Comunicato numero 137. Gesù e le parabole del RegnoStimati Associati e gentili Sostenitori, sentitamente ringraziamo per la Vostra partecipazione alla XIIIa Giornata per la Regalità sociale di Cristo (qui i video delle lezioni) e, nondimeno, per la Vostra discreta  (ossia silente) generosità. Il Signore ci ammonisce: «Omne verbum otiosum, quod locuti fuerint homines, reddent rationem de eo in die iudicii». Orbene, se è vero che il Signore peserà ogni singola parola vana ed imprudente che esce dalla nostra bocca, quanto sarà inflessibile nel giudicare la nostra pigrizia e la nostra avarizia? Oltre le Sante Messe, pochissimi sono gli appuntamenti annuali che ci vedono direttamente coinvolti nella presenza, cerchiamo di non mancare mai e consideriamo, altresì, che ogni danaro silenziosamente usato per la causa di Gesù Cristo è atto non solo di generosità, ma di profonda umiltà. Nel silenzio della tomba, difatti, non può esserci superbia; e quell’uomo che muore al mondo non sente la necessità di declamare la sua generosità. Anche questo atteggiamento distingue il nobile animo cristiano, da quello villano del filantropo. È forse il piacere del mondo che noi cerchiamo? Nient’affatto, noi vogliamo piacere a Gesù, alla Vergine Maria, al casto San Giuseppe, agli Angeli ed ai Santi, che non sono cittadini di questo mondo. C’è forse qualche maestro fra noi? Qualche degna autorità ci ha assegnato una cattedra? Come potremmo insegnare ciò che non conosciamo? Il nostro compito è, forse, scaldare la sedia del computer e fare i “professori” su internet? Nient’affatto, noi non siamo nulla e non sappiamo nulla. Dice il Profeta che l’uomo che si innalza e si insuperbisce sarà abbattuto dal Signore degli eserciti (Is., II, 12). Dunque sforziamoci, sull’esempio del sommo Isaia, di prudentemente tacere, impariamo ad ascoltare, a comprendere, partecipiamo assiduamente e docilmente alla formazione dottrinale, finalmente preghiamo Iddio affinché ci faccia anonimi esemplari del Suo regno in terra. Milioni di uomini e di donne si sono santificati (cf. Apoc., VII, 9), eppure non avevano internet e non scaldavano sedie; facevano semplicemente il loro dovere sotto la guida di un buon Confessore. Ciò premesso, veniamo al  venerando Abate Ricciotti. Oggi ci insegna qualcosa sulle «Parabole del Regno».

