Comunicato numero 139. Gesù cammina sull’acquaStimati Associati e gentili Sostenitori, non è nostra abitudine occuparci di attualità, consapevoli che i moderni e soprattutto i modernisti sono verosimilmente fuoriusciti dal «pozzo d’Abisso» (Ap., IX, 3), dal quale San Giovanni vide salire tal fumo che il sole ne rimase oscurato, uscendone locuste innumerabili a devastare la terra. Papa Gregorio XVI, nella Mirari vos, biasima questi soggetti di «erronea sentenza o piuttosto deliranti», di «corrottissima sorgente», di «errore velenosissimo», la cui dottrina pretende di «ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza, la smodata libertà di opinione, che toglie ogni freno che - fino a quel momento - teneva nella via della verità l’uomo: già diretto al precipizio per la sua natura inclinata al male (quest’ultima proposizione è dogma)». Purtroppo il famigerato “Vaticano Secondo” ha evidentemente scoperchiato questo «pozzo d’Abisso» abbracciando ogni sorta di dottrina miasmatica e fraudolenta (dall’antropocentrismo al liberalismo), riconoscendo diritti all’errore e sprofondando, soprattutto a causa della prismatica mostruosità dell’ecumenismo (qui approfondimenti), interi popoli nell’eresia, nell’ateismo, nel neo-paganesimo e finalmente nell’Inferno. Ma già Sant’Agostino esclamava (Ep., 166): «Qual morte peggiore può darsi all’anima della libertà dell’errore?». A causa di questa ineluttabile consapevolezza, è nostra abitudine scansare l’attualità “vaticanosecondista” come la peste. La Chiesa, difatti, insegna e dimostra che anche i peggiori eretici hanno proclamato qualche verità mista ad errori, parimenti avviene nel Modernismo dove, secondo la dinamica del “gioco delle parti”, del “poliziotto buono e del poliziotto cattivo”, della “destra contro la sinistra”, eccetera ... (cfr. Gestire l'opposizione), si ammette ogni flato - profumato o puzzolente che sia - per mera strategia affaristica e per racimolare consensi. Orbene, in questo humus infernale prospera ogni opinione errata, inadeguata, inopportuna e pestifera.

• La recente questione del Pater. Si legge che l’attuale occupante materiale la Sede di Pietro (il divulgatore di eresie non può essere considerato formalmente Papa - qui approfondimenti), Giorgio Bergoglio, avrebbe «cambiato la preghiera del Padre nostro», così i sedicenti “Tradizionalisti”, per reazione, si sono stracciati le vesti rimpiangendo il “dotto Benedetto XVI”. Questo nostro intervento intende restituire verità ai fatti. La nuova, goffa (cosa intendono dimostrare? - qui i parametri di vera esegesi), versione del Pater... è, difatti, atto ufficiale del Modernismo almeno dal 2008, da quando, cioé, sotto l’occupazione altrettanto materiale di Giuseppe Ratzinger, la nuova “Bibbia CEI” traduce San Matteo VI, 13 in «... non abbandonarci alla tentazione ...». Con buon pace dei sedicenti “Tradizionalisti” (la cui  dottrina pan-luterana si riassume in: «Il Papa sbaglia, quindi per salvarmi devo disobbedire al Papa» - sic! - qui le proposizioni luterane condannate dalla Chiesa), l’evidenza ancora una volta dimostra che il gesuita villano si limita squisitamente a propagandare con maggior risalto mediatico i già esistenti errori enunciati o permessi dal fine teologo. Ciò premesso, veniamo all’argomento del nostro editoriale d’apertura: «Gesù cammina sull’acqua. Discorso sul pane vivo», dagli scritti dell’Abate Ricciotti.

