Comunicato numero 199. L’arresto e il processo di GesùStimati Associati e gentili Sostenitori, è possibile richiedere l’iscrizione all’Associazione per l’anno 2020 usando il link: https://bit.ly/367OkBn. Per rinnovare l’iscrizione è, invece, necessario utilizzare il link:  https://bit.ly/2R6TQQq.

• L’Abate Ricciotti ci descrive l’arresto di Gesù come segue. § 558. «E mentre egli parlava ancora, ecco Giuda uno dei dodici venne, e con lui (era) molta folla con spade e bastoni (mandata) dai sommi sacerdoti ed anziani del popolo». A questa notizia dei Sinottici, San Giovanni aggiunge alcuni particolari riguardo alla «molta folla»; essa in maggior parte era composta di inservienti del Tempio (cfr. Luca, 22, 52), ma c’era anche una coorte con un tribuno (Giov., 18, 3. 12). Ora, questi armati venivano certamente da parte del procuratore romano (§ 619); come erano andate dunque le cose? Non è arrischiato ricostruirle così. Quando Giuda uscì dal cenacolo (§ 543) si recò dai maggiorenti giudei, i quali l’attendevano e avevano compiuto nel frattempo i loro preparativi materiali e morali: materialmente, perché avevano dato ordine ai loro inservienti di tenersi pronti per una piccola ma delicata spedizione; moralmente, perché erano andati dal procuratore o dal tribuno, e dipingendo quel galileo di Gesù come un mestatore politico circondato da altri mestatori suoi compaesani e tutti pronti a suscitare sommosse nella capitale, avevano ottenuto facilmente una scorta armata. Questa scorta non poteva essere l’intera coorte (circa 600 uomini) di stanza a Gerusalemme, ma soltanto una minima parte alla quale qui San Giovanni dà il nome dell’intero: ad ogni modo la presenza dei soldati di Roma aveva un grande valore morale, tanto più che con essi era venuto anche il tribuno che li comandava. Con questa gente, adunatasi a notte fatta, si trattava di rintracciare ed arrestare Gesù. Dove trovarlo per impadronirsene alla chetichella e senza timore di reazioni popolari? A tale impresa nessuno poteva servire meglio di Giuda, che era stato pagato soprattutto per questa parte del programma; già udimmo infatti da San Giovanni che il luogo del Gethsemani era ben noto anche a Giuda «perché spesso si era raccolto cola’ Gesù con i discepoli suoi» (§ 554), e il traditore sapeva bene che Gesù dopo la cena pasquale non poteva essersi recato fino a Bethania troppo lontana: dunque doveva essere al prediletto Gethsemani, o giù di lì. Nel prendere gli ultimi accordi con i sommi sacerdoti, Giuda stabilì un segno speciale per far riconoscere Gesù: «Quello che io abbia baciato è lui! Afferratelo!». Nell’antico Oriente, infatti, i discepoli baciavano per rispetto le mani del maestro: gli amici invece, trattandosi alla pari, si baciavano sulla faccia. Nel segno scelto da Giuda c’era dunque come un avanzo di pudore, per cui il traditore non si sentiva il coraggio di additare palesemente alle guardie il suo maestro ed amico gridando «è lui! »; così avrebbe fatto chi avesse avuto un vero odio per Gesù, perché quel grido già sarebbe stato uno sfogo all’odio: invece il segno convenuto pretendeva salvare le apparenze. Ma anche qui riappare l’enigma di Giuda. Non sapeva egli forse che al maestro il tradimento era noto? Non aveva egli stesso udito quel misericordioso «Tu l’hai detto!» dalla bocca di Gesù poche ore prima (§ 543)? Se tali sconcertanti pensieri s’affacciarono in realtà alla mente di Giuda, egli si sarà rinfrancato ripensando ai 30 sicli e voltandosi per vedersi spalleggiato dai soldati di Roma: ad ogni modo questo pudore di finzione era anch’esso un certo avanzo dell’amore per Gesù, amore allora sopraffatto da quello per l’oro; invece, poche ore più tardi, l’amore per l’oro rimarrà soccombente, il tradimento sarà rinnegato, ma l’amore per Gesù non sarà abbastanza puro e forte da ricercare il perdono di lui (§ 534).