• § 365. La giornata delle parabole si svolse nei pressi di Cafarnao e sulla riva del lago. Essendo raccolta molta folla, Gesù ricorse all’espediente già usato in precedenza (§ 303) di salire in barca, e, scostatosi alquanto, parlava di là alla gente allineata sulla riva. La prima parabola riferita di questa giornata è quella del seminatore. Nella Galilea, collinosa e accidentata, si adibivano a semina piccoli appezzamenti di terreno che meglio si prestavano qua e là sulle ripe e negli avvallamenti; alle prime piogge, verso novembre, dopo una superficiale preparazione del terreno, il contadino passava man mano sugli appezzamenti da lui curati, e vi spargeva la sementa di grano e d’orzo. Ora, le vicende del regno dei cieli somigliano a quelle del seminatore della Galilea. Il seminatore esce di casa stringendosi al fianco il sacchetto di sementa ben colmo e, giunto su un appezzamento preparato, si dà a seminare. Ma in Palestina i campi sono luogo di transito per tutti, e anche nei tratti da poco lavorati si formano presto sentierucoli, là ove i passanti attraversando accorciano il loro cammino; perciò una parte della sementa sparsa va a finire su questi sentierucoli, ove però ben presto gli uccelli la beccano o i passanti la schiacciano. Altra parte della sementa cade sul suolo pietroso, ricoperto appena da leggiero strato di terriccio; là per il calore sottostante germoglia presto, ma non essendovi terreno sufficiente non mette radici profonde e basta qualche giornata di pieno sole per far disseccare tutto. Altra sementa cade su terreno profondo, ma non ben preparato; e allora insieme con i buoni germogli crescono i cardi e le spine, che li soffocano. Finalmente il resto del sacchetto è vuotato sul buon terreno, e là la sementa rende dove il trenta, dove il sessanta, dove anche il cento per uno. Gesù restrinse ad un solo caso questo fatto abituale, narrandolo come avvenuto ad un singolo seminatore, e così compose la sua parabola. Terminò poi dicendo: «Chi ha orecchie da udire, oda!». Più tardi, tuttavia, egli stesso fornì la spiegazione della parabola ai discepoli che l’avevano interrogato in privato (§ 363). La sementa era la parola di Dio, cioè l’annunzio del regno dei cieli. La sementa caduta sui sentierucoli e rapita dagli uccelli era l’annunzio del regno ricevuto dagli uditori non disposti, i quali lo accoglievano a mala pena con le orecchie ma non col cuore, perché veniva subito Satana che lo rapiva via. La sementa finita sul suolo pietroso rappresentava gli uditori superficiali che accoglievano l’annunzio con gioia momentanea, ma alla prima contrarietà abbandonavano tutto. La sementa caduta fra cardi e spine rappresentava gli uditori avviluppati da passioni e da cure di mondo, i quali custodivano per qualche tempo nei loro cuori la buona novella ma poi la lasciavano soffocare coi loro desideri materialeschi. Finalmente la sementa gettata sul buon terreno era costituita da coloro che con cuore ben disposto accoglievano la buona novella, sì da renderne frutto più o meno abbondante. Un comune Giudeo, di quelli che aspettavano il regno messianico-politico, avrebbe compreso poco o nulla del vero significato di questa parabola, salvo che si fosse rivolto per la spiegazione a Gesù come i discepoli. Il comune Giudeo aspettava il fulgente re conquistatore, e qui invece l’autore del regno non era neppur nominato e restava nell’ombra; aspettava che l’istituzione del reame calasse bella e pronta dalle nubi del cielo tra portenti fragorosi, e qui invece il reame spuntava umile e silenzioso dalla terra in mezzo a ostacoli d’ogni genere; aspettava la rivendicazione nazionale e la vittoria sui pagani, e qui invece si accennava a un segreto lavorio dello spirito ed alla vittoria sulle passioni e sugli interessi mondani. Il comune Giudeo, dunque, vedeva e non vedeva attraverso la parabola; e qualora fosse rimasto tenacemente attaccato alle sue vecchie concezioni, avrebbe reso sempre più crasso il suo cuore e sempre più dure le sue orecchie rifiutando il totale “cambiamento di mente” (§ 335) a cui la parabola prudentemente l’invitava.

• § 366. Ma il regno dei cieli trova ostacoli alla sua attuazione anche là dove è stato ben accolto; e questo è il principio adombrato nella seconda parabola. Un uomo seminò buona sementa nel suo campo; avendo egli preparato bene il terreno e sparso la sementa a stagione e misura opportune, poteva stare tranquillo e aspettar fiduciosamente la messe. Senonché un suo vicino, che aveva vecchi rancori contro di lui, venne nottetempo mentre i garzoni dormivano, e sopra il terreno testé seminato sparse a piene mani i semi della zizania, ossia del loglio (Lolium temulentum Linn.) Era un dispetto classico fra agricoltori, contemplato anche dalla legge romana; la zizania infatti, anche quando è germogliata, non si distingue praticamente dalle pianticelle del grano, perché la differenza appare chiara solo dopo la spigatura, quando però è troppo tardi per svellere le male piante e il grano ha già sofferto. Anche quella volta il dispetto non fu scoperto se non al tempo della spigatura; e allora i garzoni andarono dal padrone a dirgli: «Ma non hai tu seminato buona sementa nel campo? E come mai c’è la zizania?» - Il padrone capì subito donde proveniva la zizania, ed esclamò: «È stato quel mio nemico!». I garzoni allora gli proposero: «Vuoi che andiamo a raccoglierla per liberare il frumento?». Ma il padrone replicò: «No, perché raccogliendo la zizania potreste sradicare anche il frumento; piuttosto lasciate che tutti e due crescano insieme fino alla mietitura, ed allora dirò ai miei mietitori di raccogliere la zizania a fascetti e gettarla nel fuoco, e di riporre invece il grano nel mio granaio». Anche di questa parabola ci è stata trasmessa la spiegazione data in privato da Gesù ai discepoli (Matteo, 13, 36-43). Chi sparge il buon seme è il figlio dell’uomo; il campo su cui lo sparge è il mondo; il buon seme sono i figli del regno; e la zizania i figli del Maligno; il nemico che la sparge a dispetto è il diavolo; la mietitura è la fine del “secolo” - o mondo - presente (§ 84); i mietitori sono gli angeli. Alla fine del mondo il figlio dell’uomo invierà i suoi angeli i quali, come fanno i mietitori con la zizania, toglieranno via dal regno di tutti gli scandalosi e gli operatori d’iniquità gettandoli nella fornace del fuoco; e allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre. La seconda parabola, dunque, insegnava che il regno predicato da Gesù avrebbe contenuto del buono e del cattivo, il buono proveniente dal figlio dell’uomo e il cattivo dal diavolo; inoltre, che questa mescolanza di bene e di male sarebbe stata tollerata in vista del pieno trionfo del bene, il quale sarebbe avvenuto soltanto al passaggio dal “secolo” presente a quello futuro. Perciò il regno era come un ponte che congiungeva i due “secoli”; era una specie di scala di Giacobbe che poggiava in basso sulla terra e finiva in alto nei cieli.

