Comunicato numero 181. Il discorso escatologico (parte 2 ed ultima)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, la scorsa settimana ci siamo salutati con la sentenza: «In verità vi dico che non passerà questa generazione fino a che tutte queste cose avvengano» (Marco, 13, 30). Così termina la nostra prima parte dell’erudito studio dell’Abate Ricciotti sul discorso escatologico di Gesù. Proseguiamo, dunque, da qui.

• § 526. Passando ora ai riscontri storici noi troviamo che, sullo scorcio del previsto quarantennio, si svolge un periodo il quale fu definito, da uno storico romano che lo conosceva assai bene. Dal canto suo Flavio Giuseppe, occupandosi particolarmente della Palestina, ci fornisce quelle notizie sulle agitazioni interne e soprattutto sul ribollimento del messianismo politico che ricordammo occasionalmente più volte. La conclusione di tutto fu la catastrofe del 70, ove perirono Tempio, capitale e nazione. Quanto ai discepoli di Gesù, durante questa «grande tribolazione» essi subirono quelle persecuzioni dentro e fuori la Palestina che sono attestate sia dagli Atti e altri scritti del Nuovo Testamento, sia dagli storici romani, e che erano mosse tanto da connazionali e da congiunti quanto da estranei e da pagani; ma coloro che ressero alle lusinghe dei «falsi profeti» e alle violenze dei persecutori, allorché videro il Tempio di Gerusalemme profanato dai sanguinari Zeloti (Guerra giud., IV, 151 segg., 305 segg., 381 segg.), si attennero all’ammonizione del discorso escatologico e fuggendo dalla città si ritirarono a Pella in Transgiordania, come narra Eusebio (Hist. eccl., III, 5, 3).

• § 527. Fin qui Gesù ha risposto soltanto al primo punto della domanda rivoltagli dai discepoli, descrivendo i segni che precederanno la distruzione del Tempio; un netto e preciso distacco, a guisa di conclusione, si ritrova infatti al termine di questa sezione ove Gesù finisce ammonendo: «Voi quindi guardate: (io) vi ho predetto tutte le cose» (Marco, 13, 23). Adesso manca che Gesù risponda al secondo punto della domanda, comunicando i segni della fine del mondo. La nuova sezione (Marco, 13, 24 segg.) comincia con le parole: «Ma in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole s’oscurerà, ecc». Qui l’espressione «in quei giorni» è la solita formula, impiegata frequentissimamente nell’Antico e nel Nuovo Testamento, per introdurre un nuovo argomento ma senza un preciso valore temporale, significando tutt’al più in un certo tempo..., a suo tempo..., in una data epoca. In questa epoca imprecisata, che si svolgerà dopo la «grande tribolazione», avverranno insieme la fine del mondo e la parusia, che sono descritte con termini presi in gran parte dall’Antico Testamento e comuni alla letteratura apocalittica (§ 84 segg.): il sole e la luna s’oscureranno, le stelle cadranno, le potenze dei cieli saranno scosse, e allora comparirà sulle nubi il figlio dell’uomo che verrà con possanza e gloria e invierà i suoi angeli ai quattro venti a radunare gli eletti; con ciò il «secolo» presente è chiuso e il «secolo» futuro è inaugurato. Questa descrizione dei segni della parusia è più breve, in tutti e tre i Sinottici, della descrizione dei segni della «grande tribolazione». Quanto poi all’indicazione del tempo in cui avverrà la parusia, la troviamo subito appresso all’indicazione del tempo assegnato alla «grande tribolazione»; ma, mentre per quest’ultima l’indicazione è stata precisa e netta - ossia «la presente generazione» - per l’altra è totalmente negativa: «Circa poi a quel giorno o all’ora nessuno sa (alcunché) né gli angeli». Nei secoli IV e V, ai tempi delle focose dispute ariane e cristologiche si usò ed abusò largamente di questo passo per misurare la scienza del Figlio divino confrontata con quella del Padre, e per attribuirgli una certa ignoranza. Ma appunto la difficoltà della frase, che sembra affermare questa ignoranza nel Figlio, è una ragione di più per considerarla autentica frase di Gesù pervenutaci nella forma più precisa e genuina: come pure la stessa difficoltà fu probabilmente la ragione per cui tutta la frase fu omessa da San Luca nel suo Vangelo, e per cui l’allusione al Figlio scomparve anche nel passo corrispondente di San Matteo (24, 36) da vari codici greci e dalla Vulgata latina, volendosi evitare una spiacevole sorpresa nei rispettivi lettori. Ma, superate le controversie ariane e cristologiche, si convenne generalmente nell’interpretare la frase come una fin de non recevoir da parte di Gesù, che non vuol essere interrogato su questo punto perché il rispondervi non entra nella sua missione: Gesù, che già aveva risposto ai figli di Zebedeo non esser compito suo ma del Padre assegnare i seggi nel glorioso regno messianico (§ 496), in questa occasione dixit nescire illum diem quia in magisterio eius non erat ut per eum sciretur a nobis, mentre invece entrava nella sua missione appunto il tener nascosto quel giorno; tamquam enim magister sciebat et docere quod proderat et non docere quod oberat (S. Agostino, Enarration. in Psalm. XXXVI, sermo I, 1). Ai nostri giorni la difficoltà è stata ripresa in pieno dalla scuola escatologica (§ 209 segg.), secondo cui Gesù era sicuro che la parusia sarebbe avvenuta nel corso della generazione (sua) contemporanea, sebbene confessasse di non conoscere il preciso giorno e la precisa ora (§ 529).

