Comunicato numero 169. Caifa delibera di uccidere Gesù

Stimati Associati e gentili Sostenitori, in questo periodo ci siamo dedicati al noioso adeguamento della nostra struttura associativa alle nuove leggi che regolamenteranno il Terzo Settore. Siamo, fra le altre novità rilevanti, diventati O.d.V., Organizzazione di Volontariato, ed abbiamo rimosso l’acronimo di Onlus, categoria che il Legislatore ha deciso di eliminare. Quando entrerà in vigore il nuovo Registro Unico del Terzo Settore, assumeremo anche l’acronimo di E.T.S. (Ente del Terzo Settore). Nella pratica nulla è cambiato quanto ai programmi dell’Associazione, alle nostre intenzioni ed alle attività in essere. Vi terremo aggiornati. Il tema di oggi è «Gesù ad Efraim e a Gerico» da «Vita di Gesù Cristo», Abate Giuseppe Ricciotti.

• § 494. I maggiorenti Giudei di Gerusalemme presero molto sul serio la denunzia fatta dai testimoni della resurrezione di Lazaro. I Farisei, impensieriti, si rivolsero ai sommi sacerdoti che dovevano decidere in proposito, e fu adunata un’assemblea, alla quale certamente presero parte molti membri del Sinedrio. Fu proposta la questione: «Che facciamo? Giacché quest’uomo fa molti portenti! Se lo lasciamo (agire) così, tutti crederanno in lui; e (allora) verranno i Romani e distruggeranno sia il luogo (santo) sia la nazione nostra». I partecipanti all’assemblea non discutono affatto la realtà dei miracoli di Gesù e specialmente dell’ultimo; ma già da tempo comparivano taumaturghi presentandosi quali inviati da Dio e predicando rivoluzioni fra il popolo (§ 433), che Gesù è considerato come uno di essi: anzi egli ha l’aggravante di compiere portenti più numerosi e strepitosi, e quindi tali da attirare anche più l’attenzione dei Romani. Costoro in realtà erano già padroni della Palestina, sebbene non s’immischiassero nelle questioni del luogo (santo), ossia del Tempio, e avessero lasciato alla nazione una certa autonomia interna (§ 22); tuttavia cominciavano già ad essere seccati da quella processione interminabile di taumaturghi rivoluzionari, e forse appunto questo galileo di Gesù li avrebbe indotti a reagire con severità estrema troncando una volta per sempre la fastidiosa processione. Gli eventi immediati si potevano prevedere facilmente: Gesù avrebbe continuato ad operare i suoi sbalorditivi miracoli; le folle sarebbero accorse in massa a lui; tutti d’accordo lo avrebbero proclamato re d’Israele in contrapposto al procuratore di Gerusalemme e all’imperatore di Roma; contro i sediziosi sarebbero accorse le coorti romane di stanza in Palestina ed eventualmente anche le legioni di Siria; sarebbe successa prima una strage di Giudei e poi anche la distruzione del luogo (santo) e della nazione intera. Il pericolo era grave ed imminente: bisognava provvedere subito. All’assemblea partecipava il sommo sacerdote allora in carica, Caifa (§ 52), il quale dopo aver ascoltato per qualche tempo le proposte che venivano fatte, espresse il suo parere con l’imperiosità permessagli dal proprio ufficio: «Voi non sapete nulla! Né riflettete che per voi è conveniente che muoia un solo uomo per il popolo, e non perisca l’intera nazione». Caifa non aveva nominato alcuno, ma tutti capirono: il solo uomo che doveva morire per il popolo era Gesù. È vero che Gesù non era uno sconvolgitore di popolo e non si era mai occupato di politica; è vero che egli era innocente, come probabilmente avevano fatto notare poco prima anche alcuni dell’assemblea stessa: ma che importava tutto ciò? Se egli moriva, l’intera nazione sarebbe scampata alla rovina, e ciò era ragione sufficiente perché egli morisse. Dicendo questo, Caifa aveva parlato soltanto come