Comunicato numero 213. La verità su celibato e continenzaStimati Associati e gentili Sostenitori, per introdurre l’argomento di oggi raccontiamo un episodio accaduto a Nagasaki il 17 marzo 1865. Il P. Petitjean è appena entrato nella Chiesa dei Martiri, e non ha ancora terminato la sua breve preghiera di adorazione, quando tre sconosciute gli si inginocchiano davanti e, accennando col gesto a un gruppo di altre sei o sette persone, gli dicono: «II cuore di tutti noi che siamo qui presenti è lo stesso del cuore tuo». L’espressione del viso ed il tono della voce rassicurano il missionario, il quale capisce subito di trovarsi fra amici. Infatti constata con sorpresa che conoscono il nome di Dio, di Gesù e di Maria. Da quando i preti occidentali avevano rimesso piede sul suolo Giapponese, quei cristiani erano venuti studiandone, inosservati, la vita e le abitudini. Il loro cuore aveva sussultato di gioia; la voce era corsa: son essi! Ora erano lì, ai piedi del missionario, per ossequiarlo e per dissipare un ultimo dubbio, un grave dubbio. — Avete figli?, chiede timidamente Pietro Domingo. — Voi e i vostri fratelli pagani e cristiani del Giappone siete i figli che il buon Dio ci ha dati e non pensiamo di averne altri. Il prete, come i vostri primi missionari, deve mantenere il celibato per tutta la vita. A questa risposta del Padre, Pietro e i suoi compagni si chinano fino a terra, esclamando: «Essi sono vergini! Grazie! Grazie! Virgen degotaru! O arigato! O arigato!». E non sanno come esprimere la loro riconoscenza e la loro gioia. Secondo le precise istruzioni degli eroici loro antenati, tre erano i segni dai quali avrebbero infallibilmente riconosciuto i veri missionari cattolici: il celibato, il culto di Maria e l’ubbidienza al Papa. Episodio questo soffuso di candore e semplicità tutte orientali; ma molto significativo. Parliamo, dunque, di celibato. Come principale fonte utilizzeremo un prezioso opuscolo della collana S.O.S.: «Cuori che non amano», Angelo Capitta, Serie VI, numero 102, imprimatur  18 settembre 1944.

Il celibato è il segreto della grandezza e della perenne giovinezza del clero cattolico. Di più: è l’arma di tutte le sue conquiste. Questo hanno compreso anche i suoi nemici; i quali con palese mala fede strombazzano ai quattro venti i veri o presunti scandali del prete (n.b. l’Autore scrive negli anni ’40, quando le nostre chiese NON erano occupate da orde di scandalizzatori modernisti travestiti da preti, ndr.), e niente lasciano d’intentato per screditare e avvilire il celibato ecclesiastico, in faccia al mondo. Ad essi vorremmo giungesse la nostra parola. Non per smania di rabbiosa polemica o d’interessata apologia, ma per uno scopo più nobile e più degno.

Oggi si fa un gran parlare di ricostruzione sociale; e va bene. Una cosa però, vorremmo non si dimenticasse. Tale ricostruzione non può riuscire efficace e duratura se non a una sola condizione: che muova dal campo dello spirito e poggi sulla decisa e netta affermazione degli eterni valori religiosi e morali, non su quelli effimeri e contingenti della materia. In questo senso il celibato ecclesiastico conserva ancor oggi il suo significato, e ha una lezione sommamente utile ed importante da dare alle brancolanti e anemiche generazioni moderne. «La causa da difendere, la bandiera da rialzare solennemente in faccia al mondo», ha scritto il Dott. Mariano Lepore, («La Purezza forza del Corpo», Torino, Marietti, 1938, pag. 8) «è la purezza. Questa virtù è il segreto delle razze forti, è la sorgente delle famiglie, è l’avvenire e la grandezza materiale di un paese». Possano le nostre parole tornare non disutili alla rigenerazione religiosa, morale e sociale di questa Italia, che è la terra prediletta di Cristo e del Suo Vicario, e che noi amiamo tanto. Ad essa dedichiamo queste pagine.

