Comunicato numero 210. La verità sui fondatori del ProtestantesimoStimati Associati e gentili Sostenitori, il Protestantesimo - dicono i moderni - ebbe il grande merito di reagire vittoriosamente contro l’enorme corruzione dilagante nel secolo XVI, ed i suoi fondatori furono animati dalle migliori intenzioni di giungere ad una sana riforma. I modernisti vanno oltre: mediante l’eresia dell’ecumenismo, essi non cessano di lodare le massime autorità dei Protestanti, celebrano con loro, pregano con loro, ne ospitano statue e cimelii, emettono francobolli con i fondatori del Protestantesimo, finalmente sostengono - apostaticamente - che le sette dei Protestanti siano vie di salvezza. Rimandiamo i nostri Lettori alla «Mortalium animos» di Papa Pio XI  per le ragioni della condanna all’ecumenismo. Purtroppo lo spazio a disposizione non è molto, quindi cercheremo di sintetizzare utilizzando l’opuscolo «I fondatori del Protestantesimo», Carlo Bozzola, S.O.S., Serie I, n° 7, 3a edizione, imprimatur 1944.

La Chiesa nel secolo XVI. Sì, nel secolo XVI era necessaria una riforma nella Chiesa. 1. - Però conviene subito notare che assieme a molto male c’era ancora molto bene e non mancavano gli uomini Santi. È vero, gli studi sacri erano allora generalmente scaduti nella ansiosa ricerca di vane sottigliezze e di vuote astrazioni, ma gli splendori della filosofia e della teologia cristiana non erano affatto spenti. Il secolo che vide nascere l’eresiarca Lutero aveva assistito meravigliato alle nobili lotte dei più eletti ingegni dell’occidente e dell’oriente, provvidenzialmente incontratisi nel Concilio di Firenze (1438-1445) : e il secolo che assistette ai traviamenti e all’infausta lotta di Lutero potè giustamente vantarsi del più grande, del più efficace, del più benefico dei Concili, quello di Trento (1545-1563). Uomini veramente e profondamente dotti non erano sconosciuti anche al riformatore di Germania. Il grande Cardinal Gaetano fu tra i primi a tentare colla sua autorità, colla sua dottrina ed anche più colle sue benigne maniere, di arrestare la pazza corsa dell’eresiarca. È vero: il movimento umanistico aveva suscitato quasi ovunque un cieco entusiasmo per le bellezze non sempre caste dell’arte antica e pagana, ma pure i secoli XV e XVI videro i più grandi geni della pittura, della scultura, dell’architettura, consacrarsi interamente al servizio e al trionfo della fede. Nessuno ignora, né osa negare i grandi mali che allora affliggevano la cristianità. La corruzione dilagante, in alto e in basso, non aveva risparmiato lo stesso ceto ecclesiastico, non si era arrestata dinanzi alle sacre mura dei chiostri, anzi neppure ai piedi del trono più augusto. Ma pure non era tutto perduto: non si erano affatto inaridite le fonti della santità, e la vitalità meravigliosa della Chiesa non aveva cessato di produrre i frutti più belli e profumati, presagio felice di tempi migliori. Quanti Santi avevano preceduto di poco la comparsa di Lutero! Bernardino da Siena (+1444), Lorenzo Giustiniani (+1455), Giovanni da Capi-strano (+1456), Antonino di Firenze (+1459), Diego di Spagna (+1463), Caterina di Bologna (+1463), Caterina di Genova (+1474). San Francesco da Paola, contemporaneo di Lutero (1407-1507) aveva messo a disposizione della Chiesa le balde e generose schiere dei suoi umili frati: altri pii religiosi avevano tentato con successo di riformare qua e là gli ordini antichi, come accadde precisamente nello stesso ordine del riformatore, per opera della corrente più rigorosa degli osservanti. Anche il sangue glorioso dei Martiri purificava e santificava il secolo di Lutero. L’anno 1535 vedeva due incliti e generosi atleti ascendere il patibolo e lasciare il capo venerando sotto la mano del carnefice: Tommaso Moro e Giovanni Fischer; ai quali la Chiesa nel 1936 decretò gli onori supremi degli altari. Quando poi il Protestantesimo incominciava appena a levare furibondo la fronte contro la corruzione della Chiesa Romana, avevano già aperto gli occhi alla vita quegli uomini veramente grandi per santità ed ardire che dovevano diventare i generosi campioni di Roma, i veri riformatori del popolo cristiano: Gaetano Tiene, Antonio Maria Zaccaria, Pio V, Ignazio di Lojola, Francesco Saverio, Teresa di Gesù, Pietro d’Alcantara, eccetera, eccetera... Nella stessa Germania non mancavano anche in quegli anni uomini pii, sacerdoti zelanti, pastori interamente consacrati alla gloria di Dio, come Giovanni di Dalberg vescovo di Vormazia (1482-1503), Giovanni Rhode, vescovo di Brema (1497-1511), e Lorenzo di Bibra, vescovo di Wurzburgo (1495-1519).

• 2. - Tuttavia, torniamo a confermare, il bisogno di una saggia riforma era evidente: gli, stessi capi responsabili ne erano consci e desiderosi, benché non avessero sempre né la attitudine né l’energia sufficiente per attuarla. Questo non vuol dire che la Chiesa fosse fondamentalmente mutata da quella che era stata da Gesù N. Signore voluta e istituita; o che la verità evangelica fosse rimasta completamente offuscata. No: la verità tuttora splendeva, tuttora era riconosciuta ed ammessa; ma non sempre era la regola pratica della vita ed i costumi pubblici e privati non corrispondevano sempre all’ideale cristiano. Non si richiedeva quindi che una riforma morale, quale fu splendidamente attuata più tardi dalle meravigliose forze del Cattolicismo.

• 3. - Ma non fu tale la riforma vagheggiata ed attuata dai riformatori del Nord. Essi  vollero sconvolgere e rovesciare tutto quanto fino allora era stato pacificamente ammesso e come cosa sacra venerato. Trasformata l’organizzazione ecclesiastica, aboliti i riti più augusti ed essenziali, radicalmente rinnovata la dottrina dogmatica.

