Comunicato numero 165. La vera docenza di Gesù su matrimonio e divorzioStimati Associati e gentili Sostenitori, il naturale e ciclico caldo di stagione è finalmente giunto. Le nostre città sono sempre più torride ed il clima è sfiancante. Raccomandiamo, dunque, nervi saldi, temperanza, igiene del corpo e modestia nel vestire: il buon cristiano si riconosce anche da questo. La morale cristiana - recita il Roberti-Palazzini (Teologia morale, imprimatur 1957, pag. 1531) - permette ed esige una cura ragionevole, moderata del vestire, ordinata al suo giusto fine, entro determinati limiti (differenti secondo la condizione sociale della persona), senza esagerazione o negligenza, e conforme alle prescrizioni dell’igiene e della modestia. Il disordine nel vestire, dunque, proviene dall’offendere o dal non soddisfare al suo fine, o dall’oltrepassare i giusti limiti. In pratica un vestito può essere illecito a causa: 1) o del fine disordinato (immoderato gusto di piacere o di attirare gli sguardi, seduzione ecc.); 2) o dell’effetto anche se preterintenzionalmente provocato (danni economici, fisici e specialmente morali). Ci torneremo nell’articolo che segue.

• Veniamo, adesso, al nostro abituale studio della Sacra Scrittura e, più precisamente, della «Vita di Gesù Cristo» secondo gli insegnamenti dell’Abate Ricciotti. § 479. A questo punto, nella serie dei fatti, Luca cede il passo a Matteo e Marco per la questione del divorzio; di tale questione Luca (16, 18) dà soltanto la sentenza conclusiva di Gesù, senza alcun accenno alle circostanze e senza collegamento nel contesto immediato: invece Matteo e Marco comunicano le circostanze della questione. D’altra parte, Luca concorda con gli altri due Sinottici nel riferire l’accoglienza fatta da Gesù ai fanciulli, la quale dai due è posta immediatamente dopo la questione del divorzio; è dunque spontaneo concludere che tale questione - omessa da Luca perché forse la ritenne inutile per i suoi lettori pagani - avvenisse immediatamente prima dell’accoglienza fatta ai fanciulli. Si avvicinarono pertanto i Farisei e proposero a Gesù la seguente questione: «Se è lecito rimandare la propria moglie per qualsiasi causa?» (Matteo, 19, 3). L’Evangelista ha avvertito che i Farisei facevano questa domanda per tentare Gesù. Era infatti una questione vecchia, già trattata nelle scuole rabbiniche prima di Gesù e prolungatasi anche dopo. Nella Legge di Mosè il divorzio era stato concesso, solo ad iniziativa del marito, con queste parole: «Quando un uomo prende moglie e ne diventa marito, e avvenga che ella non trovi grazia negli occhi di lui, bensì egli trovi in lei alcunché di turpe, egli scriverà per lei il libello di ripudio e lo consegnerà in mano a lei, e la rimanderà da casa sua» (Deuteronomio, 24, 1); il libello di ripudio permetteva alla divorziata di contrarre nuovo matrimonio, ma dopo questo matrimonio - cessato che fosse per morte del nuovo coniuge o per nuovo divorzio - il primo marito non poteva più riprendere con sé la donna divorziata (ivi, 24, 2-4). I rabbini erano fieri di questa facoltà di divorzio e la ritenevano una prerogativa concessa da Dio al solo popolo d’Israele ma non ai pagani; la divergenza nasceva tra loro quando si trattava di definire la ragione sufficiente per ammettere il divorzio, ragione accennata dalla Legge con le parole «alcunché di turpe» trovato dal marito nella moglie. Stando a quanto riferisce la Mishna (Ghittīn, IX; 10), le scuole dei due grandi maestri pre-cristiani Shammai e Hillel prendevano qui, come in altri casi, posizione contraria: gli Shammaiti interpretavano la ragione addotta dalla Legge in senso morale, cosicché secondo essi «alcunché di turpe» alludeva all’adulterio, che era il caso autorizzante il divorzio; gli Hilleliani la interpretavano in senso molto più largo, come riferita a tutto ciò che fosse sconveniente nella vita familiare o civile, e portavano