uomo politico e nell’interesse della sua casta sacerdotale sadducea, interesse che qui concordava pienamente con quello dei Farisei. Tuttavia l’Evangelista scorge nelle sue parole un senso ben più alto, e lo esprime con questa osservazione: «Ora ciò non disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote di quell’anno profetò che Gesù doveva morire per la nazione, e non per la nazione soltanto, ma affinché anche i figli d’Iddio dispersi radunasse (egli) in unità». La frase «essendo sommo sacerdote di quell’anno» ha dato occasione ad accusare l’Evangelista di non sapere che l’ufficio del sommo sacerdote non era annuale. Veramente non si trattava di una notizia peregrina, poiché qualunque lettore dell’Antico Testamento sapeva che quell’ufficio era a vita, sebbene ai tempi di Gesù - come già rilevammo (§ 50) - assai raramente i sommi sacerdoti morissero in carica; perciò San Giovanni, avendo presente questo abuso invalso ai suoi tempi, vuole soltanto dire che in quell’anno solenne in cui morì Gesù era Caifa il sommo sacerdote legittimo, e come tale pronunziò quelle parole che a sua insaputa avevano un significato ben più alto di quello da lui inteso. Agli occhi di San Giovanni quell’ultimo sommo sacerdote dell’antica Legge decade in quell’anno stesso, in cui è stabilita la nuova Legge per mezzo del Messia Gesù; ma prima di decadere, in forza del suo legittimo ufficio, egli rende omaggio ufficiale all’istitutore della nuova Legge, proclamandolo inconsciamente vittima di salvezza per la nazione d’Israele e per tutte le altre della terra. La decisione presa dall’assemblea fu conforme al suggerimento dato da Caifa: Da quel giorno, pertanto, deliberarono di ucciderlo. Questa deliberazione fu probabilmente comunicata, o agli Apostoli o a Gesù stesso, da qualche persona benevola che l’aveva risaputa. Gesù allora non si mostrò più in pubblico, e allontanandosi dalla zona di Gerusalemme si ritirò con i suoi discepoli in una città detta Efraim, che, riconosciuta già nel secolo IV (cfr. Eusebio, Onomasticon, 90), corrisponde quasi certamente all’odierna Taijibeh, circa 25 chilometri a settentrione di Gerusalemme sui margini del deserto. Era abitudine di Gesù ritirarsi in luoghi solitari alla vigilia di avvenimenti importanti per la sua missione.

• § 495. Ad Efraim Gesù rimane non molti giorni. La Pasqua s’avvicinava, e già cominciavano a passare le prime comitive avviate a Gerusalemme. Nella città santa si aspettava da un momento all’altro l’arrivo anche di lui. Ad ogni modo, per far si che la deliberazione dell’assemblea non rimanesse un vano desiderio, i sommi sacerdoti e i Farisei avevano dato comandi affinché, «se alcuno conoscesse dov’era, (lo) indicasse, cosicché lo catturassero» (Giovanni, 11, 57). Nonostante questi ordini, uno dei primi giorni del mese Nisan dell’anno 30, Gesù abbandonò il suo ritiro di Efraim e si mise in viaggio verso Gerusalemme seguendo la strada più lunga che a fianco al Giordano passava per Gerico. I discepoli fiutavano nell’aria sentore di tragedia, e ciò li faceva camminare riluttanti sebbene fossero preceduti da chi non mostrava riluttanza: «erano nella strada per salire a Gerusalemme, e Gesù andava avanti a loro, ed (essi ne) stupivano; coloro poi che seguivano, avevano paura» (Marco, 10, 32). La carovana era formata come da due gruppi: il primo era degli Apostoli con qualche altro discepolo più antico ed affezionato, e questo gruppo era preceduto da Gesù che camminava distaccato in avanti tutto solo, tanto che essi ne stupivano; il secondo gruppo, di quelli che seguivano a qualche distanza, era formato da altri discepoli più recenti, mescolatisi forse con pellegrini