• 4. - Era mai possibile, poteva mai essere ammessa una tale riforma? Non era piuttosto una distruzione completa dell’antica religione; una fondazione di una religione totalmente nuova? E in questo caso non appare come un’opera dell’uomo in contrapposizione a quella di Dio? Se fosse altrimenti vorrebbe dire che la Chiesa, che ormai da secoli così si governava e così credeva, non era più la Chiesa di Gesù Cristo. Lo so: precisamente questo affermava audacemente Lutero; per lui la Chiesa di Roma, che fino allora aveva universalmente e pacificamente dominato, era la Chiesa dell’Anticristo, la Chiesa di Satana. Ma allora che cosa bisognerebbe dire della prescienza e della infallibilità di Gesù? Era Egli veramente Dio? Dinanzi a Pietro ed a tutto il collegio apostolico Egli aveva pur solennemente dichiarato: «Contro di essa (la sua Chiesa) le porte dell’inferno non prevarranno». Se Lutero avesse avuto ragione nell’opera sua di riforma, le forze infernali già da parecchi secoli prima avrebbero riportato completo trionfo sulla Chiesa di Gesù. Ma supponiamo pure che Lutero e gli altri capi del Protestantesimo non siano fondatori di una nuova religione, ma abbiano soltanto lavorato ad una riforma della religione preesistente, ci potremo però domandare: Erano essi autorizzati da Dio a questa grandiosa impresa? Erano essi persone adatte? 

I capi del Protestantesimo. Dio suole porre il sigillo alla missione dei suoi inviati con la santità e coi miracoli. Con questi segni della divinità si presentarono al mondo gli antichi profeti, con tali caratteristiche soprannaturali si presentano continuamente nella nuova legge di grazia i grandi animatori della virtù cristiana. Furono tali i fondatori della riforma protestantica Lutero e Calvino? Fu tale Enrico VIII? Ebbero essi lo zelo puro e ardente di Elia, di Isaia, di Geremia e la loro costanza e pazienza indomite? O lo spirito di penitente austerità, di purezza illibata, di disinteresse generoso di Giovanni il Battista? O il distacco assoluto dalle comodità terrene, l’umiltà sincera e profonda, la soprannaturalità di intenzione, la dedizione piena ed eroica, lo spirito di estatica contemplazione delle realtà eterne dei grandi Santi del cattolicismo? Furono essi ripieni dello spinto di Gesù? A chi voglia interrogare la storia con mente tranquilla e scevra di pregiudizi, la risposta non tarderà a presentarsi evidente e non potrà esser che negativa. Non potevano essi, dunque, presentarsi in nome di Dio. Anche se udremo Lutero dichiarare apertamente e spesso di sentirsi guidato ed ispirato dallo Spirito Santo, non si può, non si deve credergli. Nella migliore delle ipotesi, se egli non fu un impostore, fu per lo meno un illuso. Lo Spinto Santo ovunque spira, fa germogliare i fiori profumati delle più belle virtù. Questo non avvenne; dunque, torniamo a ripeterlo, il Protestantesimo non germogliò sotto il soffio dello Spinto di Dio. Facciamoci a considerare ciò più di proposito e più in particolare.

Lutero. 1. - Non è nostro scopo esaminare partitamente tutte le vicende della vita agitata del riformatore; basterà qui accennare ai fatti principali. Lutero nacque ad Eisleben in Sassonia il 10 novembre 1483 da una famiglia agiata. Mentre studiava all’università di Erfurt, inopinatamente e sotto l’impulso di improvviso fervore a cui non fu estraneo, a quanto pare, qualche avvenimento doloroso, si decise a farsi monaco ed entrò fra gli Agostiniani.  [Secondo gravi autori la sua fu una falsa vocazione: per evitare di restituire al padre molti danari anticipati per i suoi interrotti studi, ndr.]. Dopo una vita tranquilla ed operosa nella quiete del chiostro, chiamato alla cattedra di Sacra Scrittura dell’Università di Wittemberg, attraversò un periodo di crisi pericolosa che incominciò ad allontanarlo dalla verità cattolica. Più tardi l’aspra lotta contro la dottrina delle indulgenze, suscitata da alcuni abusi di qualche predicatore troppo zelante [ma poco ferrato nella teologia, ndr.], gli presentò l’occasione di erigersi a riformatore e di separarsi dall’antica Chiesa. L’apostasia divenne definitiva e completa l’anno 1520, quando in pubblica piazza con gesto sacrilego gettava tra le fiamme la bolla pontificia che lo condannava. La morte [una brutta morte, ndr.] lo coglieva di notte, quasi improvvisamente, nella città natale il 18 febbraio 1546. Dietro di sé lasciava la divisione disgraziata della cristianità in due campi avversi.