Origine e sviluppo storico. Per queste note storiche ci siamo serviti abbondantemente del Todesco - «Storia della Chiesa», Torino, Marietti, 1938, Volume II, pag. 326-329 ; e di Ries - «La Castità e la Chiesa», Milano, Vita e Pensiero, 1939, Trad. Palin, pag. 185-198. S’è posta la questione: il celibato è un’istituzione d’origine divino-apostolica oppure ecclesiastica? La risposta non è unanime tra gli studiosi cattolici: c’è chi propende per la prima, e chi per la seconda sentenza. Comunque, una cosa è certa. Già fin dagli inizi del Cristianesimo numerosi furono coloro, i quali rinunciavano alla vita coniugale o al matrimonio per potersi più speditamente dedicare al sacro ministero e insignirsi, agli occhi del popolo, della paternità spirituale. Le testimonianze dei Padri e degli Scrittori Ecclesiastici non ci permettono dubbi su questo punto. Particolari condizioni storiche e psicologiche determinarono un diverso attuarsi della disciplina celibatana nei paesi orientali e latini. In Oriente, sotto l’influsso delle eresie e del cesaropapismo bizantino, si sviluppò una disciplina più larga, codificata nel 692 dal Concilio Trullano o Quinisesto. Per essa, Greci e Orientali di rito cattolico, non possono contrarre matrimonio dopo il Suddiaconato, mentre, persone sposatesi precedentemente, possono essere ammesse agli Ordini sacri e continuare poi nell’uso del matrimonio. Tali sacerdoti sposati non possono però, in caso di vedovanza, passare a seconde nozze, né esser eletti vescovi. Anche presso i Greci e gli Orientali, i monaci, sacerdoti o no, professano perfetta castità. Una prassi più rigida fu adottata nella Chiesa latina, sopratutto dopo l’editto di Milano (313). Il canone 33 del Concilio di Elvira (306) che intimava ai vescovi, presbiteri e diaconi l’obbligo di separarsi dalla consorte, pena la deposizione, confermato più tardi dai papi Siricio, Innocenzo I e Leone I, il quale ultimo lo estendeva anche ai suddiaconi, dovette, è vero, superare lentezze, incertezze ed ostacoli, ma poderosamente propugnato da Ambrogio, Girolamo, Agostino e Cesario d’Arles, finì col trionfare. Nel medio evo la disciplina del celibato segue un’alterna vicenda, finché decade quasi universalmente lungo il secolo di ferro. Le cause: simonia e ingerenza oppressiva del potere laico nell’elezione dei Pontefici e nella nomina dei Vescovi; attori principali di quel dramma epico: Gregorio VII ed Enrico IV; epilogo: il Concilio Lateranense del 1123, il quale, sotto Callisto II, dichiarava canonicamente nullo il matrimonio contratto dopo l’Ordinazione. Così veniva stabilito irrevocabilmente e per sempre l’impedimentum ordinis. In seno all’Umanesimo d’indirizzo pagano non potevano mancare, e non mancarono di fatto, attacchi e satire velenose contro il celibato e il matrimonio; ma furono cose di poco rilievo. Venne infine Lutero: con lui e per lui la furia di Odino si riversò sul settentrione d’Europa, travolgendo in un incendio di fuoco e di lussuria chiese e conventi, e «le miserabili e micidiali follie di antiche sette furono immesse nel patrimonio della civiltà moderna e codificate nelle moderne legislazioni»  (Ries, op. cit., pag. XI). La Controriforma Cattolica iniziata dal Concilio di Trento (1545-1563), caldeggiata e promossa potentemente da Pontefici, Santi e Ordini religiosi, arginò e contenne il diluvio dell’eresia, e restituì nel suo antico fulgore l’osservanza del celibato ecclesiastico. Dopo d’allora, dobbiamo discendere, in Francia al tempo della dannata Rivoluzione; in Germania, al secolo scorso, e in Cecoslovacchia, al dopo guerra del 1914-1918, per trovare defezioni e movimenti anticelibatari di una qualche entità: ma furono fatti e tentativi locali, presto falliti. Arriviamo così al nuovo Codice di Diritto Canonico (1917), il quale ha fissato per sempre nei seguenti termini la prassi della Chiesa Romana in ordine al celibato. (n.b. noi crediamo che il cosiddetto C.d.C. del 1983 non abbia alcun valore in quanto promulgato da un non papa. Testimonianza ne sono, fra le altre, le pretese leggi peccaminose che esso contiene, ndr.).

