da Quintiliano: «Habet usum talis allegoriae frequenter oratio, sed raro totius: plerumque apertis permixta est... Illud vero longe speciosissimum genus orationis, in quo trium permixta est gratia: similitudinis (cioè la parabola), allegoriaa et translationis (cioè la metafora)» (Inst. orat., VIII, 6). Non valeva la pena di ricordare norme tanto note, se non fossero state negate focosamente proprio riguardo alle parabole di Gesù. Già accennammo al lavoro dello Jülicher sulle parabole evangeliche (Die Gleichnisreden Jesu, 2 voll., 2a ediz. 1910), giudicato «definitivo» dal Loisy (§ 211). Canoni fondamentali di questo lavoro sono: che la parabola e l’allegoria sono generi letterari i quali si escludono a vicenda né si possono mescolare in alcuna maniera; che la parabola è sempre chiara né ha mai bisogno di spiegazione, mentre l’allegoria è sempre oscura e dev’essere spiegata; che l’allegoria è genere, non popolare, ma da dotti e da studiosi (proprio il contrario di quanto afferma Quintiliano: «Ceterum allegoria parvis quoque ingeniis et cotidiano sermoni frequentissime inservit»): dai quali canoni si trae la conclusione che Gesù, rivolgendosi al basso popolo, ha parlato solo in parabole con precisa esclusione di ogni elemento allegorico; se dunque nelle parabole evangeliche si trovano oggi elementi allegorici, questi vi sarebbero stati aggiunti dagli Evangelisti e dalla primitiva tradizione ecclesiastica, ma devono essere sfrondati per ottenere di nuovo il pensiero genuino di Gesù. Questi canoni, in realtà, erano stati smentiti in anticipo già dai tempi di Menenio Agrippa, di Abimelech (Giudici, 9, 8-15), e anche prima; ma chi li ha formulati, vi è stato spinto da ragioni pratiche. Si aveva, cioè, bisogno di un pretesto qualsiasi per disarticolare le parabole di Gesù trasmesse nei Vangeli, di fare una cernita dei pezzi scomposti, e di rigettare quei tratti che non s’accordavano con teorie preconcette. Oltre a questo, si adduceva come giustificazione della cernita una ragione che, presentata da quegli studiosi, faceva l’impressione di una beffa (§ 364, nota). Oggi lo Jülicher e il Loisy sono ancora seguiti in questo campo per la stessa ragione pratica, ma solo da qualche raro ritardatario].

[Terminata la nota del Ricciotti, dobbiamo, purtroppo, avvertire i nostri Lettori che oggi, a causa del numero elevatissimo - quasi totale e globale - dei modernisti che «occupano la Chiesa dall’interno» (cfr. San Pio X, Pascendi), le insane ed assurde teorie dello Jülicher e dell’eresiarca Loisy, ma anche di personaggi addirittura peggiori, sono diventate la regola comune. Capiamo facilmente quanto siano ordinariamente errate, faziose e soprattutto blasfeme le esegesi moderne. Anni fa dedicammo numerosi punti di Sursum Corda alla corretta esegesi, ndR].

• § 361. L’antica letteratura ebraica aveva coltivato il genere parabolico designandolo col nome di māshāl, il quale termine, tuttavia, comprendeva anche altre forme oltre alla vera parabola. Com’era da aspettarsi, i rabbini anteriori e contemporanei a Gesù impiegavano la forma parabolica più o meno mescolata con le altre forme analoghe; in seguito s’impiegarono sempre più tali forme, ma dalla metà del secolo II dopo Cristo in poi il loro uso fu abbandonato. In questo tempo morì Rabbi Meir, e con lui morì - si disse - la parabola; gli si attribuivano infatti tremila favole, che avevano per protagonista sempre la volpe. Del resto a questo tempo la forma parabolica era diventata presso i rabbini stereotipata, convenzionale, priva d’energia e di vivezza. Presso Gesù la parabola è tutt’altra cosa: semplice e precisa, è ricalcata di sulle realtà più umili ma rispecchia con nettezza i concetti più alti, e nello stesso tempo è comprensibile dall’ignorante e meditabile dal dotto. Letterariamente è priva d’ogni artifizio, eppure supera per potenza affettiva i più elaborati artifizi letterari. Non sbalordisce, ma persuade; non solo vince, ma convince. Noi Italiani dalla voce parabola abbiamo derivato la voce parola: vorrebbe forse questa derivazione indicare che la parabola di Gesù è la parola più alta salita dall’uomo e insieme la più bassa discesa da Dio?. 

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.