Comunicato numero 146. La Trasfigurazione. L’esorcismo dell’epiletticoStimati Associati e gentili Sostenitori, mi scuso se non sono riuscito a scrivere, impaginare e pubblicare il nostro periodico per alcune settimane: non era mai accaduto! Posso dedicare all’Associazione solo il sabato e, trattandosi di un’opera di misericordia, anche parte della domenica. Tuttavia il lavoro settimanale è praticamente raddoppiato ed ho avuto bisogno di riposare. Le opere di misericordia, difatti, devono dare frutto anche a chi le compie e non possono assolutamente rappresentare un ostacolo per il regolare e corretto adempimento dei doveri del proprio stato. Grandi Santi ammonivano quei soggetti che trascurano i figli, la casa, la pulizia, il lavoro e gli altri doveri, per dedicarsi esclusivamente alla beneficenza, alle devozioni ed ai pellegrinaggi: mentre il cristiano deve essere, con l’aiuto di Dio e del buon Confessore, una persona responsabile ed equilibrata. La nostra Associazione non si è, però, fermata ed abbiamo realizzato il DVD del «Dizionario di Erudizione Storico-Ecclesiastica» a cura del compianto erudito Cav. Gaetano Moroni. È possibile richiedere questa preziosa raccolta (ben 109 volumi - digitalizzati e riconosciuti in OCR) cliccando qui

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Torniamo ad usare la «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti per parlare della Trasfigurazione, dell’indemoniato epilettico e degli ultimi giorni di Gesù in Galilea.

La Trasfigurazione. § 402. Com’era da aspettarsi, le energiche rettificazioni messianiche depressero l’animo dei discepoli; quei focosi Galilei di pretto sangue giudaico ne rimasero sconcertati e abbattuti. La medicina per rianimarli fu somministrata da Gesù mediante la sua trasfigurazione, avvenuta sei giorni (circa otto giorni, secondo Luca) dopo la manifestazione messianica. La scena è collocata dagli Evangelisti su un monte eccelso, di cui però non ci è trasmesso il nome. Molti studiosi moderni pensano che fosse l’Hermon, la cui cima più elevata raggiunge i 2.759 metri sul Mediterraneo, e che offrirebbe la congruenza di stare immediatamente sopra Cesarea di Filippo dove era avvenuta la manifestazione messianica. Ma, oltreché l’ascesa del monte è faticosa e richiede tra andare e tornare una buona giornata, sta il fatto che si tratta di una congettura del tutto recente: l’antichità, invece, non ha ricollegato la trasfigurazione con l’Hermon, sebbene una provocazione a tale ricollegamento fosse offerta a menti mistiche dal passo del Salmo 89, 13 (ebr.): «Il Tabor e l’Hermon nel nome tuo esulteranno». Al contrario, sul primo di questi due monti si è accentrata una tradizione che risale al secolo IV. Il Tabor non è per noi moderni un monte eccelso, essendo alto 562 metri dal Mediterraneo e 600-620 metri dalle valli circostanti (che sono più basse del Mediterraneo); ma per gli antichi poteva ben passare per un monte assai alto, essendo totalmente isolato e scorgendosi dalla sua cima buona parte della Galilea. Un’altra difficoltà è che la sua cima era forse abitata, e perciò non offriva quella solitudine che sembra richiesta dalla scena della trasfigurazione; ma anche questa difficoltà non è insormontabile: la cima doveva essere abitata in occasioni di torbidi e di guerre, riducendosi facilmente a fortezza come avvenne verso il 218 av. Cr. sotto Antioco III il Grande (cfr. Polibio, V, 70) e al tempo della guerra di Vespasiano quando fu fortificata da Flavio Giuseppe che ne parla a lungo (Guerra giud., IV 54-61); fuor di questi tempi la cima doveva essere in stato d’abbandono, soprattutto perché l’intero monte, oltre ad essere scosceso e sassoso, è assolutamente privo di acqua. Quanto alla distanza del Tabor da Cesarea di Filippo, poteva essere superata senza difficoltà nei 6 (o 8) giorni indicati. - Ovunque poi avvenisse il fatto, esso si svolse in questo modo.