l’esempio di una moglie che lasciasse bruciare una pietanza meritandosi perciò il divorzio. Più tardi Rabbi Aqiba andrà anche più in là, affermando che ragione sufficiente per il divorzio era se il marito trovava una donna più bella della propria moglie. È difficile dire se i Farisei che proposero la questione a Gesù fossero Shammaiti o Hilleliani. Le loro parole «è lecito rimandare (...) per qualsiasi causa?» alludono certamente alla dottrina lassista degli Hilleliani: ma questa allusione vuol essere un invito ad accettare la stessa dottrina, ovvero un ammonimento per respingerla? In altre parole, sono i lassisti Hilleliani che sperano trarre Gesù dalla loro parte, ovvero sono i rigoristi Shammaiti che sperano udire da Gesù una condanna della dottrina lassista? Gesù, come in altri casi, passa sopra ad Hilleliani e Shammaiti e si riporta alle origini della questione. Egli rispondendo disse: «Non leggeste che chi creò dapprincipio “maschio e femmina li fece”, e disse: “A causa di ciò abbandonerà l’uomo il padre e la madre e s’attaccherà alla propria moglie, e saranno i due in una sola carne”?» (Genesi, 1, 27; 2, 24). Cosicché non sono più due, ma una sola carne. Ciò dunque che Iddio congiunse, uomo non separi» (Matteo, 19, 4-7). Con questa risposta, e specialmente con il suo periodo conclusivo, l’istituzione del matrimonio è investigata nelle sue stesse origini, anteriori a qualsiasi disputa umana ed anche alla Legislazione di Mosè: con la doppia citazione del Genesi è chiamato in causa Iddio stesso, creatore del genere umano ed istitutore del matrimonio, e la conclusione è che ciò che Iddio congiunse, uomo non separi.

• § 480. La replica dei Farisei era prevedibile. Risposero infatti: «Perché, dunque, Mosè comandò di “dare un libello di ripudio e rimandare”» (Deuter., 24, 1)? Non era il divorzio un privilegio degli Israeliti? Non era stato contemplato e regolato nella stessa Legge di Mosè? Se valeva la norma di Gesù «uomo non separi», bisognava rinunziare al privilegio del divorzio: il che, per quei Farisei, era un assurdo. Alla difficoltà legale oppostagli, Gesù rispose rettificando; non si trattava di un privilegio, bensì di una tolleranza, carpita dalle condizioni personali dei destinatari e concessa per timore di peggio. Disse loro: «Mosè, a cagione della vostra durezza di cuore, vi concesse di rimandare le vostre mogli: ma da principio non fu cosi». Con quest’ultimo appello, la questione era riportata ancora una volta alle sue origini. Al rinnovato appello segue in Matteo un periodo sostanzialmente parallelo a quello da lui riportato nel Discorso della montagna (§ 325). Matteo (19, 9): «Ma io vi dico che chiunque rimandi la sua moglie, non per fornicazione, e sposi un’altra commette adulterio». Discorso della Montagna: «Ma io vi dico che chiunque rimandi la sua moglie, eccettuato (il) caso di fornicazione, fa ch’ella sia resa adultera, e chi sposi una (donna) rimandata commette adulterio». La stessa sentenza di Gesù si ritrova negli altri due Sinottici, presso i quali, tuttavia, manca il comma restrittivo «non per fornicazione», ovvero «eccettuato (il) caso di fornicazione». Marco (10, 11-12): «Chi rimandi la sua moglie e sposi un’altra, commette adulterio contro di lei; se ella, rimandato suo marito, sposi un altro, commette adulterio». Luca (16, 18): «Chiunque rimanda la sua moglie e sposa un’altra, commette adulterio; e chi sposa una rimandata dal marito, commette adulterio». A questi due Sinottici si deve aggiungere San Paolo, come testimonio anche anteriore (§ 102) della primitiva catechesi cristiana, il quale scrive: «Agli sposati comando, non io ma il Signore, che la donna non si separi dall’uomo - che se poi si è separata, rimanga senza sposare, oppure si riconcilii con l’uomo - e che (l’) uomo non rimandi (la) donna» (I Corinti, 7, 10-11). Nel qual passo San Paolo distingue chiaramente la «separazione» dei due