pasquali che già conoscevano Gesù e s’interessavano di lui: soprattutto i componenti di questo secondo gruppo avevano paura. Lontano, verso destra, si profilavano le colline di Gerusalemme. A un certo punto Gesù, fattisi venire dappresso con un gesto i dodici Apostoli, cominciò a dir loro le cose che stavano per accadergli: «Ecco, saliamo a Gerusalemme, e il figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli Scribi, e lo condanneranno a morte, e lo consegneranno ai pagani, e lo beffeggeranno e lo sputacchieranno e lo flagelleranno e uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà». L’annunzio non era nuovo (§ § 400, 475), ma in quelle circostanze era opportunamente rinnovato: essendo imminente il tempo in cui Gesù avrebbe palesato universalmente la sua qualità di Messia, era opportuno richiamare alla memoria le precedenti rettificazioni messianiche. Ma anche quella volta esse giovarono ben poco. San Luca (18, 34) pazientemente ci fa sapere che i dodici «non capirono nulla di queste cose, ed era questa sentenza nascosta per essi; e non conoscevano le cose che erano dette». Quanto fosse grossolana e massiccia questa incomprensione apparve in una scenetta avvenuta subito appresso.

• § 496. Fra i convocati da Gesù che non capirono nulla del suo annunzio, erano i due fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, mentre nel secondo gruppo che seguiva Gesù si trovava la loro madre, ch’era forse una di quelle buone massaie che provvedevano alle necessità materiali dei cooperatori di Gesù (§ 343). L’annunzio di Gesù dovette essere comunicato dai figli alla madre e ampiamente commentato da tutti e tre nella maniera più rosea e più falsa: si dovette parlare di Messia dominatore, di vittorie, di gloria, di trono, di corte e cortigiani, e degli altri sogni cari al messianismo politico: e giacché il tempo stringeva, i tre interlocutori giudicarono opportuno fare qualcosa per assicurarsi buone posizioni. Ecco perciò che, poco dopo, la madre accompagnata dai due figli si presenta umile e riverente a Gesù per rivolgergli una domanda; trattandosi di cosa assai importante, parlarono tutti e tre insieme interrompendosi tra loro, cosicché mentre San Matteo (20, 20 segg.) attribuisce l’interrogazione alla madre, San Marco (10, 35 segg.) l’attribuisce ai figli. - «Che vuoi? Che volete?» - dice Gesù. E allora la donna, aiutata dai figli, espone la domanda. Adesso che Gesù fonderà il suo regno a Gerusalemme, non dovrà trascurare quei due bravi giovanotti; essi gli sono stati sempre affezionati, e per amor suo hanno perfino abbandonato la casa e le barche del loro padre; dunque Gesù si mostri riconoscente, e nell’assegnare ai suoi seguaci i posti nella corte messianica collochi l’uno alla destra e l’altro alla sinistra del proprio trono; e per se stessa la madre non chiede niente, ma spera che prima di morire non le sia negata questa giusta consolazione di vedere i suoi due giovanotti nei migliori posti a fianco del Messia glorioso. La donna, rincalzata dai figli, ha finito di parlare. Gesù guarda a lungo tutti e tre, e poi con infinita pazienza dice ai giovani: «Non sapete quel che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati del battesimo onde io sono battezzato?». La gloria del Messia verrà, sì, ma prima egli deve bere un calice e ricevere una «immersione» che corrispondono appunto al tragico annunzio da lui dato testé agli Apostoli: prima della vita gloriosa, vi sarà la morte ignominiosa, e potranno essi affrontarla? I due giovani, con la baldanza dei fiduciosi, rispondono: «Possiamo!». Gesù inaspettatamente dà loro ragione, ma nello stesso tempo respinge la loro richiesta: Si, si, berrete