• § 403. Fra i disanimati discepoli Gesù prese con sé i tre prediletti, ossia Pietro e i fratelli Giacomo e Giovanni, e li condusse sul monte. La strada lunga, la salita faticosa, la stagione estiva contribuirono a far si che i viandanti giungessero sul posto assai stanchi: probabilmente giunsero di sera, cosicché i tre discepoli,  preparatosi alla meglio un giaciglio, si misero a dormire (Luca, 9, 32): Gesù invece, com’era solito di notte, si mise a pregare (ivi, 29) a breve distanza da loro. A un tratto i visi dei dormienti sono inondati d’una luce vivissima: aprono essi gli occhi, e scorgono Gesù in aspetto tutto diverso dal solito. Stava egli là «trasfigurato davanti a loro, e lampante era il suo viso come il sole, e le sue vesti divenute bianche come la luce» (Matteo, 17, 2). Quando i risvegliati, che erano «aggravati di sonno» (Luca, 9, 32), ebbero adattato alla meglio la vista e l’animo alla folgoreggiante visione, riconobbero presso il trasfigurato anche Mosè ed Elia, i quali parlavano con lui della sua «dipartita, che stava per compiere in Gerusalemme» (Luca, 9, 31). Il discorso fra i tre dura più o meno tempo, e a un certo punto Mosè ed Elia fanno come atto di allontanarsi. Allora il solito Pietro crede opportuno intervenire e dice a Gesù: Rabbi! Noi stiamo bene qui! E possiamo fare tre tende, una a te, una a Mosè e una a Elia!». Il bravo Pietro ripensa forse con rammarico di aver provveduto soltanto al suo proprio giaciglio dopo il faticoso cammino, trascurando quello per Gesù: che adesso si mostra in quell’aspetto e in compagnia di quegli insigni visitatori; ma l’Evangelista interprete di Pietro ha aggiunto subito appresso la vera spiegazione, udita certamente più volte dalla bocca di Pietro: «Non sapeva infatti che cosa dicesse; giacché erano sgomentati» (Marco, 9, 6). Pietro non riceve risposta, perché una luminosa nube li avvolge tutti e nella nube risuona una voce: «Questo è il figlio mio diletto, in cui mi compiaccio qui. Ascoltatelo!». I tre discepoli, ancor più sgomentati, si prosternano con la faccia a terra, ma poco dopo Gesù va verso di loro, li tocca e dice: «Alzatevi, e non temete!». Guardando attorno, essi non vedono più nessuno, salvo Gesù nel suo aspetto abituale. Il giorno appresso, scendendo dal monte, Gesù ordina loro: «Non dite a nessuno la visione, fino a che il figlio dell’uomo sia risuscitato dai morti!».

• § 404. È inutile ricordare che per i razionalisti il racconto della trasfigurazione non ha nulla di storico, ed è o una allucinazione, o una elaborazione mitica, o un simbolo, e simili. Tuttavia un rappresentativo razionalista ne ha esattamente riconosciuto il valore concettuale, affermando che «la trasfigurazione del Cristo si ricollega strettamente, nel quadro sinottico, con l’annunzio della sua passione e della sua resurrezione gloriosa. Essa corregge la prospettiva dei dolori, e prelude al trionfo» (Loisy). È esatto (questa volta il pessimo Loisy non dice solo sciocchezze, ndR), sebbene non del tutto completo: infatti anche la (reale) presenza di Mosè ed Elia, rappresentanti rispettivamente della Legge e dei Profeti, ha un suo particolare valore, volendo dimostrare che la Legge ed i Profeti dell’Antico Testamento hanno per loro ultima mira il Messia Gesù: e ciò corrisponde a quanto Gesù aveva detto nel Discorso della montagna, di non essere venuto «ad abolire la Legge o i Profeti... bensì a compiere» (§ 323). Sotto un certo aspetto, la trasfigurazione di Gesù è anche un contrapposto alla sua tentazione (§ 271 segg.). Più direttamente, è un correttivo all’effetto deprimente che le rettificazioni messianiche avevano prodotto sui discepoli, ma nello stesso tempo è una conferma di quelle rettificazioni. Gesù Messia, anche sfolgorante di luce, parla con Mosè ed Elia della sua dipartita, ossia morte, che sta per occorrergli a Gerusalemme, come se quella morte sia per lui il passaggio necessario onde entrare nella sua gloria manifesta. Quando egli avrà superato quel passaggio e sarà già entrato nella sua gloria, rimprovererà a certi suoi tardi discepoli: «O stolti e lenti di cuore a credere...; non doveva forse patire tali cose il Cristo (Messia), e (così) entrare nella sua gloria?» (§ 630). In tal modo la medicina somministrata fece senza dubbio il suo effetto, rianimando i discepoli, ma insieme moltiplicò in essi talune ansie ed incertezze. Perché quella proibizione di parlare ad altri della visione? E il permesso di parlarne solo dopo che il figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti, a quale avvenimento futuro si riferiva? Si era dunque veramente alla vigilia della palingenesi cosmica e della resurrezione dei morti accennate dalle antiche profezie (Isaia, 26, 19; Ezechiele, 37; Daniele, 12, 1-3)? Ma allora perché Elia non compariva stabilmente - e non fugacemente come nella visione - per disporre i preparativi della grande palingenesi? Con quest’ultima questione cominciarono i discepoli, e chiesero a Gesù: «Perché dunque gli Scribi dicono che Elia deve venire dapprima?» (Matteo, 17, 10). Gesù rispose confermando ma insieme schiarendo: Elia, sì, deve venire a predisporre tutto; ma esso è già venuto, e gli hanno fatto tutto il male che hanno voluto: così anche il figlio dell’uomo dovrà soffrire e ricevere il male da quelli. «Allora i discepoli capirono che di Giovanni il Battista parlò ad essi» (ivi, 13).