• 2. - L’apostasia di Lutero ebbe origine da un ripicco fratesco.  Gradito è ai protestanti presentare Lutero infiammato di sdegnoso zelo contro la bassezza dei venditori di indulgenze, ma in realtà la lotta ebbe un’origine più remota e meno gloriosa. La battaglia contro gli abusi delle indulgenze, abusi del resto di proposito esagerati e non universali, fu un comodo pretesto per la ribellione, ma non fu la causa. E facile ne è la prova. Dopo le prime scaramucce, la questione delle indulgenze passa in seconda linea e viene dimenticata; la lotta tra Lutero e la Chiesa si ingaggia tosto furiosa ed ostinata su un altro punto ben più importante, fondamentale anzi: la giustificazione senza le opere, per la sola fede nell’imputazione infallibile dei meriti di Cristo. Ora quale fu l’origine di questa teoria da Lutero elaborata attraverso lo studio e l’esperienza di lunghi anni? Noi la scopriamo dai suoi scritti che precedettero l’apostasia, specie dai suoi commentari sui salmi e sulla lettera di San Paolo ai Romani. Essa originò da un puntiglio fratesco e dal bisogno di giustificare la propria condotta non del tutto regolare. L’affermazione parrà forse irriverente alla grandezza del Riformatore che si diceva ispirato immediatamente da Dio stesso? Non ci possiamo nulla: i documenti sono troppo precisi e significativi; basta esaminarli per convincersi. Gli Agostiniani in Germania erano allora divisi in due congregazioni, una più antica quella, dei Conventuali; l’altra più recente, più regolare e più rigorosa, la Riforma degli Osservanti. Lutero era entrato in un monastero di questi ultimi. Tra le due correnti le animosità erano inevitabili e si manifestarono clamorosamente, quando nell’animo di Staupitz, che radunava nelle sue mani il governo di entrambi, Provinciale dei Conventuali e commissario degli Osservanti, sorse il progetto dell’unione. Un decreto ottenuto dal Generale dell’ordine in questo senso fece scatenare la lotta. Lutero fu scelto dagli Osservanti come loro rappresentante e inviato a Roma presso il governo centrale per ottenere la separazione. Disgraziatamente la missione del messaggero falli , anzi Lutero stesso a poco a poco passò a simpatizzare per l’unione vagheggiata dai Superiori. L’umiliazione dello scacco subito, i  frizzi mordaci dei confratelli, la resistenza in essi trovata all’opera dell’unione finirono per rendergli antipatica l’osservanza e tutte le sue pratiche. Ai frizzi degli osservanti sapeva rispondere con moneta eguale, con motti non meno sarcastici e mordaci. Diventò per lui fin dal 1513 un’abitudine, un bisogno, uno sfogo all’umore nero il mettere il ridicolo sopra la vita degli avversarii, sulle loro pratiche, sui loro usi, sulle osservanze a loro tanto care ed a cui erano tanto legati. Infiniti sono gli accenni pungenti sfuggitigli dalle labbra nelle lezioni dinanzi ai giovani suoi confratelli e ch’egli diligentemente riferisce nei suoi scritti tra le righe dei commenti alla Sacra Scrittura. Per lui gli osservanti sono «come i Giudei ed i Farisei»; la loro esterna santità è un puro formalismo ipocrita; «come gli ebrei ed i farisei anch’essi corrono pazzamente dietro alle vane pratiche esterne inutili e dannose». Scegliamo così, a caso, qualche tratto dal Commentario sopra i Salmi: Gli osservanti sono «uomini pieni di se stessi e delle proprie idee» (Weimar III p. 19); «gli statuti e i privilegi che hanno ottenuto non valgono meglio che le tradizioni giudee dei rabbini» (ib. p. 21); «Gli osservanti si gloriano di esser figli di illustri e santi personaggi di cui esaltano le virtù eroiche. Questa iattanza che oggi trionfa è veramente simile all’orgoglio degli ebrei e degli eretici» (ib. p. 332); «Essi resistono a Cristo, alla Chiesa, alla verità; ignorano dunque che essi non differiscono punto dai giudei, anzi li superano in ipocrisia?» (ib. p. 568). Da questo punto di vista, per combattere meglio gli avversari, era facile passare all’affermazione che le opere esteriori in generale sono inutili, supererogatorie, anzi dannose. Così egli scrive: «L’osservanza non procura la vera giustizia» (ib. p. 454); «Da mattina a sera (gli osservanti) sono occupati nei loro esercizi e nelle loro cerimonie. La verità non è sulla loro bocca. Tutta la loro condotta non è che ombra e vanità» (ib. p. 333). Quale sarà dunque la via della giustizia e della santità? Lutero incomincia già qua e là ad affermarlo: la fede. «Questi uomini superstiziosi e singolari rigettano l’obbedienza e la fede e si creano una loro giustizia» (ib. p. 172). «Essi ignorano la vera giustizia, la giustizia della fede pura. Essi si formano una loro giustizia, un idolo spirituale e non vogliono punto la giustizia di Dio» (ib. p. 154). Questa idea che la giustizia si ha per la fede e per essa sola senza le opere, è poi quella che più di frequente torna sotto la penna di Lutero nel Commentario alla lettera di San Paolo ai Romani e che egli si sforza di provare coll’autorità stessa dell Apostolo. (1515-1516). Questo scopo è chiaramente indicato fin dall’introduzione: «Sradicare ogni giustizia personale»: la giustizia di quegli «uomini ignoranti (che) credono di esser giusti per le loro opere» (p. 123 ed. Ficker). L’«Arbitramur justificari hominem per fidem sine operibus legis» dell’Apostolo (Rom. III, 28) svisato dal suo vero senso, diventa per Lutero il principio fondamentale delle sue teorie sulla giustificazione.

• 3. - A queste affermazioni e a questa conclusione, del resto, Lutero era facilmente indotto oltre che dall’animosità contro gli osservanti, anche dal bisogno di spiegare la sua disgraziata esperienza personale e di giustificare la sua condotta. È certo infatti che egli verso l’anno 1513 risentiva di un notevole rilassamento morale e non solo per reazione contro la presupposta esagerazione degli osservanti in mezzo ai quali viveva. Nei primi anni della sua vita religiosa anch’egli si era messo alacremente alla conquista della buona vita, ma non con lo spirito umile del vero cristiano che, conscio di non poter nulla da sé, attende fiducioso dalla grazia divina la pioggia fecondatrice sopra i suoi tentativi, e dalle stesse inevitabili miserie prende motivo per diffidare maggiormente di sé e per rialzarsi con maggior fiducia nella misericordia divina. Egli troppo si attende dalle sue forze e dai suoi sforzi, troppo presume di sé e della sua capacità. Le sue miserie, le sue sconfitte quotidiane umiliano troppo la sua superbia, lo muovono a sdegno contro se stesso, lo abbattono, lo scoraggiano. Gli cominciano allora a balenare nella mente certi pensieri, che a poco a poco vi si stabiliscono, vi si radicano: Ma è proprio possibile la santità all’uomo? Non è egli tutto guasto e corruzione? È veramente egli libero di fuggire il male e di fare il bene? Sono veramente utili i suoi sforzi per sollevarsi dalle sue miserie? Lo scoraggiamento lo porta a trascurare i mezzi tradizionali (preghiera, etc...): tale negligenza è causa di maggiori miserie; le tristi conseguenze che ne derivano, a poco a poco lo convincono sempre più che non v’è altra salvezza che rifugiarsi nella sola fede nei meriti di Cristo. Che veramente Lutero in quegli anni si fosse rilassato, anche sotto l’assillo delle molte occupazioni, lo abbiamo dalla sua stessa penna. Scrivendo al Priore Lang di Erfurt ammette «che raramente trova il tempo per recitare le ore e per celebrare». Più tardi spesso adduce la sua personale esperienza a provare che l’uomo non è libero di fuggire il male. Spesso pure nelle sue lettere di quel tempo accenna alle sue agitazioni di coscienza, alle sue incertezze, alle continue ed assillanti tentazioni, specialmente carnali, da cui è oppresso. Vi fu anche in quel tempo qualche cosa di più che il solo turbamento della tentazione? Non è possibile affermarlo con certezza, ma in un’anima che trascura l’orazione, che già comincia a fluttuare ed a persuadersi della corruzione essenziale e necessaria dell’uomo, che altro v’è da aspettarsi? [D’altronde l’albero si riconosce dai frutti e, come insegnano i Padri di Trento: le cause del progresso dell’eresia sono nella corruzione dei costumi e nella crassa ignoranza, ndr.].