• § 376. Quando la barca si staccò da terra era notte fatta; prima d’imbarcarsi i discepoli probabilmente attesero, nella speranza che Gesù liberatosi dalle folle li raggiungesse, ma non vedendo alcuno ed essendo già tardi presero il largo. L’aveva comandato il Maestro, e perciò obbedivano; ma pienamente soddisfatti non si sentivano, sia perché il Maestro si era staccato da loro, sia perché quel viaggio notturno non era né piacevole né sicuro. Spesso sul lago di Tiberiade, in primavera avanzata, dopo una giornata calda e tranquilla, verso il tramontare del sole si scarica dalle montagne sovrastanti un vento freddo e violento in direzione meridionale, che continua e cresce sempre più fino al mattino, rendendo la navigazione assai difficile. Così avvenne quella notte; sorpresi di fianco dal vento e spinti verso mezzogiorno invece che verso ponente, i navigatori ammainarono la vela, ormai nociva e pericolosa, e fecero forza sui remi. Ma tra lo sballottamento delle onde la barca avanzava male, e alla quarta vigilia della notte, ossia dopo le 3 del mattino, s’erano fatti soltanto 25 o 30 stadi di tragitto, ossia dai 4,5 chilometri ai 5,5: mancava forse ancora un buon terzo del tragitto prima di raggiungere l’approdo. La stanchezza veniva ad accrescere il malumore dei naviganti. Ad un tratto, d’in mezzo alla foschia mattinale e agli spruzzi delle onde, essi vedono a pochi passi dalla barca un uomo che cammina sull’acqua. Un rematore dà un grido, e addita. Tutti guardano. Indubbiamente è una figura umana: sembra camminare di conserva con la barca e volerla oltrepassare. No: piega invece verso la barca per raggiungerla. «Tutti allora si turbarono dicendo: “È un fantasma!”, e dalla paura gridarono. Subito però Gesù parlò ad essi dicendo: “Coraggio! Sono io! Non abbiate paura!”» (Matteo, 14, 26-27). Se era veramente lui, non c’era da meravigliarsi: chi poche ore prima aveva moltiplicato i pani, poteva ben camminare sulle onde. Ma era veramente lui? Pietro volle esserne sicuro: «Signore, se sei tu, comanda che io venga a te sulle acque!». Gesù rispose: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, camminò sull’acqua e raggiunse Gesù. L’esperto pescatore di Cafarnao non si era mai inoltrato sull’acqua in quella maniera; ma appunto la sua esperienza lo tradì, e quando si trovò tutto solo avvolto tra i flutti turbinanti si spense in lui l’ardore di fede che lo aveva fatto scendere dalla barca e rimase soltanto l’esperto pescatore, il quale perciò ebbe paura. La paura lo portava a fondo; il pauroso gridò: «“Signore, salvami!”. E subito Gesù, stese la mano, lo prese e gli dice: “Scarso di fede, di che cosa dubitasti?”». Ambedue salgono in barca, il vento dà subito giù, e ben presto l’approdo è raggiunto.

• § 377. Nel breve tragitto tranquillo ci fu nella barca un inconsapevole stordimento. I naviganti si gettarono ai piedi del nuovo imbarcato esclamando: «Veramente di Dio sei figlio!». Non dicevano che era il “figlio di Dio” per eccellenza, il Messia; ma certo lo proclamavano un uomo straordinario, a cui Dio aveva elargito i più ampi favori. Appunto qui, però, rimaneva una macchia oscura: a voler inquadrare questo nuovo prodigio insieme con gli altri dentro una grande visione riassuntiva, quei naviganti, che avevano tuttora lo stomaco ripieno del pane miracoloso e gli occhi ripieni del presunto fantasma, non riuscivano a dare un giudizio complessivo sull’intera visione. Ripetevano essi dentro di sé l’identico ragionamento fatto poche ore prima dalle folle, che avevano mangiato il pane moltiplicato: «Se costui sa operare miracoli così potenti, perché non si decide ad agire come potente e re messianico» d’Israele? (§ 374). Chi mai lo trattiene? «E molto di più stupivano in se stessi; non avevano infatti capito riguardo a(ll’avvenimento dei) pani, bensì il loro cuore era indurito» (Marco, 6, 51-52). Lo sbarco avvenne a Gennesareth, la regione chiamata oggi el-Ghuweir e descritta come ubertosissima da Flavio Giuseppe (Guerra giud., III, 516 segg.): stava, come Tabgha (§ 375, nota), circa 3 chilometri più a sud di Cafarnao. Probabilmente Cafarnao fu evitata per non provocare le solite manifestazioni clamorose e pericolose. Tuttavia l’arrivo di Gesù fu subito segnalato, e tosto cominciò l’affluenza di malati e d’imploranti dai luoghi vicini, «e quanti lo toccavano erano salvati» (Marco, 6, 56). Molti della zona di Cafarnao erano intanto rimasti a Bethsaida sul posto della moltiplicazione dei pani. Sopraggiunta la notte, Gesù era scomparso e i discepoli senza di lui erano salpati sull’unica barca che stava sulla riva: non restava dunque niente da fare sul posto. Passata la notte alla meglio, la mattina seguente alcuni di quei ritardatari approfittarono di alcune barche venute là a pescare da Tiberiade (Giovanni, 6, 23) e si fecero trasportare a Cafarnao; altri presero altre direzioni. Giunti a Cafarnao, si dettero a cercare Gesù con la speranza forse di riprendere il fallito progetto di proclamarlo re, e d’indurlo o ad una piena accettazione ovvero ad un aperto rifiuto. Lo ritrovarono infatti come avevano previsto, ma probabilmente dopo due o tre giorni, durante i quali Gesù s’era trattenuto nella zona di Gennesareth; allora, tanto per attaccare discorso, gli dissero: «Rabbi, quando sei venuto qua?» (Giovanni, 6, 25).