coniugi dal «rimando» della donna o divorzio; egli ammette la possibilità del primo caso, purché la donna non passi a nuove nozze; nega invece semplicemente la liceità del divorzio. La primitiva catechesi, dunque, è per noi rappresentata da due gruppi di testimonianze. Uno è quello di Matteo, che si ripete due volte (5, 32; 19, 9); l’altro è costituito dalle testimonianze di Marco, Luca e Paolo. Il primo gruppo ha il comma restrittivo; il secondo non ha questo comma. In che relazione stanno tra loro questi due gruppi? Esiste contraddizione tra loro? Parecchi critici radicali vi hanno scorto una contraddizione. Essi riconoscono che la primitiva catechesi non ammetteva il divorzio neppure nel caso d’adulterio, secondo le concordi testimonianze di Marco, Luca e Paolo; ma poiché in Matteo si trova il comma restrittivo che sembra ammettere il divorzio in tale caso, hanno risolto la difficoltà col solito metodo di dichiarare quel comma un’interpolazione: «esso - dicono i radicali - sarebbe stato aggiunto nel testo di Matteo alle parole di Gesù per andare incontro alle esigenze di Giudei fattisi Cristiani, i quali non sarebbero stati disposti a rinunziare al divorzio in caso di infedeltà della moglie». Metodo certamente assai agevole, e che per giunta in questo caso sarebbe comodissimo ai Cattolici; ma anche metodo arbitrario, se non è suffragato - come non è nel presente caso - da nessun documento, e che inoltre va contro alla norma secondo cui il testo più difficile è di solito da preferirsi, come migliore di quello più facile. Qui, appunto, il testo di Matteo, con la sua particolare difficoltà, ha tutte le apparenze di aver conservato meglio l’insieme delle parole di Gesù. Ma qual è il vero senso del comma in questione?

• § 481. Si noti che i Farisei hanno domandato a Gesù «se è lecito rimandare la propria moglie per qualsiasi causa», intendendo senza dubbio il divorzio ebraico; Gesù, in risposta, ha dichiarato lecito tale rimando nel solo caso di fornicazione (adulterio) della donna. Con tale dichiarazione Gesù si è staccato doppiamente dalla Legislazione ebraica: in primo luogo perché in quella Legislazione alla donna adultera era comminata la morte (§ 426) e non il divorzio: in secondo luogo, perché egli non permette al marito che ha rimandato la moglie per adulterio di sposare altra donna, e ciò in perfetta armonia col principio da lui testé enunziato secondo cui «ciò che Iddio con giunse, uomo non separi». Dunque, anche se gli interroganti intendevano riferirsi al vero divorzio ebraico, Gesù non ha concesso tale divorzio neppure nel caso di adulterio, perché il marito in questione non può sposare altra donna, ossia non ha divorziato. Gesù, dunque, ha concesso non il «divorzio» bensì la «separazione». Ma i Giudei sapevano distinguere tra «divorzio» e «separazione»? Qualunque fossero in proposito i loro concetti puramente giuridici (dei quali non siamo sicuramente informati), è certo che in pratica si conosceva e si eseguiva la «separazione» di due coniugi rimanendo essi tali. Il citato passo di San Paolo (§ 480) è decisivo in proposito La stessa Sacra Scrittura narrava un esempio, sebbene antico, in cui la stizzosa moglie di un Levita dopo un litigio si era separata da lui per quattro mesi rifugiandosi presso il proprio padre, dopo di che il marito era andato a rappacificarla inducendola a ritornare presso di lui [Il celebre episodio del Levita di Efraim, Giudici, 19, 1 segg.]. Più forti ancora di queste ragioni sono in primo luogo la circostanza che Marco e Luca non riportano affatto il comma restrittivo [caso di adulterio], appunto perché la primitiva catechesi stimò che esso non era di alcun valore contro l’indissolubilità del matrimonio e in favore del divorzio ebraico: in secondo luogo l’altra circostanza che i discepoli di Gesù, nella loro mentalità ebraica, valutarono appieno l’intransigenza della norma da lui esposta.