• § 367. Alla precedente parabola rassomiglia in parte quella riportata dal solo Marco (4, 26-29). Il regno d’Iddio è come un uomo che abbia seminato il suo campo; dorma egli o sia desto, di giorno e di notte, ripensi egli o no alla sementa gettata, essa germoglia e poi cresce e infine spiga e matura, perché è dotata di una forza intima: la quale tuttavia deve sprigionarsi lentamente e percorrere l’intero suo ciclo regolare. Dunque la buona novella predicata da Gesù avrebbe fatto anch’essa il suo corso regolare, sviluppandosi in estensione e profondità fra gli spiriti umani, senza i subitanei sconvolgimenti apocalittici ansiosamente aspettati dalle turbe, bensì in virtù di quella forza intima che le era stata immessa dall’alto.

• § 368. Che gl’inizi del regno di Dio manchino di esteriorità clamorosa, è affermato nuovamente nella parabola del chicco di senapa. La senapa è assai comune in Palestina, e sebbene pianta erbacea annuale può diventare in condizioni favorevoli anche un arbusto alto 3 o 4 metri; eppure i suoi semi sono chicchi piccolissimi, tanto che servono proverbialmente ancora oggi in Palestina come termine di paragone per cose quasi impercettibili: “Piccolo come un chicco di senapa”. Ora, questa curiosa sproporzione fra il seme piccolissimo e la pianta ch’è massima fra tutte le erbacee, offre a Gesù un’immagine della sproporzione storica fra gli inizi del regno di Dio, umili e silenziosi, e la sua successiva espansione, che supererà ogni altra. Anche qui ritroviamo il rinnegamento in pieno, anzi il preciso capovolgimento (§ 318), delle idee diffuse nel giudaismo dell’epoca. Pochi anni prima Orazio, trattando del vero poeta, aveva scritto che non fumum ex fulgore sed ex fumo dare lucem - cogitat (Ars. poët., 144-145). Le due parti di questo binomio, trasferito nel campo religioso, venivano allora scelte in Palestina rispettivamente dalla massa del popolo e da Gesù. Il popolo esaltava il fulgore dell’imminente regno messianico-politico: e invece, dopo un quarantennio, ebbe il fumo dell’incendio di Gerusalemme, con quelle tristi conseguenze che durano ancora dopo venti secoli. Gesù cominciava col Discorso della montagna, nubecola di fumo che sembrava doversi dileguare al primo soffio di vento: e, invece, da quella nubecola si sprigionò un fulgore tale che dopo venti secoli è più vivo che mai [e nonostante gli audaci e continui sforzi dei modernisti di distruggere la fede cattolica e la Chiesa stessa, se mai fosse possibile, ndR]. Questi riscontri non sono certamente una delle sottili teorie critiche basate su particolari filosofie e miranti a dimostrare che Gesù era un allucinato (§ 210) o qualcosa di simile: sono invece elementari considerazioni provocate dalla chiara parabola di Gesù, ma a differenza di quelle teorie hanno per base fatti storici di notorietà universale e di consistenza granitica.