• 4. - La defezione così maturata nel segreto della coscienza, si manifestò poi in occasione del contrasto delle indulgenze e fu condotta a compimento per effetto dell’odio antiromano forte in Lutero e radicato e diffuso nella nazione tedesca. L’odio contro Roma era nel sangue della razza germanica fin dai primi tempi lontani nei quali le orde nordiche, dopo aver lungamente lottato contro la supremazia latina, s’erano rovesciate sull’impero e l’avevano sommerso; era poi cresciuto orgoglioso dacché la Germania era diventata la sede stabile del capo civile della cristianità. L’orgoglio tedesco mal sopportava la supremazia religiosa di Roma, la sua sorveglianza, la sua direzione, la sua ingerenza autoritaria; mal volentieri ed a forza concorreva alle filiali contribuzioni finanziarie per i bisogni e per il decoro del Padre comune e dei santuari centrali della cristianità. Violenti quanto mai sono gli attacchi di Lutero contro lo sfruttamento degli ultramontani, accese di odio e di livore le denunzie ai suoi tedeschi «dell’insaziabile ingordigia romana». Se quest’odio non avesse covato nel cuore di Lutero, se non fosse serpeggiato nella gran massa del popolo germanico, gli errori di frate Martino sarebbero forse rimasti celati nel segreto della sua cella, o nella piccola cerchia dei suoi scolari; al più avrebbero avuto una verbale ripercussione nelle scuole teologiche. Esso diede invece al frate agostiniano la sensazione di essere il difensore di un ideale patrio conculcato, e diffuse nel popolo la persuasione di avere in lui il campione lungamente atteso della più pura germanicità. Attorno al frate audace che levava, in principio velatamente, la voce contro Roma, si strinsero subito compatti gli umanisti tedeschi, gente senza fede e religione, accorsero entusiasti tutti i fanatici delle glorie patrie, primo fra tutti il selvaggio Ulrico von Hutten, si rivolsero benigni e invitanti tutti quei prìncipi e signori che già vagheggiavano di inalzare la loro potenza sopra le spoglie della Chiesa. Lutero, sentendosi appoggiato validamente dall’odio tedesco, non indugiò più oltre e gettò risoluto il guanto di sfida all’antica  Chiesa di Roma. Lo scisma di metà Europa dal centro della cristianità si compiva! Tale, secondo la storia, è l’origine dell’opera di Lutero. Pare che sia stata essa ispirata e mossa dallo Spinto di Dio? La risposta è ovvia per ogni mente non travolta da pregiudizi. Ma possiamo anche procedere oltre e considerare un altro aspetto dell’impresa luterana.

• 5. - Dimostrò Lutero colla sua condotta di essere lo strumento scelto da Dio? Non abbiamo nessuna intenzione di esagerare: anche qui lasceremo parlare i fatti. a) Lutero non procedette lealmente ma ipocritamente. Chi è persuaso intimamente della santità della sua causa potrà bene, per illuminata prudenza, attendere il momento opportuno per la manifestazione e l’attuazione dei suoi disegni, potrà giustamente proporre la sua idea per gradi a poco a poco, e talvolta velatamente, ma non mai gli sarà lecito dire o sostenere il contrario di ciò che pensa e che vuole. Ora, proprio così operò Lutero? Quando già in cuore covava la ribellione e aveva insegnato apertamente proposizioni che conducevano all’annientamento di ogni autorità ecclesiastica, rispondeva al Prierias - che aveva confutato i suoi errori - ammettendo che «la Chiesa Romana ha sempre insegnato la vera fede e che a tutti i cristiani è necessario concordare con lei» (v. Löscher II 407, Köhler 54). Riguardo poi ai  punti controversi si rimetteva ad una decisione della Chiesa o di un Concilio: ma si capisce dalle sue parole che dice ciò nella persuasione che la Chiesa, o il Concilio debbano ratificare le sue dottrine. Gli stessi sentimenti di deferenza verso la Chiesa, di ammissione della sua autorità, si riscontrano pure nella dichiarazione fatta leggere in suo nome e in sua presenza dinanzi al Card. Legato Gaetano. «A quanto sa ricordarsi, egli non ha mai insegnato cosa alcuna contro la Sacra Scrittura, la dottrina della Chiesa, i decreti del Papa e la sana ragione, ma poiché è uomo soggetto all’errore, così si assoggetta al giudizio della Santa Chiesa, e di tutti coloro che meglio sanno». La stessa risoluzione di sottomettersi alle decisioni della Chiesa manifesta pure nelle lettere indirizzate il 17 e 18 ottobre dello stesso anno 1518 al Card. Legato. (De Wette I, 163-165: Enders I, 266). Le stesse cose dichiara in un abbozzo di lettera preparata per il Papa il 5-6 gennaio 1519 e di cui si conserva la minuta originale. Vi dichiara «che mai ha avuto in mente di assalire comunque sia l’autorità della Chiesa Romana e del Papa»; confessa anzi «che il potere della Chiesa Romana sta sopra tutto e che nulla va preferito in cielo e in terra, salvo Gesù Cristo» (Enders I, 442-445). Eppure già l’11 dicembre 1518 scriveva a Wenzel Link che alla Corte Romana dominava l’Anticristo, (Enders I, 317) e poco più tardi, il 13 marzo 1519, in una lettera allo Spalatino afferma di non sapere se il Papa fosse lo stesso Anticristo, o il suo apostolo (Enders I, 450). Esternamente affettava ancora riconoscimento dell’autorità papale, internamente non riconosceva che la propria autorità e infallibilità. Quando si accorge che il Papa vivente Leone X finirà con condannarlo, egli audacemente appella dal «Papa mal e informato» al «Papa meglio informato» (ottobre 1518): più tardi (28 Novembre 1518) appella al futuro Concilio, poi finalmente getta risoluto la maschera. Sopra di lui non v’è autorità alcuna. «Non si riesce a prenderlo né colla persuasione né colla discussione - scriveva a Roma il legato Aleandro - poiché non riconosce alcun giudice, e senza ritegno rigetta anche i Concili e null’altro ammette fuorché le parole della Bibbia che vuole poi interpretare di sua testa, mentre deride spiegazioni diverse e le rifiuta come inadeguate».