La legislazione attuale. 1. — Coloro elle hanno ricevuto uno degli Ordini maggiori (suddiaconato, diaconato, presbiterato), non possono contrarre matrimonio, sono obbligati a osservare perfetta castità e, violandola, si rendono colpevoli di sacrilegio, (can. 132 par. 1). 2. — I chierici che abbiano ricevuto solo la tonsura o gli Ordini minori (ostiariato, lettorato, esorcistato, accolitato), possono contrarre matrimonio, ma per ciò stesso scadono dallo stato clericale (can. 132 par. 2). 3. — Invalido e nullo, davanti a Dio e alla Chiesa, è il matrimonio attentato da chi ha un Ordine maggiore: tali unioni sono veri concubinati (can. 1072 e 1073). 4. — Vivendo la moglie, il marito non può, senza dispensa della S. Sede, ricevere gli Ordini maggiori (can. 132 par. 3). Tale dispensa, poi, non si suole concedere se non alla condizione che la moglie, affatto spontaneamente e col consenso del marito, entri in un Ordine Religioso. Nessuna legge ostacola l’accesso agli Ordini ai vedovi che non abbiano contratto più d’un matrimonio.

Impostazione della questione. Per quasi venti secoli la Chiesa Cattolica, con un’energia e decisione non facilmente riscontrabili in altri pur gravi affari d’ordine religioso e sociale, ha impegnato a fondo il peso della sua divina autorità a favore del celibato, contro ostacoli interni ed esterni d’ogni genere. Questo cosa ci dice ? Che ci troviamo di fronte ad un elemento di vitale interesse per la sua vita e per la civiltà. Infatti la legge del celibato, — come osserva anche un autore moderno —, (Ries, op cit., pag. 137), «investe tutte le relazioni della vita sacerdotale, ecclesiastica e sociale, e fu accompagnata in ogni tempo da effetti di vastissima importanza, di carattere storico mondiale e sociale». Disciplina così severa esige un’adeguata giustificazione. Né varrebbe allo scopo tirare in ballo la presunta tirannica ingerenza della Chiesa Romana. Per due motivi. Primo, perché alla Chiesa, come a qualunque altra società umana, compete l’inviolabile diritto di scegliersi i ministri alle condizioni meglio rispondenti al suo fine soprannaturale. Secondo, perché la stipulazione di questo speciale contratto bilaterale è perfettamente libera, accettata coscientemente, dopo lungo esperimento a corpo e mente sani, e in età conveniente (almeno 21 anni) dal candidato al Suddiaconato. Del resto, il voler appellare a tale presunta tirannia, sposterebbe — a nostro parere —, non risolverebbe i dati della questione. Sempre rimarebbe da chiedersi: perché mai la Chiesa abbia fatto uso di poteri così eccezionali, in materia che incide tanto sensibilmente sulla libertà individuale, e ne sopprime l’aspirazione legittima a creare una famiglia? Ebbene, la ragione c è, sapientissima. La dignità e gli uffici del Sacerdote.