• § 528. Presentato in questa maniera - (e non alla maniera della scuola escatologica, ndr) - il discorso escatologico è chiaro, in quella misura che può essere concessa dal suo argomento. La sua prima sezione tratta dei segni della «grande tribolazione», cioè degli avvenimenti che precedettero ed accompagnarono la distruzione di Gerusalemme, la seconda sezione tratta dei segni della parusia e della fine del mondo. Dopo le trattazioni dei «segni» vengono le fissazioni dei rispettivi tempi: per la «grande tribolazione» è fissata la «generazione contemporanea» (di Gesù), mentre per la parusia è riserbato un arcano silenzio. Ma la difficoltà sta in questo, che la fissazione di ciascun tempo non è soggiunta immediatamente appresso alla rispettiva trattazione dei «segni» - cioè la «presente generazione» appresso alla «grande tribolazione», e il silenzio appresso alla parusia - bensì ambedue le fissazioni dei tempi sono relegate assieme in fondo, dopo ambedue le trattazioni dei «segni». Perché mai questa collocazione che sembra violenta e tale da provocare equivoci? Appunto qui è da scorgere l’opera redazionale degli Evangelisti e l’influenza delle circostanze in cui si svolgeva - come accennammo (§ 524) - la primitiva catechesi della Chiesa. Questa collocazione simultanea in fondo, che a noi oggi sembra violenta e tale da provocare equivoci, era invece prudentissima quando scrivevano i Sinottici, quando cioè non si sapeva nulla non solo del tempo della parusia ma neppure del preciso tempo della «grande tribolazione»: Gerusalemme infatti ancora era incolume e prospera, e nulla faceva umanamente sospettare che dopo pochi anni essa sarebbe ridotta a un ammasso di macerie. Neppure risultava chiaramente in quale relazione stessero fra loro la «grande tribolazione» e la parusia, che almeno idealmente apparivano ricollegate fra loro: la prima non sarebbe forse la preparazione immediata della seconda, e la venuta del Messia glorioso non sarebbe l’immediato premio a chi aveva superato la grande prova? Molti cristiani infatti ritenevano imminente la parusia, e la risposta di Gesù in proposito, se non implicava necessariamente tale opinione, neppure la escludeva con evidente chiarezza: il figlio dell’uomo poteva comparire inatteso in ogni momento, «come ladro notturno». Ma anche se fra la «grande tribolazione» e la parusia doveva cadere un interstizio, chi poteva dire se questo interstizio sarebbe stato breve o mediocre o lungo o lunghissimo? Di tutto ciò nessuno sapeva alcunché con certezza, prima di quel tragico anno 70; oggi invece, edotti da venti secoli di storia, noi siamo perfettamente informati della «grande tribolazione» che culminò nel 70 e dell’interstizio ch’è di una durata incalcolabile, mentre ci è rimasto impenetrabilmente occulto il tempo della parusia. Per queste ragioni gli Evangelisti sinottici, nell’oscurità che li avvolgeva, divisero il discorso escatologico secondo la materia in esso trattata, collocando prima i «segni» e poi i tempi, e lasciando alle opinioni dei lettori il ricollegamento delle singole parti fra loro: tanto più che, su questa palpitante questione della parusia le singole comunità ricevevano particolari ammaestramenti dai loro direttori, come per la comunità dei Tessalonicesi apprendiamo occasionalmente da San Paolo (II Tessal., 2, 5) e per le comunità dell’Asia Minore da San Pietro (II Pietro, 3, 1 segg.); e quindi i lettori dei Vangeli potevano e forse dovevano rivolgersi per schiarimenti a tali autentici interpreti, sempre in virtù del principio che la catechesi scritta non pretendeva mai di sostituire la catechesi orale, bensì la presupponeva in più modi (§107).