• b) La morale di Lutero NON fu la morale del Vangelo. Non ci vogliamo dilungare sopra la violenza verbale con cui senza ritegno e misura aggredisce gli avversari, allontanandosi evidentemente dalla longanime pazienza e dolcezza del Salvatore. «Porci, asini, canaglia» sono gli epiteti ordinari che fioriscono sulle sua labbra. All’amico Giovanni Lang dichiara: «Contro la slealtà e la perversità del Papa, io credo che in vista della salute delle anime ci sia permessa qualunque cosa» (Enders II, p. 461). Il fine giustifica i mezzi! Proprio il principio dai protestanti appioppato agli odiati Gesuiti! Lutero stesso riconosce questo suo debole. Nel 1520 scrive: «Non posso negare di esser troppo violento. Ma poiché i miei avversari lo sanno, non avrebbero dovuto eccitare il cane» (Enders, II p. 329). Nel 1521 ammette di non essere padrone di sé, di non sapere quale spinto lo costringa ad aggredire (Enders, III p. 93). È lo stesso Lutero che più tardi, durante la guerra dei contadini, già da lui aizzati e poi abbandonati quando li vide più deboli dei signori, scrive «che era ormai tempo di sgozzare i contadini come cani rabbiosi». (Erl., IlI p. 306). Non intendiamo insistere troppo sui rimpianti dei frequenti digiuni del chiostro, e sulla voluttà con cui Lutero volentieri si abbandonava ai piaceri della mensa.

• c) Vogliamo piuttosto trattare di proposito della sua condotta di fronte alle basse passioni [il sesso etc..., ndr.]. Chi vuole farsi un’idea del come percepisse Lutero il dovere di resistere agli incentivi della carne, si faccia coraggio e legga le parole che ai suoi invitati diceva nel 1540. «II diavolo getta nell’anima dei pensieri odiosi, odio contro Dio, bestemmie, disperazioni. Ecco le grandi tentazioni e nessun papista le ha comprese. Questi idioti di asini non conoscono che le tentazioni della carne. Sono queste le sole sulle quali essi e i loro santi hanno scritto. Un giorno, tormentato da tali tentazioni, Benedetto si gettò nudo tra le spine e si lacerò coscienziosamente... In realtà a questa tentazione il rimedio è facile: vi sono ancora donne e giovinette» (Tischreden IV, n. 5097). San Paolo aveva ammonito: «Neppure si nomini tra voi, come si conviene a persone sante, la fornicazione e ogni immondezza e neppure le turpitudini... le scurrilità» (Eph. V, 3-4). Ma chi vuole farsi un concetto della delicatezza di Lutero nel parlare, legga il suo «Papato fondato dal diavolo»: o più ancora i suoi «Discorsi conviviali» (Tischreden). Rimarrà stupito e nauseato della frequenza e della trivialità con cui il riformatore accenna alle più basse funzioni del corpo. San Paolo, adducendo anche il suo esempio, aveva consigliato la castità perfetta e la verginità come perfezione sublime: «bonum est illis si sic permaneant, sicut et ego» (I Cor. VII, 8 ss.): ma Lutero fu di parer contrario, fu tra quelli di cui parla N. S. là dove anche Egli esalta la verginità. «Non omnes capiunt verbum istud» (Matt. XIX, 11). Lutero, che solennemente dinanzi al cielo e alla terra aveva giurato perpetua castità, dopo aver stentatamente trascinato come una catena opprimente l’obbligo sacro impostosi, non teme di rendersi spergiuro e sacrilego passando ad indegne nozze con una ex monaca anch’essa spergiura e sacrilega, Caterina Bora. Lo sappiamo: egli tentava di legittimare il suo audace passo col proposito di farla a Satana, secondo lui autore del sacro celibato, ma sappiamo pure dal suo amico Bugenhagen che di fatto vi si era deciso, oltre che per soddisfare alle sue passioni, anche «per far tacere le insinuazioni delle male lingue» che trovavano da dire alle sue frequenti relazioni con Caterina e colle altre ex monache sue compagne. Del resto Lutero stesso scriveva allo Spalatino: « Ho chiuso la bocca a tutti quelli che mi diffamavano per riguardo a Caterina Bora» (Enders V, 197). Più tardi per non scontentare Filippo d’Assia, suo potente protettore, lo autorizza a prendersi una seconda moglie oltre la legittima ancor vivente: «Per la sua pace e la salute dell’anima sua». [Notare le tante affinità con il pensiero modernista, ndr.]. Sapendo, però, che avrebbe suscitato con tale licenza troppa meraviglia e scandalo, lo supplica di tener la cosa celata; e quando ciò nonostante la cosa viene a trapelare, non ha alcuno scrupolo a smentirla con una palese bugia, come se con ciò avesse potuto distruggere il documento scritto e da lui firmato, e il fatto che il suo amico Melantone, in nome suo, aveva presieduto alla celebrazione del secondo matrimonio. Oh, come San Giovanni Battista avrebbe sfolgorato il falso riformatore col suo risoluto: «Non licet!». Grosse debolezze queste, è evidente; debolezze che sono certamente incompatibili col carattere di inviato del cielo; debolezze che non vengono compensate dalle altre qualità anche buone di Lutero, buone qualità che certo non saremo noi a nascondere o negare. (...) Può anche darsi che, accecato dal suo orgoglio e dalle passioni, abbia potuto illudersi e lusingarsi di esser sulla retta via, ma non può ammettersi che sia riuscito a persuadersene. Sono note infatti le tristezze interne da cui era tormentato, i sentimenti violenti di disperazione da cui era spesso assalito così fortemente da non sapere egli stesso in quei momenti «se fosse morto, o vivo» (T. R. n. 1059 ecc.). La coscienza non gli dava pace!