L’indemoniato epilettico. § 405. Scesi alle falde del monte, i quattro raggiunsero ben presto gli altri Apostoli rimasti alla pianura. Trovarono allora che i rimasti, forse in numero di nove, erano circondati da molta gente e da Scribi, con i quali stavano discutendo. Visto Gesù, uno della folla gli si fa innanzi dicendo: Ti ho portato mio figlio, l’unico che io abbia, ch’è posseduto da uno spirito maligno muto; quando se ne impadronisce, lo dilania, ed esso schiuma, digrigna i denti e s’irrigidisce. Ho pregato i tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti. Questo fallimento aveva forse provocato la discussione con gli Scribi, i quali non avranno mancato di dir la loro parola maligna sui discepoli e anche sul maestro assente. Ma adesso egli è presente, e saputo di che si tratta esclama: «O generazione priva di fede, fino a quando sarò presso di voi? Fino a quando vi sopporterò?». Poi, cercando con lo sguardo il giovanetto: «Portatelo a me! (Marco, 9, 19). La fede era per Gesù condizione essenziale per i miracoli; ed egli ne deplorava la mancanza sia presso gli Scribi e il padre del giovanetto, sia presso gli Apostoli il cui fallimento tradiva in essi una fede fiacca e tentennante. Fino a quando dovrà Gesù sopportare quella mancanza o fiacchezza di fede? Il giovanetto fu portato a Gesù; ma, alla presenza del taumaturgo, fu subito preso da una crisi parossistica, e stramazzò a terra dibattendosi, rantolando e spumando. Durante l’attacco Gesù volle interrogare il padre, non tanto come medico che cerchi di stabilire una diagnosi, quanto per far risaltare agli occhi dei presenti il valore del “segno” che si accingeva a compiere e per indurli a riflettere sulla loro mancanza di fede. «Quanto tempo è che gli successe questo?». Il padre rispose: «Dalla fanciullezza; spesso il maligno spirito lo getta nel fuoco o nell’acqua. Se puoi far qualcosa, vieni in nostro aiuto, avendo pietà di noi!». - Le parole del povero padre tradivano ancora una titubanza di fede, nonostante la deplorazione di Gesù. Perciò Gesù gli disse: «Quanto al “se puoi“, tutto è possibile a chi ha fede!» (Marco, 9, 23, greco). La scena che successe a queste parole, delineata dallo stile di San Marco conforme alle parole di San Pietro, è di una vivezza palpitante. «Subito, gridando, il padre del ragazzetto diceva (con lacrime): “Ho fede! Soccorri alla mia mancanza di fede!”. Vedendo però Gesù che affluisce folla correndo, intimò allo spirito impuro dicendogli: “Spirito muto e sordo, io t’impongo, esci da costui e non entrare mai più in esso!”. E dopo aver gridato e molto sbattuto(lo), (lo spirito) uscì. E (il ragazzetto) diventò come un cadavere, tanto che molti dicevano: “È morto!”. Gesù, invece, prendendogli la mano, lo rialzò e (quello) si levò ritto». L’Evangelista medico ha la finezza di aggiungere che Gesù lo rese a suo padre. Gli Apostoli, già rimasti delusi, non potevano rinunziare a indagare la causa della delusione; avvicinatisi in privato a Gesù gli dissero: «Perché noialtri non potemmo scacciarlo?». E Gesù di rimando: «Per la vostra scarsezza di fede! In verità infatti vi dico, se abbiate fede quanto un chicco di senapa, direte a questo monte “Passa oltre da qua a là!” e passerà oltre, e nulla vi sarà impossibile». Del chicco di senapa Gesù già aveva parlato nella sua parabola (§ 368); questo monte a cui alludeva era forse il Tabor, la cui mole s’ergeva davanti a loro; quanto alla necessità della fede per ottenere miracoli Gesù vi aveva insistito più volte nel passato (§ 349 segg.), ma la sua lezione aveva prodotto scarsi frutti.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.