Giustificazione del Celibato. È opinione comune agli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che la continenza racchiude in sé un qualche cosa di celeste che innalza l’uomo e lo rende accettevole alla Divinità; per necessaria conseguenza, che ogni funzione sacerdotale, ogni atto religioso, ogni cerimonia sacra, poco o nulla si accordano col matrimonio. Se ciò è vero d’ogni antico sacerdozio, a più forte ragione lo è di quello cristiano. Vi siete mai domandati chi sia il prete? La nera veste talare, la sua vita dicono subito che non è un uomo come tutti gli altri. Ma lo avete considerato al lume della Fede ? La fede ci scopre nel prete un essere privilegiato, unico al mondo; una persona sacra, non proprio per una libera convenzione internazionale, ma per suprema volontà di Dio, il quale in forza d’una vocazione speciale l’ha segregato dal mondo, e in forza di una speciale consacrazione spirituale l’ha innalzato alla sublime dignità di suo ministro, cioè di intermediario ufficiale tra l’Altissimo e gli uomini; di «alter Christus» e di continuatore dell’Opera redentrice attraverso i secoli; di ministro dell’Eucaristia e della Penitenza; di dispensatore della grazia mediante gli altri Sacramenti; di luce del mondo e di sale della terra; di banditore del Vangelo alle genti; di medico e pastore delle anime, di padre dei poveri; di tutore dei supremi interessi di Dio sulla terra. Tutto ciò è, senza dubbio, grande, nobile, santo; sufficiente per se medesimo a darci un’idea alta del sacerdote, e a collocarcelo al centro del quadro divino della Redenzione, circonfuso d’un’aureola celeste. (n.b. ci riferiamo, ovviamente, ai veri sacerdoti. Nulla a che vedere con i tanti modernisti travestiti da preti che oggigiorno occupano abusivamente le nostre chiese, ndr.). Introdurre nella cornice di questo quadro una donna; stringere il sacerdote coi vincoli d’umana passione, nel fascino traviatore di fugace bellezza, sarebbe — a detta di Balmes (Cfr. «Obras Completas», IV Del Clero Cattolico, Barcellona, Biblioteca Balmes, pag. 12-13) — un distruggerne la grandiosità, rimpicciolire il sacerdote, minorarne la dignità, scemarne il prestigio. La ragione? Perché, se n’andrebbe quella speciale consacrazione ch’è nella continenza. Perché — secondo un’espressione del Michelet (Cfr. De Maistre, «Du Pape», pag. 360-61, citato dagli Editori) — anche nel matrimonio più santo il cuore più saldo perde qualche cosa di sé. Perché, infine, tutto ciò meno si confà con l’austerità dello stato clericale e con la santità eminente, che necessariamente esige. Infatti sarebbe ingenuo e falso credere, che il matrimonio preserverebbe il sacerdote dagli stimoli della carne e da miserande cadute: esso non ne preserva neppure i secolari, i quali, per trovarvisi più esposti, troppo spesso e malauguratamente vi cadono. Di più, nel caso che il matrimonio dovesse precedere l’ordinazione sacra, esso distrarrebbe il candidato dallo studio serio e da quella matura formazione spirituale ed ascetica, che sono condizione indispensabile di successo, e che sole si trovano dov’è raccoglimento e pace interiore. Comunque, il matrimonio, costituendo il sacerdote oggetto e centro d’umane e interessate contese, non lo sottrarrebbe certo a quei mille pericoli, pettegolezzi, scandali, e vendette che, di solito, vi si collegano. Sopratutto, il popolo difficilmente ascolterebbe volentieri la parola d’un uomo il quale, chiamato per dovere a predicare una morale purissima e di perfezione, non la osservasse lui medesimo. Peggio, poi, se la moglie, i figli non fossero fiori di donna e di ragazzi; se lui stesso, irretito entro raggiri muliebri, si prestasse facile gioco alle loro suscettibilità e velenose gelosie: sempre, ma irrimediabilmente in questo caso, egli vedrebbe l’opera sua paralizzata, derisa dai buoni e dai malevoli, e il suo confessionale deserto. La confessione da sola, esige il celibato. Mai le donne, di cui bisogna particolarmente tener conto su questo punto, accorderebbero una confidenza piena al prete ammogliato.  Finanche il folle Nietzsche trovava bensì logico che Lutero avesse tolto ai pastori protestanti la confessione auricolare, ma aggiungeva che con ciò «di pari passo era spacciato nella sua ragione basilare il sacerdote cristiano» (Ries, op. cit., pag. 208). Infine: parlare a questo povero prete, tutto assorto nelle preoccupazioni materiali della famiglia, parlargli di preghiera, di zelo delle anime, di milioni d’infedeli da ricondurre al vero Dio; di poveri da soccorrere, d’istituzioni di carità da alimentare; di diritti della Chiesa e degli oppressi da tutelare di fronte e contro le prepotenze dei governi e delle sette, a costo di spogliazioni e della stessa vita; in una parola, parlargli degl’ideali apostolici della sua vocazione sarebbe un fuori luogo: correreste pericolo di vederlo scrollare le spalle, e «mio caro», rispondere, «ho ben altro per la testa: uxorem duxi!». Un prete siffatto, potrebbe forse piacere a taluni cristianelli all’acqua di rose, e agli affiliati di talune sette, ma costituirebbe un allarmante pericolo per la Chiesa, di cui potrebbe, a ogni momento dilapidare i beni per arricchirne sé, i figli e i nipoti; allarmante pericolo anche per la civiltà, cui verrebbe a mancare, a poco a poco la luce confortante del Vangelo e il salutare fermento di una vita integralmente cristiana. Queste ragioni, prese nel loro complesso, sono certamente forti e tali da non ammettere replica.