Ci siamo fermati forse troppo a lungo sulla persona di Lutero, ma era necessario. Lutero è la persona più eminente nel campo protestantico, l’iniziatore e l’ispiratore del movimento, il fondatore, il capo. II Protestantesimo sta a Lutero come effetto a causa. Il giudizio che si porta su Lutero si deve estendere necessariamente anche alla sua riforma. Questa è l’opera non di Dio, ma di un uomo passionale e violento. Sarà bene però rivolgere almeno uno sguardo anche agli altri due principali corifei: Calvino, fondatore dell’altro ramo del Protestantesimo, ed Enrico VIII, istigatore dello scisma inglese. I riformatori più recenti e fondatori di nuove sette non fecero che camminare nel solco tracciato da Lutero, Calvino ed Enrico VIII.

Calvino. È vero: tra i riformatori egli è la figura moralmente meno peggiore: dotto, energicamente volitivo, straordinariamente attivo e laborioso, disinteressato, severo. Eppure dell’esame della sua vita e dell’opera sua si ritrae la sensazione di trovarsi dinanzi a un uomo non simpatico. Egli è un fanatico esaltato, non di una esaltazione sentimentale e mistica, ma di una esaltazione intellettuale. È un uomo che freddamente ha concepito un piano, se ne è penetrato intimamente, e con una logica serrata e inesorabile, con un calcolo freddo e intransigente, senza tentennamenti, senza debolezze, senza riguardi passa ad attuarlo pienamente. Ma il piano concepito è ragionevole e giusto? I mezzi adoperati sono onesti? Queste considerazioni non hanno importanza per la mente di Calvino! I suoi ammiratori non approveranno questo ritratto, ma chi non è accecato dall’amore per lui non avrà alcuna difficoltà ad ammetterlo, (v. non solo gli storici cattolici, ma anche Renan in Etudes religieuses, M. Faguet in Etudes sur le XVI siècle, M. Brunetière in Conférence de Genève, ecc.) La vita di Calvino è presto e con poche parole narrata. Nacque a Noyon il 10 luglio 1509 e morì a Ginevra al vertice  della gloria e della potenza il 27 maggio 1564. A 12 anni riceve la tonsura per poter godere del provento di alcuni benefìci ecclesiastici e così mantenersi agli studi: non riceve però altri ordini sacri. Verso il 1526 comincia a subire l’influsso della corrente protestantica che andava penetrando in tutte le regioni d’Europa. Specialmente le teorie sulla grazia, somministrategli dal professore luterano Melchiorre Wolmar gli fanno impressione e lo attraggano. Però per allora rimane aderente alla vecchia Chiesa, anche quando nel 1531 gli muore il padre scomunicato per i suoi contrasti finanziari col capitolo di Noyon. Solo verso il 1533 i princìpi protestantici gli penetrano profondamente nell’animo e lo conquidono. Nell’antica Chiesa non vede più che corruzione ed inganno, e sogna di essere destinato alla grande impresa della riforma. In quell’anno, in seguito ad un discorso violento da lui composto e recitato da un amico è costretto ad allontanarsi da Parigi dove si trovava per ragioni di studio. Nel partire, ad un canonico in cui si imbatte confessa: «Poiché mi ci sono messo, andrò fino al fondo. Però se dovessi ricominciare non mi ci metterei più». Accolto nel 1536 a Ginevra, che si era data al Protestantesimo per poter più facilmente scuotere il giogo dei duchi di Savoia, fa di questa città il centro del suo ministero e della sua attività, ordinata ad attuare una riforma totalitaria ed un regime teocratico di governo. Dopo mille lotte e peripezie riesce ad attuare pienamente il suo sogno nella stessa città di Ginevra durante gli ultimi anni di sua vita. (1555 -1564).

Quali furono le caratteristiche della sua opera? a) Essa è fondata sull’orgoglio. Calvino calpesta ogni autorità: Chiesa, Papa, Padri, Concili, tradizioni secolari, non contano per lui. Una sola autorità egli riconosce infallibile: la propria testa. Dinanzi a questa suprema autorità tutti devono cedere e piegarsi, nemici ed anche amici. In Ginevra non tollera, non sopporta, non permette alcuna opinione, che anche di un pollice si differenzi dalla sua.

• b) L’opera di Calvino si regge e si dilata cogli intrighi politici, colle ribellioni, colle armi. Gesù aveva inviato i suoi discepoli e i suoi apostoli senza forza e senza appoggi umani, solo armati della verità evangelica e della protezione divina. Calvino si sostiene a Ginevra col terrore, coi processi, e colle esecuzioni inesorabili. Stende le sue fila sull’Italia, e più ancora sulla Francia, coll’istigazione alle congiure, e cogli attentati contro le legittime autorità. Coligny e Condè sono i suoi uomini di fiducia: le ribellioni degli Ugonotti e le guerre religiose in Francia, sono il frutto dei suoi intrighi.