• § 369. Analoga è la parabola del lievito. La sera la donna di casa, dopo aver riempito l’ampia madia con tre grosse misure di farina, ripone in fondo alla farina impastata un pugno di lievito; la mattina appresso, riaprendo la madia - [mobile rustico, costituito essenzialmente da una capace cassa rettangolare a coperchio ribaltabile, destinata specialmente alla lavorazione e conservazione del pane casalingo, ndR] -, la donna trova che quella piccola manciata di fermento durante una notte d’operosità recondita ha conquistato, pervaso, trasformato, tutta la massa cento volte più grande. Anche qui è posta in rilievo la sproporzione storica tra gli inizi del regno dei cieli, rappresentato dal lievito, e il suo pieno sviluppo, rappresentato dalla massa della farina fermentata: ma per di più è adombrata la natura intima, silenziosa, spirituale del regno, che si diffonderà non in forza d’armi, di denaro o di altri argomenti politici, ma conquistando segretamente le menti e soprattutto i cuori, come misterioso fermento divino.

• § 370. Altre parabole, recitate probabilmente ai soli discepoli dentro casa (cfr. Matteo, 13, 36), sono trasmesse in forma brevissima. Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo. C’era l’uso infatti, nei torbidi politici, di sotterrare oggetti preziosi in luoghi opportuni di campagna per preservarli da rapine di gente armata: un quarantennio dopo, durante l’assedio di Gerusalemme, essendo sbarrate le uscite della città, si nascosero i tesori ivi nelle fogne e nelle gallerie sotterranee (cfr. Guerra giud., VI, 431-432; VII, 114-115). Senonché talvolta avveniva che il padrone del tesoro sotterrato morisse prima di averlo ricuperato, e più tardi lo scoprisse per caso o il contadino che lavorava in quel terreno o qualche passante; naturalmente la prima cura del fortunato scopritore era di comprare quel campo, tacendo del ritrovamento, per divenire in tal modo legittimo proprietario del tesoro. Nella parabola di Gesù lo scopritore, appena assicuratosi che si tratta di un tesoro, lo ricopre e nasconde di nuovo, affinché nessun altro abbia a ritrovarlo; quindi, ripieno di segreta gioia, vende tutto ciò che ha per raggranellare la somma necessaria alla compera del campo, e così diventa padrone del tesoro. Giuoca insomma tutto per tutto, perché è sicuro che il tutto che lascia è molto meno del tutto che acquista. Dimitte omnia et invenies omnia. Così avviene a chi ha conosciuto e valutato il regno dei cieli: costui abbandonerà ogni altro suo bene, pur di acquistare quel sommo bene (Matteo, 13, 44).

• § 371. Lo stesso insegnamento scaturisce dalla brevissima parabola della perla. Un mercante di perle va lungamente in cerca di qualcuna di gran pregio, una di quelle perle rimaste famose nell’antichità per il loro valore, come le due grandissime di Cleopatra di cui parla Plinio (Natur. hist., IX, 35, 58). Trovatane finalmente una rarissima, vende ogni suo avere per acquistarla (Matteo, 13, 45-46). Si avvicinava invece alla parabola della zizania quella breve della rete, presa dagli usi del lago di Tiberiade. Il regno dei cieli è simile a una gran rete gettata in acqua e poi ritirata piena di pesci di vario genere; della preda catturata i pescatori fanno una scelta, mettendo i pesci buoni in serbo nei vasi e gettando via i cattivi. Parimente, alla fine del “secolo”, gli angeli separeranno d’in mezzo ai giusti i malvagi e li metteranno nella fornace del fuoco (Matteo, 13, 47-50). Il colloquio appartato con i discepoli, che conchiuse la giornata delle parabole, riceve il sigillo finale da un’altra breve parabola. Terminato che ebbe di parlare, Gesù chiese ai discepoli «Avete capito tutto ciò?» - «Si, gli risposero». - «Ebbene, soggiunse Egli, ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie». - Quei discepoli, ch’erano destinati a continuare l’opera di quel maestro, dovevano dunque continuare nella norma da lui stesso annunziata nel Discorso della montagna (§ 323), di non esser venuto ad abolire la Legge antica, bensì a compierla e perfezionarla. Cose antiche, integrate e perfezionate da cose nuove.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.