il mio calice e riceverete il mio battesimo, ma non è in poter mio farvi sedere a destra o a sinistra: i posti saranno occupati da coloro per cui sono stati preparati dal Padre celeste. - L’annunzio del calice e del battesimo allude alle future prove dei due Apostoli (§ 156, nota): il restante della risposta distingue ciò che gli interroganti avevano confuso insieme, cioè il regno del Messia sulla terra e quello glorioso nei cieli. Il primo è nel “secolo” presente e sarà pieno di travagli e di persecuzioni (§ 486); il secondo si inaugurerà alla rigenerazione, e sarà prodotto dalla pazienza mostrata nei travagli e nelle persecuzioni del “secolo” presente: allora «il figlio dell’uomo sederà sul suo trono di gloria», ma gli altri seggi ai lati di quel trono saranno assegnati dal Padre celeste. Il dialoghetto ebbe un seguito. Gli altri Apostoli riseppero della cupida richiesta fatta a Gesù, e nella loro gelosia s’indignarono contro i richiedenti, mostrando così di condividerne le ambizioni. Gesù, radunati nuovamente attorno a sé i contendenti, li ammonì mostrandosi anche su questo punto il moralista capovolgitore (§ 318): fra le nazioni pagane i governanti spadroneggiano sugli altri e fanno sentire su loro il peso della propria autorità, ma fra i seguaci di Gesù chi vuol essere maggiore degli altri diventi minore e chi vuol primeggiare diventi lo schiavo di tutti, a imitazione appunto di Gesù che «non venne ad esser servito ma a servire, e a dar la sua vita a riscatto (da schiavitù) in favore di molti» (Matteo, 20, 25-28). Gesù si era già presentato come buon pastore che serve tutta la giornata il suo numeroso gregge e dà la propria vita per esso (§ 434); qui egli riprende quest’ultima idea ed afferma che dà la sua vita a riscatto della schiavitù in favore dei molti suoi seguaci. È la dottrina su cui particolarmente insisterà più tardi San Paolo.

• § 497. Seguendo la strada suddetta, Gesù giunse a Gerico. L’aristocratica città contemporanea era un vero luogo di delizie specialmente d’inverno, perché vi aveva ampiamente esercitato la sua passione di grande costruttore ellenistico Erode il Grande, e dopo di lui in minor parte anche suo figlio Archelao: vi si ammiravano un anfiteatro, un ippodromo, una reggia sontuosa totalmente ricostruita da Archelao, e ampie piscine ove confluivano le acque dei dintorni. Ma il posto di questa città non era quello dell’antica, la vecchia Gerico cananea, le cui rovine si trovavano a circa due chilometri più a settentrione, presso la fontana di Eliseo: le esecrate rovine della città distrutta da Giosuè erano rimaste lungo tempo disabitate, ma la vicinanza della preziosa fonte vi aveva poi richiamato gente e provocato il sorgere d’un certo numero d’abitazioni che ai tempi di Gesù valevano come sobborgo della Gerico contemporanea (cfr. Guerra giud., IV, 459 segg.). Chi dunque scendeva dal settentrione, come qui Gesù, passava prima attraverso questo sobborgo formatosi presso la Gerico antica, e dopo appena una mezz’ora di cammino entrava nella città erodiana, situata davanti all’imbocco della stretta valle (wadi el-Qelt) ove s’immetteva la strada per Gerusalemme. Durante questo passaggio di Gesù avvenne un fatto narrato con interessanti divergenze dai tre Sinottici (Matteo, 20, 20 segg.; Marco, 10, 46 segg.; Luca, 18, 35 segg.). Secondo San Matteo e San Marco il fatto avvenne quando Gesù era uscito da Gerico; secondo San Luca, quando egli vi si avvicinava. Inoltre, il fatto consiste secondo San Marco e San Luca nella guarigione di un cieco, che in San Marco è chiamato Bartimeo, «figlio di Timeo»; al contrario, secondo San Matteo, furono guariti due ciechi. La questione