• § 378. Con questa domanda ha inizio il celebre discorso sul pane vivo, riportato dal solo Giovanni (6, 25-71): noi già sappiamo che questo metodo integrativo è proprio al IV Vangelo nei confronti con i Sinottici (§ 164). Nel discorso ricompaiono tratti caratteristici a Giovanni, già rilevati nei due dialoghi di Gesù con Nicodemo e con la Samaritana: specialmente col dialogo della Samaritana (§ 294), il discorso sul pane vivo mostra varie affinità, anche di sviluppo logico. Tuttavia, analizzando minutamente la compagine del discorso stesso, appaiono qua e là delle saldature o riconnessioni che attestano un lavoro redazionale: se il Discorso della Montagna offrì ai due Sinottici che lo riportano, e specialmente a Matteo, occasione di esercitare la loro operosità redazionale (§ 317), un’eguale occasione fu colta e impiegata da San Giovanni per il Discorso sul pane vivo. In esso, infatti, si distinguono chiaramente tre parti: nella prima (6, 25-40) Gesù ha per interlocutori gli abitanti della regione di Cafarnao che avevano assistito alla moltiplicazione dei pani; nella seconda parte (6, 41-59) intervengono come interlocutori i Giudei, e in fondo una nota redazionale avverte che le precedenti parole di Gesù furono pronunziate nella sinagoga di Cafarnao; infine la terza parte (6, 60-71) riporta insieme con poche parole di Gesù vari fatti che furono conseguenze dei precedenti ragionamenti, le quali conseguenze non avvennero immediatamente ma richiesero senza dubbio un tempo più o meno lungo per svilupparsi. Dunque il discorso, quale oggi l’abbiamo, è una «composizione», la quale ha unito con un nucleo cronologicamente compatto altre sentenze di Gesù cronologicamente staccate ma riconnesse con quel nucleo dall’analogia dell’argomento: questa maniera di «composizione», in parte cronologica e in parte logica, era usuale alla «Catechesi» di San Giovanni non meno che a quella degli altri Apostoli, e gli antichi Padri o espositori l’hanno riconosciuta ed ammessa ben prima degli studiosi recentissimi (§ § 317, nota; 360, nota prima; 415, nota).