• c) L’opera religiosa di Calvino è tutta pervasa di gelido rigorismo. Non un palpito che dilati il cuore, non il soffio dell’amore di Dio vi si nota, ma il freddo formalismo del servo verso il padrone. Dov’è nel Calvinismo il Dio del Vangelo, quel Dio che per amore dell’uomo invia il suo Figlio Unigenito al sacrificio della Croce, quel Dio umanato che non vuole la morte del peccatore, che cerca la pecorella smarrita, che sospira per il figliuol prodigo, che desidera la salute di tutti, che forma le sue delizie intrattenersi cogli uomini? Dov’è la coscienza nell’uomo, di potersi redimere dalle sue miserie e salvarsi ? L’uomo, secondo Calvino, necessariamente e ineluttabilmente, è trascinato alla colpa e alla rovina. È Dio stesso che a ciò lo muove per mostrare la sua giustizia. Solo pochi Dio crea e avvia alla salvezza. Che gelo orribile! Tanto orribile che i suoi discepoli si videro costretti a recedere in parte dalle dottrine più rigorose del maestro.

Enrico VIII. La sua storia è tristamente famosa e non è necessario insistervi. È chiaro che Enrico non ebbe di mira né una riforma morale religiosa, né un’adesione al Protestantesimo, ma soltanto volle sottrarsi all’autorità papale. Nel 1521 contro l’opera di Lutero «Cattività di Babilonia» scrisse il libro: «Assertio septem Sacramentorum» in cui così validamente difese la dottrina cattolica, da meritarsi da Leone X il titolo di: «Difensore della fede» e da Clemente VII la rosa d’oro; da Lutero invece una risposta indicibilmente sconcia e villana. Enrico allora fece comporre da Tommaso Moro e da Giovanni Fischer una nuova confutazione contro l’eresiarca. Soltanto più tardi si rivolse a Lutero, ma per ottenere un parere favorevole al suo divorzio. Del resto anche dopo, sotto il regno di Enrico, il Protestantesimo non si sovrappose allo scisma dalla Chiesa Cattolica: solo si diffuse e trionfò più tardi sotto il regno di Elisabetta, e sotto la dittatura di Cromwel. Enrico VIII volle sottrarsi alla potestà papale non per un pretesto appariscente, per un motivo religioso, per un desiderio di riforma, ma per soddisfare alle sue basse voglie. Si era pazzamente invaghito di una giovane dama di corte, Anna Boleyn e la voleva sposare ad ogni costo, nonostante fosse già legittimamente legato in matrimonio con Caterina d’Aragona. Ecco il nobile motivo della lotta di Enrico VIII contro la Chiesa Cattolica! Il Papa non volle, né poteva accondiscendere alla conferma del divorzio regale: ebbene il Papa non  sarà più riconosciuto. Se Clemente VII, calpestando la coscienza e l’onore, lacerando le pagine più belle del Santo Vangelo, avesse ceduto dinanzi a Enrico, l’Inghilterra non si sarebbe separata da Roma. Può esser giudicata impresa di Dio quella che è determinata da motivi così indegni? Può esser stimato strumento di Dio un re che ripudia la sua legittima moglie dopo vent’anni di matrimonio e dopo averne avuti parecchi figli, per congiungersi con un’altra donna? Un re che per raggiungere il suo sozzo scopo non esita a ricorrere alla corruzione più sfacciata, per ottenere dai grandi e dai potenti del regno l’approvazione del suo passo fatale? Che per questo non dubita di suscitare uno scisma e di spargere a torrenti tanto sangue innocente? Che passa con una facilità sorprendente e disinvolta da una donna all’altra? Dopo il divorzio da Caterina di Aragona, si congiunge in matrimonio nel 1533 con Anna Boleyn, ma, invaghitosi di Jane Seymour, fa dichiarare nullo il matrimonio con Anna che viene decapitata nel maggio 1536 per supposto adulterio. Morta poi anche la Seymour poco tempo appresso, egli si unisce nel gennaio 1540 con Anna di Clèves: abbandonata presto costei sposa nel luglio 1540 Caterina Howard che pure finisce sul patibolo nel 1542. Finalmente il 1542 vede il sesto ed ultimo “matrimonio” di Enrico con Caterina Parr.

Ecco quale fu il fondatore della “chiesa” Anglicana! È vero: egli riesce a realizzare il sogno di sottrarre sé e l’Inghilterra dalla supremazia papale: ma per imporre con raggiri, promesse, minacce e violenze senza numero la supremazia sua sopra la Chiesa. Quando mai Gesù affidò l’incarico di reggere la sua Chiesa a re ed a potenti della terra? Enrico stesso si rese conto che la sua supremazia sulla Chiesa era in contrasto colla volontà di Dio, colle tradizioni millenarie della Chiesa, col sentimento del clero e popolo d’Inghilterra e non si fondava che sul suo solo arbitrio regale. L’«Atto di supremazia», ratificato dal Parlamento nel novembre 1534, mentre solennemente proclama la supremazia ecclesiastica del re e la impone con pene severe contro tutti gli oppositori senza addurne ragione alcuna, è chiaro ed eloquente indizio della novità e dell’arbitrarietà della cosa. Tali essendo i fondatori, non è meraviglia che anche al Protestantesimo sia riuscito una impresa disgraziata e disastrosa. Sì; il Protestantesimo non fu una riforma ma una distruzione. Ciò è quanto abbiamo brevemente indicato fin dal principio del nostro opuscoletto; ora cercheremo di mostrarlo.