è antica, e ne furono proposte varie soluzioni, anche poco o nulla fondate; una di queste ultime è che i ciechi sarebbero stati tre, uno all’entrata in Gerico e due all’uscita. La soluzione migliore sembra esser quella che tiene conto della doppia Gerico, l’antica e l’erodiana: di un viandante che faceva il breve tragitto dall’una all’altra si poteva ben dire tanto che era uscito da Gerico (antica) quanto che si avvicinava a Gerico (erodiana). Quanto al numero dei ciechi guariti, se uno o due, la divergenza non è nuova, perché già la trovammo a proposito dell’energumeno di Gerasa che secondo il solo San Matteo aveva un compagno (§ 347); anche qui il solo Matteo enumera due ciechi innominati. Trasferendosi mentalmente a quei tempi, la divergenza si comprende: già notammo che in Palestina i ciechi spesso si uniscono a coppia per mutuo aiuto (§ 351), e il cieco più intraprendente della coppia ne è quasi la personificazione comune, mentre l’altro rimane come nascosto all’ombra di lui; qui si aveva la personificazione rappresentata da Bartimeo, ma l’accurato Matteo ricorda che questa personificazione comune era composta da due individui. Bartimeo dunque, assistito dal compagno minore, stava a limosinare lungo la strada. Sentendo dal calpestio che passava un folto gruppo di gente, domandò chi fossero; gli fu risposto che passava Gesù il Nazareno, certamente a lui già noto per la fama dei suoi miracoli. Ambedue i ciechi allora si dettero a gridare: «Signore, abbi pietà di noi, figlio di David!». Quelli della comitiva dettero loro sulla voce affinché tacessero, ma i due tanto più alzavano le loro grida insistendo nell’implorazione. A un tratto Gesù si fermò e dette ordine che gli fossero condotti vicino. I circostanti andarono da Bartimeo con una parola piena di speranza: «Coraggio! Alzati! Ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, saltò su e seguito dal compagno minore andò da Gesù. Gesù chiese loro: «Che volete che vi faccia?» - Che può desiderare un cieco? Bartimeo rispose: «Rabboni, che ci veda! E tutti e due, più e più volte insieme: Signore, che si aprano gli occhi nostri!». Gesù allora disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato!». Era la stessa risposta, in sostanza, già data ai due ciechi di Cafarnao (§ 351). Toccati i loro occhi, ambedue furono guariti all’istante, e subito si unirono con la comitiva che seguiva Gesù.

• § 498. Gesù allora entrò in Gerico, naturalmente fra grande entusiasmo: si correva da tutte le parti per vedere il famoso Rabbi cercato a morte dai Farisei, colui che aveva guarito lì per lì su due piedi la notissima coppia di Bartimeo; il fervore popolare era accresciuto dai due ciechi stessi, che mostravano i propri occhi guariti a quanti volevano esaminarli. Tra gli accorsi fu un certo Zaccheo, ch’era capo dei pubblicani: città di confine e centro commerciale importante, Gerico doveva albergare molti agenti d’imposte, e uno dei loro capi era appunto questo Zaccheo. Il suo nome ebraico, Zakkai, dimostra ch’egli era giudeo; se ciò nonostante faceva quell’odiato mestiere, come l’aveva fatto anche Levi Matteo (§ 306), la colpa non era sua ma dei lauti guadagni che il mestiere procurava. Era infatti ricco; ma in lui, egualmente come in Levi Matteo, le ricchezze non avevano soffocato ogni senso di spiritualità, ché anzi quella sazietà materiale gli faceva provare una certa nausea e sentire talvolta più acuto il desiderio di ricchezze superiori all’oro e all’argento. In questo stato d’animo si trovava Zaccheo quel giorno in cui Gesù entrava a Gerico, e desiderava ardentemente di avvicinarlo e parlargli, o almeno di vederlo. Recatosi lungo il passaggio, capì