• § 379. La prima parte del discorso avviene a Cafarnao, ma fuori della sinagoga. Coloro che ricercano Gesù l’incontrano, forse per strada, e gli rivolgono la suddetta domanda: «Quando sei venuto qua?» - La mira segreta è ben altra. Gesù, riferendosi alla mira segreta e avvicinandosi alla sostanza della questione, risponde: «In verità, in verità vi dico, mi cercate non già perché vedeste segni, bensì perché mangiaste dai pani e foste satollati». I segni erano i miracoli fatti da Gesù a comprova della sua missione, e in tanto sarebbero stati efficaci come segni in quanto avessero indotto gli spettatori ad accettare quella missione: e invece quegli abitanti di Cafarnao che parlavano con Gesù erano stati spettatori di molti miracoli ma non li avevano accettati come segni, avevano goduto del beneficio materiale ma non avevano accolto il beneficio spirituale; ultimamente avevano mangiato il pane miracoloso ma subito appresso si erano infervorati per il regno politico del Messia. Perciò Gesù prosegue: «Producetevi non già il nutrimento che perisce, bensì il nutrimento permanente in vita eterna il quale vi darà il figlio dell’uomo: costui infatti il Padre, Iddio, segnò del suo sigillo». Il sigillo era lo strumento più importante nella cancelleria d’un re. Quegli ascoltatori di Gesù avevano tentato, poco prima, di eleggere Gesù “re”; ma qual re sarebbe stato egli dopo siffatta elezione? Donde la sua autorità regale? La sua autorità egli l’aveva ricevuta, non da uomini, ma dal Padre, Iddio. Gl’interlocutori replicano: «Che dobbiamo fare per produrre le opere d’iddio?». Con questa domanda si riferiscono chiaramente all’esortazione di Gesù di «produrre... il nutrimento permanente in vita eterna». Gesù risponde: «Questa è l’opera di Dio, che crediate in chi egli inviò»; che crediate cioè in lui anche quando la sua parola delude le vostre speranze e fa svanire i vostri sogni, che crediate nel suo regno anche se è la negazione totale del vostro regno. Insistettero gli altri: «Qual segno fai dunque tu, affinché vediamo e crediamo in te? Che produci? I padri nostri mangiarono la manna nel deserto, conforme a ciò che sta scritto: “Pane del cielo dette loro da mangiare”» (Esodo, 16, 4; Salmo, 78, 24). L’allusione mirava a due termini e li contrapponeva fra loro: da una parte l’opera di Mosè e il suo «segno», quello d’aver fatto scendere la manna dal cielo; dall’altra parte, l’opera di Gesù e il suo recentissimo «segno», quello d’aver moltiplicato i pani a Bethsaida. Fra i due termini del confronto, gl’interlocutori mostrano di preferire l’opera e il «segno» di Mosè all’opera e al «segno» di Gesù; gli altri «segni» di Gesù non sono neppur chiamati in causa, quasicché non avessero alcuna efficacia dimostrativa riguardo alla fede e quasi per dar ragione alle prime parole di Gesù, «mi cercate non già perché vedeste segni, bensì perché mangiaste dai pani e foste satollati». Gesù ad ogni modo è riprovato e posposto a Mosè: se egli vuole ottenere fede nel suo invisibile e impalpabile «regno», faccia dei «segni» almeno eguali a quelli di Mosè.

• § 380. La discussione è giunta ad un bivio, e bisogna decidersi fra i due termini del confronto: da una parte Mosè e la sua opera, dall’altra parte Gesù e il suo «regno». Quale di questi due termini è superiore? Qui sta il nodo della questione, e Gesù l’affronta in pieno: «In verità, in verità vi dico, non già Mosè vi ha dato il pane dal cielo, bensì il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane d’iddio infatti è colui che discende dal cielo e dà vita al mondo». Il giudizio dato dagli interlocutori è capovolto: dei due termini del confronto Gesù è tanto superiore a Mosè quanto il cielo è superiore alla terra; Gesù, non già Mosè, discende dal cielo e dà vita al mondo, egli è veramente il pane dal cielo. L’esposizione è interrotta un istante da un’esclamazione degl’interlocutori: «Signore, dacci sempre questo pane!»; la quale esclamazione è gemella di quella della Samaritana riguardo all’acqua, e dimostra che in un caso e nell’altro si pensava ad oggetti materiali. Replicò Gesù: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non sentirà fame, e chi crede in me non sentirà sete giammai. Ma io vi dissi che e mi avete veduto e non credete». Con altre affermazioni di Gesù (Giov., 6, 37-40) si chiuse questo primo incontro.