• § 482. Terminata infatti la lezione ai Farisei, i discepoli tornarono sulla questione dolorosa della moglie (qualcuno di essi, come Pietro, era ammogliato) interrogandone Gesù privatamente in casa (Marco, 10, 10). Un’esclamazione sommamente spontanea venne allora su dal profondo del loro cuore: «Se in tal modo è la condizione dell’uomo con la moglie, non mette conto sposare!». L’intransigenza era stata capita benissimo dai discepoli; adesso, secondo Gesù, un marito non solo non poteva più far divorzio dalla moglie dopo la bruciatura di una pietanza, come permetteva Hillel, ma doveva ritenersi irrimediabilmente legato ad essa perfino dopo l’adulterio di lei. Le menti giudaiche dei discepoli ne rimasero perturbate: Gesù avrà avuto certamente ragione ed Hillel [aveva torto], ma in tal caso essi stimavano che era preferibile non legarsi a nessuna donna e non sposare affatto. Gesù, dal canto suo, lungi dal temperare la sua precedente intransigenza, giudicò troppo generica l’esclamazione degli sconcertati discepoli, dichiarandola adatta per alcuni e disadatta per altri. I singoli individui del genere umano non sono, per Gesù, tutti egualmente disposti di fronte a tale questione: essi si raggruppano in più categorie, alle quali non si può imporre [un unico e comune stato di vita]. Alcuni potranno ripetere con libera e piena adesione di coscienza l’esclamazione dei discepoli, e questi sono i privilegiati; altri la ripetono per una necessità buona o cattiva imposta dalla natura o dalla società umana, e questi sono i forzati; altri non la ripetono affatto, e questi prendono moglie. Di questi ultimi non si occupa qui Gesù, che vuole mostrare ai discepoli i pregi del celibato scelto liberamente e per uno scopo religioso [non per evitare di tenere in moglie un’adultera]. Egli però disse loro: «Non tutti capiscono questa parola, ma (solo) coloro ai quali è dato (capirla). Vi sono infatti eunuchi che dal seno della madre furono generati così; e vi sono eunuchi che furono resi eunuchi dagli uomini; e vi sono eunuchi che si resero eunuchi da se stessi per il regno dei cieli. Chi può capire capisca». Non si tratta dunque di una legge [quella del celibato] data a tutti; si tratta di una proposta vantaggiosa per il regno dei cieli offerta a chi può capirla, e che possono capire (solo) coloro ai quali è dato (capirla). Gli altri agiscano liberamente, e prendano pur moglie: a patto però che «ciò che Iddio congiunse, uomo non separi». Riassumendo, si trova che Gesù non ha affatto condannato il matrimonio, bensì lo ha riportato alla sua ragione e norma primitiva, pur avendolo posposto al celibato liberamente scelto per il regno di Dio. Una riprova se ne può vedere nel fatto che, subito dopo la disputa sul matrimonio, Matteo e Marco narrano l’accoglienza fatta da Gesù ai bambini (Luca ha l’accoglienza, ma non la disputa). I bambini sono i frutti dell’albero matrimoniale; e Gesù, che ha testé potato l’albero dai rami secchi e da vegetazioni parassitarie, fa festa a quei frutti riserbando a quei piccoli innocenti una predilezione somigliantissima, sebbene d’altro genere, a quella riserbata alle meretrici e ai pubblicani.

• § 483. «E recavano a lui dei fanciullini affinché li toccasse; ma i discepoli sgridavano quelli (che li recavano). Visto però (questo), Gesù si sdegnò e disse loro: “Lasciate che i fanciullini vengano a me [battezzate i bambini, ndR], non li impedite, perché di tali è il regno d’Iddio. In verità, vi dico, chi non accolga il regno d’Iddio come un fanciullino, non entrerà in esso” (cfr. § 408). E abbracciatili li benediceva, ponendo le mani su di essi» (Marco, 10,13-16). Fra questi fanciullini c’erano senza dubbio sia maschi che femmine, e Gesù li abbracciava tutti con eguale affetto. Ora, un trentennio prima di questa scena, e precisamente nell’anno I avanti Cristo, un contadino egiziano che si era allontanato da casa sua per ragioni di lavoro, aveva scritto a sua moglie, lasciata da lui gravida, una lettera conservataci fra i papiri recentemente recuperati; la lettera finisce con questo comando dato alla futura madre: «Quando avrai partorito il bambino, se è maschio, allevalo; se è femmina, ammazzala» (Oxyrhyncus Papyri, IV, n. 744). Né quel contadino agiva diversamente da tanti altri padri di quei tempi [e prima della Cristianità], in Egitto e fuori.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.