subito che l’impresa era assai difficile; Gesù era attorniato da folla fittissima, in mezzo a cui sarebbe stato impossibile aprirsi un varco; d’altra parte il povero Zaccheo (non Gesù, come ha sognato l’Eisler; § 189) era basso di statura, cosicché dal piano terra non riusciva a scorgere neppure i capelli di Gesù. Rinunziare all’idea? Neppur per sogno. Il bravo Zaccheo fece una corsa sul davanti della folla che avanzava lentamente, e adocchiato un bel sicomoro ci si arrampicò sopra: era uno di quei bassi alberi, come se ne vedono ancor oggi a Gerico stessa, che hanno lunghe radici risalenti verso il tronco, in modo da sembrare circondati da tante funi; arrampicarsi là sopra, con quella bella comodità delle funi, fu cosa da nulla. La scena però dette sull’occhio. Se si fosse trattato di un contadino o un popolano qualunque, nessuno ci avrebbe badato; ma quell’omettino lassù era un capo pubblicano, cioè un capo di quelle sanguisughe che succhiavano il sangue del popolo. Forse più d’uno dei passanti pensò che quella sarebbe stata una buona occasione per fargli fare un volo dall’albero, o almeno per accendergli un bel falò sotto: tutti ad ogni modo se lo additavano tra loro con beffe e sghignazzamenti. Finalmente passa Gesù presso il sicomoro. Guardando in su tutti, guarda anche Gesù. Quei di Gerico che lo accompagnano gli spiegano chi sia l’omiciattolo appollaiato sull’albero: è un niente di buono, un uomo peccatore, anzi un capo peccatore e capo sanguisuga, che per atroce sarcasmo si chiama Zakkai (“puro”) mentre dovrebbe chiamarsi a ragione con ben altri nomi; non sarebbe quindi decoroso per il maestro rivolgergli la parola, e nemmeno fermarsi a guardarlo. Gesù invece, non solo sì è fermato e lo guarda, ma non sembra affatto persuaso delle informazioni che sta ricevendo; quando poi gli informatori hanno finito di parlare, si rivolge all’omettino sull’albero e gli dice nientemeno così: «Zakkai, presto, vieni giù! Oggi infatti in casa tua devo far sosta». Fu uno scandalo generale. Frettoloso e gioioso Zaccheo si ruzzolò giù dall’albero, e il maestro senz’altro s’avviò con lui a casa sua; «ma, vedendo (ciò), tutti mormoravano che presso un uomo peccatore entrò ad albergare». Trattandosi della casa impura di un peccatore, i fedeli alle norme farisaiche naturalmente rimasero fuori; e invece quella casa diventava più pura di tante altre appartenenti a Farisei. Zaccheo infatti, che sentiva non poche coserelle gravanti sulla sua coscienza, quando fu dentro casa volle onorare l’ospite facendo ampia ammenda del proprio passato; disse perciò a Gesù: «Ecco, la metà delle mie sostanze, Signore, do ai poveri, e se frodai taluno in qualche cosa restituisco al quadruplo». L’ospite, pienamente soddisfatto dell’ammenda, rispose al capo sanguisuga: «Oggi si è fatta salvezza in questa casa, perché anche questo è un figlio di Abramo; venne infatti il figlio dell’uomo a cercare e salvare ciò che era perduto». In maniera analoga aveva risposto Gesù nel difendere l’altro pubblicano, Levi Matteo, divenuto poi suo seguace. La guarigione di Bartimeo era stata un miracolo che aveva meravigliato le folle; l’ammenda di Zaccheo probabilmente non meravigliò nessuno, e forse vi fu gente che vi malignò sopra. Eppure, nel pensiero di Gesù, l’ammenda era un miracolo diverso ma non minore della guarigione: se nel caso di Bartimeo un cieco aveva veduto, nel caso di Zaccheo un cammello era passato attraverso una cruna d’ago, mentre tale passaggio era presso gli uomini impossibile, ma non presso Dio (§ 485).

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Da Vita di Gesù Cristo, imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.