• § 381. Dell’incontro e delle affermazioni di Gesù si dovette parlar molto in paese, anche con desiderio di avere spiegazioni in proposito e di offrire a Gesù opportunità di darle. Probabilmente i fatti si svolsero come a Nazareth (§ 358), e fu offerta a Gesù occasione di spiegarsi nella prima riunione sinagogale che si tenne in paese, perché le nuove dichiarazioni furono fatte da lui «insegnando nella sinagoga in Cafarnao» (6, 59). Se però è detto, a principio di questa nuova parte del discorso, che i Giudei mormoravano di lui, non è necessario supporre che un gruppo di accaniti Farisei fossero giunti apposta dalla Giudea per dar battaglia a Gesù: i «Giudei», nello stile di San Giovanni, sono in genere i connazionali di Gesù che hanno respinto l’insegnamento di lui. Questi Giudei, pertanto, mormoravano di Gesù perché disse: «Io sono il pane disceso dal cielo»; e dicevano: «Non è costui Gesù il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre?». Come mai adesso dice: «Dal cielo sono disceso»? Gesù, dopo alcune considerazioni più ampie, torna sulla precedente questione del pane: «Io sono il pane della vita. I vostri padri mangiarono nel deserto la manna e morirono; (invece) questo è il pane discendente dal cielo, affinché taluno mangi di esso e non muoia. Io sono il pane vivente, il disceso dal cielo: se alcuno mangi di questo pane, vivrà in eterno; e il pane poi che io darò, è la mia carne per la vita del mondo». Al suono di tali parole i Giudei, mal disposti quali erano, avevano da strabiliare ben più che Nicodemo e la Samaritana. Se a questi due antichi interlocutori Gesù aveva parlato di «rinascita dallo Spirito» e di «acqua zampillante in vita eterna», siffatte espressioni potevano a prima vista intendersi in senso simbolico: come in senso simbolico poteva intendersi adesso l’espressione «pane di vita» la prima volta che Gesù l’aveva impiegata ed applicata a se stesso. Ma Gesù non si era limitato a quella prima volta; egli era tornato sopra quella espressione e, quasi per escludere a bella posta l’interpretazione simbolica, aveva affermato che quel pane era «la sua carne» data per la vita del mondo. Questa precisazione non era tollerabile in un parlare metaforico: parlando della sua «carne-pane», Gesù non si esprimeva simbolicamente. Così ragionarono, con perfetta logica, gli uditori della sinagoga di Cafarnao, i quali perciò si dettero a discutere fra loro: «Come può darci costui la (sua) carne da mangiare?». Il momento era davvero decisivo e solenne; a Gesù spettava in quel momento di precisare ancor meglio la sua intenzione, esprimendo con limpidezza cristallina se le sue parole dovevano esser interpretate come metaforiche ovvero come piane e reali.