• § 529. La moderna scuola escatologica desume i suoi principali argomenti da questo discorso, ma appunto confondendo dati e referenze, e attribuendo all’unico avvenimento della parusia ambedue le fissazioni cronologiche, sia quella della «presente generazione» sia quella «del giorno e dell’ora». Già rilevammo che siffatta teoria è in contraddizione con le testimonianze storiche pervenuteci da quell’epoca (§ 212); qui sarà opportuno spendere appena una parola sull’attribuzione «del giorno e dell’ora». I suddetti studiosi sono costretti a interpretarli in senso rigoroso, ossia giorno per 24 ore e ora per 60 minuti: cosicché Gesù avrebbe confessato di non conoscere in quale gruppo di 24 ore e in quale gruppo di 60 minuti sarebbe avvenuto il cataclisma universale, pur essendo certo che sarebbe avvenuto nella generazione a lui contemporanea. È serio tutto ciò? È serio che un presunto “visionario”, tutto vibrante nell’aspettativa che entro breve tempo il mondo intero vada in pezzi, si rammarichi di non sapere il preciso momento in cui avverrà la conflagrazione? I veri visionari, appunto perché tali, non sono calcolatori così sottili, ritrovandosi totalmente assorbiti dalla visione principale: un “visionario” di questo genere è come un uomo che abbia sotto i piedi una mina con la sua miccia accesa, e non possa in alcun modo fuggire; la certezza assoluta dell’imminente scoppio gli fa totalmente dimenticare l’incertezza del preciso momento in cui lo scoppio avverrà. Gesù invece è un calcolatore sottile, e distingue nettamente le sue due fissazioni di tempi in rapporto alle due precedenti descrizioni dei «segni». Ecco pertanto nella sua integrità il passo relativo ai tempi, nel quale ognuno può riconoscere il netto distacco che riporta ciascuna fissazione di tempo alla rispettiva descrizione dei «segni»: «In verità vi dico che non passerà questa generazione fino a che tutte queste cose avvengano. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Circa poi a quel giorno o all’ora nessuno sa (alcunché), né gli angeli in cielo né il Figlio, se non il Padre» (Marco, 13, 30-32; cfr. Matteo, 24, 34-36). Da «Vita di Gesù Cristo», Abate Giuseppe Ricciotti, Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941. Fine.

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Da Vita di Gesù Cristo, imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.