Il Protestantesimo fu distruzione della morale. Lo si era inaugurato come una reazione alla corruzione dilagante, e invece non fece che aggiungere corruzione a corruzione. Non c è bisogno per persuadercene che impieghiamo molto tempo a compulsare i documenti dell epoca. Ci basti ricordare il furto con dilapidamento sacrilego dei beni della Chiesa, per impinguare i già grassi signori, senza che il popolo ne ricevesse il più piccolo vantaggio: ci basti accennare agli orrori inauditi e selvaggi della ribellione dei contadini e della sua feroce repressione. Del resto Lutero lo ammette esplicitamente. Egli stesso depreca con frasi forti e sdegnose la corruzione senza pari del centro della riforma di Wittemberg, che gli fa quasi rimpiangere, sotto questo aspetto, l’epoca del Papismo. I capi della città danno esempi scandalosi di lussuria e di avarizia insaziabile, (v. Tischreden IV n.n. 4073-4381). L’anno 1539 scrivendo a Giovanni Mantel si lamenta: «Come Loth soffro il martirio in questa abominevole Sodoma » (Erl. LV, p. 250). Non aspetta che la fine del mondo che ponga termine a tanti mali. Finalmente nel luglio 1545, stomacato di tanto fango, si allontana da Wittemberg, e da Feitz scrive alla moglie: « Il mio più grande desiderio sarebbe di non più tornare a Wittemberg. Vendi tutto, giardino, campo e casa... Il meglio per te sarà di partire prima della mia morte e di stabilirti a Fulsdorff... Vattene dunque: abbandona questa Sodoma» (Enders XVI, p. 270). Né poteva essere diversamente! Non vogliamo con ciò affermare che i Protestanti siano tutti perversi, e che solo i Cattolici siano moralmente buoni. No! Ma mentre il male è contrario ai princìpi cattolici ed esplicitamente e vigorosamente da essi condannato, non si può purtroppo affermare lo stesso del Protestantesimo. Se l’uomo non è libero di evitare il male, come si può ragionevolmente insistere perché lo fugga? Quale forte pretesto non è mai questo per chi è tentato ad abbandonarsi senza resistenza alle perverse inclinazioni! La fede nei meriti di Cristo supplirà alle umane debolezze! [: quanta utopia, quanta ignoranza, quanta eresia, ndr.]. Dunque quel tanto di moralità e di virtù che ancora si può ammirare presso singoli Protestanti, si dovrà ascrivere non alla loro religione, ma ad altre cause, al lume del buon senso non ancora spento, alla forza delle esigenze sociali, alla coercizione delle leggi umane.

Il Protestantesimo fu distruzione delle verità dogmatiche. La cosa è tanto manifesta che non ha bisogno di lunga dimostrazione. Quot capita tot sententiae! è la conseguenza logica e necessaria del principio del libero esame, e della follia di interpretare individualmente, e contro la Chiesa, la Bibbia. Già lo rilevava anche Lutero ai suoi tempi: «Nella riforma quasi tante sette, quante teste» (Weimar XVIII, p. 547). Si tentò allora di sopprimere la pluralità di opinioni con la violenza o col progettare adunanze di Concili: ma a che prò, se non esiste sulla terra alcuna autorità religiosa infallibile? La dissoluzione dogmatica del Protestantesimo è diventata ormai una cosa spaventosa. Quale verità, quale dogma è rimasto incolume? Non si è messa in dubbio la stessa divinità di Gesù Cristo? Non vediamo noi oggi la corrente cristiano-tedesca sotto la guida del cosiddetto vescovo del Reich tentare di interpretare la persona e l’opera di N. Signore secondo il mito ariano?

Il Protestantesimo fu distruzione dell’organizzazione ecclesiastica. In luogo della gerarchia fornita di potere di ordine e di giurisdizione, e connessa agli Apostoli attraverso una lunga serie ininterrotta di Vescovi, non abbiamo che dei pastori senza poteri e senza vero prestigio, regolati e governati essi stessi dalla comunità dei fedeli. In luogo dell autorità di coloro che Gesù stesso pose a reggere la Chiesa sua, abbiamo lo strapotere dello stato. Si è abbattuta l’autorità legittima del Papa, e si è caduti sotto l’imperiosa schiavitù dei prìncipi! «Cuius regio, eius religio!»: Ecco la massima vigente nella riforma. Quale stato umiliante per la fede di Cristo! Caso tipico accaduto ai nostri giorni. I cosiddetti ecclesiastici ed i sedicenti vescovi della “chiesa” Anglicana stabiliscono di portare alcune riforme al libro liturgico di preghiera (Prayer Book): ma il Parlamento britannico non è dello stesso parere, e la riforma inesorabilmente cade. (Anno Domini 1927)! Le questioni della liturgia e del dogma soggette ad un profano parlamento in cui siede anche gente di religione diversa, o anche senza alcuna religione! Si può dare assurdità maggiore?

II Protestantesimo non solo ha portato la distruzione nel campo ecclesiastico, ma pure in quello scientifico, sociale e civile. Interessante sarebbe seguire gli influssi deleteri del Protestantesimo in tutti questi campi; ma la tirannia dello spazio non ci permette che di accennarvi di sfuggita. Il principio del libero esame ha portato nel campo scientifico e sociale a quasi tutti gli errori moderni, segnatamente al razionalismo, all’idealismo, al materialismo con tutte le sue propaggini di ateismo, socialismo, bolscevismo. Nel campo strettamente civile, oltre alle conseguenze sopra accennate, è da riconoscere l’infaustissimo liberalismo come figlio genuino del Protestantesimo, e la statolatria come derivazione della totalità di poteri conferiti ai governanti. Sommo danno al vivere civile fu poi la disgraziatissima separazione dell’Europa in due campi. Chi può immaginare gli sviluppi meravigliosi che la causa della civiltà e della pace avrebbe avuto se l’Europa fosse rimasta unita e compatta anche nei campo religioso? Chi stenterà ad ammettere che l’evangelizzazione e la civilizzazione dei popoli barbari sarebbe ormai di molto assai progredita se non del tutto compiuta? Se l’Inghilterra [che ha colonizzato mezzo mondo, ndr.], per esempio, fosse rimasta cattolica, non è evidente che ora la vera Chiesa di Cristo già si assiderebbe trionfante su tutti i continenti?

Oh sì, concludiamo: il Protestantesimo non fu un'opera di riforma, ma di rovina; non fu un progresso nel bene, ma un regresso verso il caos del male: Per causa sua l’Europa, la Civiltà, il Cristianesimo rimasero gravemente feriti!

Per il P. Carlo Bozzola e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +

A cura di CdP