• § 382. La limpidezza cristallina si ebbe. Gesù, udita la discussione degli uditori, soggiunse: «In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e beviate il sangue di lui, non avete vita in voi stessi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna, e io lo risusciterò all’estremo giorno. La carne mia infatti è vero nutrimento, e il sangue mio è vera bevanda; chi mangia la mia carne e beve il mio sangue in me rimane, e io in lui. Come inviò me il Padre vivente e io vivo per il Padre, (così) anche chi mangia me, egli pure vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non (avverrà) come (a) i padri (vostri che) mangiarono (manna) e morirono: chi mangia questo pane, vivrà in eterno». Ascoltate queste spiegazioni, gli uditori non ebbero più il minimo dubbio; né, in realtà, avrebbero potuto averlo. Le parole ascoltate saranno state dure quanto si vuole, ma più chiare e precise di così non potevano essere; Gesù aveva nettamente e ripetutamente affermato che la sua carne era vero cibo e il suo sangue vera bevanda, e che per avere vita eterna bisognava mangiare di quella carne e bere di quel sangue. Non era possibile equivocare. Non equivocarono, infatti, gli ostili Giudei, che videro confermata la loro prima interpretazione; non equivocarono neppure molti dei discepoli stessi di Gesù, che trovarono scandalo in quelle parole. Molti pertanto dei discepoli di lui, avendo ascoltato, dissero: «Duro è questo discorso; chi può ascoltarlo?». L’aggettivo duro qui vale quasi per «ripugnante», «stomachevole», tanto che non si può ascoltarlo senza un certo ribrezzo. Evidentemente si era pensato ad un banchetto da antropofagi. Gesù in realtà non aveva precisato la maniera in cui si sarebbe mangiata la sua carne e bevuto il suo sangue; ma perfino davanti alla possibilità dell’interpretazione antropofaga e dello scandalo, egli non retrocedette d’un sol passo e non ritirò una sola parola. Sapendo che i suoi discepoli mormorano di ciò, disse loro: «Ciò vi scandalizza? Se dunque contempliate il figlio dell’uomo che risale dov’era prima? Lo spirito è il vivificante, la carne non giova a nulla; i detti ch’io ho parlati a voi sono spirito sono vita». L’ultimo periodo fu ritenuto sufficiente da Gesù per dissipare il timore del banchetto da antropofagi: i suoi detti erano spirito e vita. Ma gli stessi detti conservavano il loro pieno valore letterale, senza traslati metaforici; l’indispensabile era aver fede in lui, e l’ultimo argomento di tale fede sarebbe stato contemplare il figlio dell’uomo risalente al cielo, donde era disceso quale pane vivente. Pane celestiale, carne celestiale. Chi avesse avuto tale fede, avrebbe visto in che maniera si poteva veramente mangiare la carne di lui e bere il suo sangue senza ombra di antropofagia.

• [Dalla nota 1 alla pagina 455: Le infinite discussioni sollevate su questo discorso al tempo della (pretesa) Riforma protestante appartengono ormai alla storia del cristianesimo. L’interpretazione degli antichi protestanti, la quale nel pane di vita non scorgeva se non un’allegoria della redenzione e della dottrina di Cristo, è oggi abbandonata da moltissimi fra i più insigni studiosi protestanti (sebbene nel secolo XVI trovasse alcuni sostenitori anche fra i cattolici). Gli studiosi radicali odierni hanno svuotato il discorso nella maniera precisamente opposta: il discorso per essi allude indubbiamente al rito dell’Eucaristia, ma appunto ciò dimostra - a loro dire - che sarebbe un’invenzione dovuta all’Evangelista o alla sua catechesi, e non fu mai pronunziato da Gesù. In altre parole, l’unico punto su cui vanno d’accordo i radicali odierni e quelli di quattro secoli fa è, come sempre, nel dar torto alla tradizione: ma fuor di questo punto, quando cioè devono indicare per qual motivo essa avrebbe torto, sono in totale disaccordo fra loro].

• § 383. La reazione dei discepoli al discorso udito, nonostante le spiegazioni aggiuntevi da Gesù, non fu soltanto verbale: «da questo (tempo in poi) molti dei suoi discepoli si ritrassero addietro e non camminavano più con lui». Avvenne dunque una defezione, che allontanò da Gesù molti dei suoi discepoli; i dodici Apostoli invece rimasero fedeli. Un giorno, quando la defezione era già assai progredita, Gesù disse ai dodici: «Anche voi forse volete andarvene?». Gli rispose Simone Pietro: «Signore, da chi andremo? Parole di vita eterna (tu) hai; e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo d’Iddio» (Giovanni, 6, 67-69). Non è fortuita in uno scrittore quale San Giovanni quella consecuzione di pensiero, secondo cui i dodici avevano creduto e poi conosciuto. Su questo argomento Giovanni non torna più, e l’annunzio del pane di vita non risulta attuato in tutto il resto del suo Vangelo, perché egli sarà il solo Evangelista che non racconterà l’istituzione dell’Eucaristia alla vigilia della morte di Gesù. Ma appunto in questa sua omissione sta la più chiara indicazione che l’annunzio è stato attuato nella forma spirituale predetta. Giovanni omette l’istituzione dell’Eucaristia perché già narrata da tutti e tre i Sinottici e già notissima agli uditori della sua catechesi (§ 165); ha invece narrato l’annunzio, perché i Sinottici l’avevano omesso (§ 164). 

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.