• § 559. Avvenne tutto secondo il convenuto. Gesù stava ancora parlando con gli Apostoli testé risvegliati, quando Giuda entrò nel giardino seguito a poca distanza dalle guardie; si avvicinò egli al gruppo dei dodici e sbirciando nella penombra degli olivi riconobbe Gesù. Andatogli allora dappresso, gli pose le mani sulle spalle e lo baciò in faccia esclamando: «Salute, Rabbi!». Gesù lo guardò, e a mezza voce gli disse: «Amico, per che cosa sei qui?». E passato qualche istante: «Giuda, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo?». Non venne alcuna risposta; Giuda aveva compiuto l’incarico che si era assunto verso coloro che gli stavano alle spalle. Visto eseguito il segnale convenuto, le guardie vennero avanti alla rinfusa. Gesù allora, staccatosi dal gruppo degli Apostoli, mosse incontro a loro e domandò: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù il Nazoreo». E Gesù: «Sono io». A queste parole i più vicini vacillarono e poi caddero all’inverso in terra. Anche di altri personaggi dell’antichità, come di Mario e di Marco Antonio, si legge che abbiano atterrito solo con la loro presenza o voce persone inviate ad assassinarli, ma si trattava di sicari singoli e di circostanze speciali: nel caso di Gesù può darsi benissimo che le guardie subissero ad un tratto la potenza della sua persona e ne rimanessero sgomentate, forse anche ripensando alla triste fine fatta dagli armati spediti a catturare Elia (II [IV] Re, 1, 10 segg.) o altri antichi profeti; tuttavia è certo che San Giovanni, il quale è solo a narrare questo episodio, vuole qui presentarlo come fatto taumaturgico, anche per dimostrare la libertà con cui Gesù accettava la sua cattura. Rialzatisi e ripetuto che cercavano Gesù il Nazareno, Gesù rispose ancora: «Vi dissi che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che costoro se ne vadano». Con delicato accorgimento Gesù chiama gli Apostoli «costoro», dissimulando cioè la loro qualità di discepoli particolari per non esporli a violenze. Alla risposta di Gesù le guardie gli misero le mani addosso e l’afferrarono. Coloro che eseguirono l’arresto dovettero essere gli inservienti del Tempio, giacché appunto un servo del sommo sacerdote ne risentì per primo le conseguenze, e Gesù appena arrestato fu condotto avanti al sommo sacerdote e non all’autorità romana; al contrario i soldati della coorte romana (Unità, prima numerica e poi tattica, dell’esercito romano, composta di tre manipoli, ndr.) rimasero da parte inoperosi, pronti a intervenire solo nel caso che fosse successo qualche tafferuglio grave.

• § 560. La delicatezza di Gesù che si preoccupava per prima cosa di salvare gli Apostoli, e d’altra parte il vedere improvvisamente l’amato maestro caduto in potere di quella gente e così umiliato, risvegliò negli Apostoli quei propositi bellicosi che essi avevano manifestato poche ore prima nel cenacolo e che erano stati senza dubbio soggettivamente sinceri (§ 549). Spintisi allora nel tafferuglio fin presso a Gesù gli domandarono: «Signore, percoteremo di spada?». Ma Pietro non sarebbe stato Pietro se si fosse frenato in attesa della risposta di Gesù; egli invece, senz’altro, «avendo una spada la sfoderò e colpì il servo del sommo sacerdote e gli mozzò l’orecchio destro: il servo aveva nome Malcho». Solo San Giovanni (18, 10) nomina Pietro e Malcho: i Sinottici invece parlano del ferimento ma senza nominare né il ferito né il feritore, probabilmente per quella prudenza suggerita dal tempo in cui scrivevano e che vedemmo applicata altrove (§ 493, 535). Gesù intervenne subito e disse a Pietro: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quei che impugneranno una spada periranno di spada!. Ovvero credi che non posso pregare il Padre mio ed (egli) mi appresterà subito più che dodici legioni di angeli (§ 347)? Come pertanto si compirebbero le Scritture (le quali dicono) che così deve avvenire?». Messo a posto il feritore, Gesù mise a posto anche il ferito risanandogli l’orecchio col semplice tocco di mano; anche questa guarigione è narrata soltanto dall’Evangelista medico (Luca, 22, 51). Disse quindi alla turba, fra cui erano sommi sacerdoti, capitani del tempio (§ 54) e anziani: «Come verso un ladrone usciste con spade e bastoni? Essendo io ogni giorno con voi nel tempio, non stendeste le mani addosso a me; ma questa è l’ora vostra e la potestà delle tenebre» (Luca, 22, 52-53).

• § 561. L’arrestato fu legato; si cominciò a condurlo via. Gli Apostoli, a cui dapprima la sonnolenza e poi il subitaneo sdegno non avevano permesso di rendersi ben conto della realtà dei fatti, soltanto allora compresero: il maestro era veramente arrestato, era condotto via come un volgare delinquente. Allora forse, meglio che a tutte le passate affermazioni di Gesù, essi cominciarono a intravedere quale fosse la durissima prova, quali i patimenti supremi, attraverso cui il maestro aveva predetto più volte di dover passare per giungere alla sua gloria. A tale tristissima veduta, a tali mestissimi ricordi, quegli undici si sentirono schiantati. Della futura lontana gloria del Messia essi non si ricordarono affatto; badarono soltanto al tintinnio delle catene, al luccicore delle spade, all’umiliazione del maestro: allora, totalmente smarriti, abbandonarono ogni cosa dandosi alla fuga, tutti dal primo all’ultimo. E Gesù uscì dal Gethsemani circondato dalla sola sbirraglia: non gli stava dappresso neppure un amico. O meglio, un amico c’era ancora, sebbene non stesse molto dappresso. Qui infatti avviene l’episodio del «giovanetto con la sola sindone». Come già vedemmo, è possibile che quel giovanetto fosse l’Evangelista Marco (§ 134). Se egli era figlio o altro parente del proprietario del cenacolo (§ 535), il quale forse era proprietario anche del Gethsemani (§ 554), si può supporre che terminata l’ultima cena egli per simpatia avesse seguito la comitiva di Gesù al Gethsemani ed ivi si fosse intrattenuto per qualche tempo con gli otto Apostoli ricoverati nella casipola o grotta, e dopo un certo tempo anch’egli si fosse messo a dormire. è importante il particolare che egli fosse «avvolto d’una sindone sul nudo»: la sindone di lino era infatti usata, stando in letto, soltanto da persone facoltose, mentre i popolani, come gli Apostoli, dormivano ravvolti nelle stesse vesti del giorno; probabilmente, dunque, quel giovanetto era abituato a passar talvolta la notte nella casipola del Gethsemani, ove in un angoletto avrà avuto il suo giaciglio e l’occorrente per dormire da persona agiata. Se queste ipotesi corrispondono alla realtà, tutto diventa chiaro. Il giovanetto, risvegliato improvvisamente dal vociare delle guardie e dalle grida del ferito e degli Apostoli, si alza dal giaciglio e balza fuori vestito come si trova: assiste all’ultima scena dell’arresto di Gesù e alla fuga degli Apostoli; allora, sia per la sicurezza d’un padrone che si ritrova sul terreno suo proprio, sia per la vivacità giovanile accresciuta dall’affetto per l’arrestato, egli si mette a seguire le guardie che s’allontanano; le guardie poco dopo s’accorgono di quel giovanetto che sta pedinando in quello strano abbigliamento, e insospettite lo prendono. Ma afferrano la sola sindone: perché l’agile ragazzo, sgusciando dal di sotto, lascia la sindone in mano alle guardie e fugge via tutto nudo. E così Gesù fu abbandonato anche da quest’ultimo amico: un adolescente privo di veste.

[Dalla nota 1 alla pagina 691, «Vita di Gesù Cristo», G. Ricciotti: Questo episodio è così tipicamente storico nel suo «verismo», che il richiamarne in dubbio la realtà sembrerebbe cosa inconcepibile. Eppure anche a questo si è giunti: si è affermato (modernista A. Loisy) che l’episodio è una pura finzione per dimostrare avverato il passo di Amos (2, 16) che dice nel testo ebraico: «E il più saldo di cuore fra i prodi nudo fuggirà in quel giorno». Senonché il contesto di Amos parla di tutt’altro argomento, e basta leggerlo per vedere che non offre il mimmo appiglio ad inventare un episodio come quello di Marco. A tali conclusioni da disperazione porta il partito preso di subordinare i documenti ad una tesi preconcetta]. Prosegue qui.

Da «Vita di Gesù Cristo», imprimatur 1940, Abate Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.