Accuse contro il celibato. Tuttavia, bisogna confessarlo, i moderni denigratori del celibato non sembrano darsene gran conto; prescindono anzi da ogni ragione d’indole religiosa: preferiscono sferrare i loro attacchi su altro fronte, mettendo — come si vuol dire — la scure alla radice stessa del male. Negando la possibilità e la moralità d’ogni raffrenamento degli istinti sessuali per ciò stesso scalzano dai suoi presupposti naturali ed essenziali il carattere virtuoso del celibato ecclesiastico. L’importanza dell’argomento, esige che, per un momento, seguiamo i nostri nemici sul loro terreno di battaglia, esaminando il problema della purezza nei suoi termini più generali. Se ci riuscirà di dimostrare inconsistenti e nulle le moderne accuse contro la continenza, avremo per ciò stesso rivendicato al celibato i suoi pieni diritti di cittadinanza nella repubblica delle virtù e dei valori sociali.  Antinaturale. C’è chi dice: il celibato è antinaturale perché in perfetta antitesi con l’istinto della natura. E altri: il celibato è antinaturale perché nocivo alla salute. Vediamo separatamente le due posizioni. «[...] La sentenza detta da Dio: Crescete e moltiplicatevi, è non un precetto, ma più che un precetto, cioè un’opera divina... ed è altrettanto necessario... e più necessario che mangiare e bere, purgarsi ed espettorare, dormire e vegliare. Si tratta di una natura e qualità ingenita [.....]» [Denifle, «Lutero e Luteranesimo», Roma, Desclée, (Trad. Mercati) 1925, pag. 294 Nota 2.a). È il grande argomento di Lutero e dei suoi discepoli, più o meno coscienti. Molto ci sarebbe da dire. Limitiamoci a brevi osservazioni. Prima di tutto, il passo del Genesi (I, 28) tirato in ballo da Lutero esprime non un precetto, ma una benedizione; o, se si vuole, importa sì un comando, ma diretto non ai singoli individui, ma agli uomini in generale, alla famiglia umana. In secondo luogo che dalla presenza d’un organo e di una facoltà se ne deduca la necessità d’esercizio; che cioè, si voglia collocare sul medesimo piano d’azione e di valori l’istinto della conservazione propria e l’istinto della propagazione della specie — ci sembra un manifesto paradosso, smentito decisamente dalla scienza e dall’esperienza (Cfr. D’Alès, «Dictionaire apologétique de la Foi catholique», T. I, ecc. 504-506, sotto la voce «Chasteté». Ed altrove: l’Autore cita numerose fonti, ndr.). Di cibo e di bevanda abbiamo incessante bisogno, fin dal primo istante della nostra vita. Non così dell’istinto sessuale: tant’è vero che esso si manifesta l’ultimo, durante la pubertà, e scompare il primo, con la vecchiaia; inoltre, eccitato prematuramente e soddisfatto smoderatamente è dannoso all’individuo, alla famiglia ed alla specie (basti pensare ai tanti pervertimenti che stanno distruggendo la moderna società, ndr.). Infine studiato dal punto di vista fisiologico, esso si presenta, sia nell’animale che nell’uomo, come «funzione facoltativa , come «attitudine», non mai come «necessità» ineluttabile. Unica la differenza: nell’animale è regolato da leggi cieche, nell’uomo dalla ragione. Se in quest’ultimo, a volte, può e deve parlarsi di necessità, lo è solo di necessità «passionale», contratta con l’abitudine peccaminosa, non di necessità «fisiologica». Fare appello a «voce di natura», a «qualità ingenita» è un non aver ancora compreso cosa sia voce di natura e dell’istinto. Quale istinto più radicato e potente di quello della vita ? Eppure, quante volte, il farne getto per salvare un’esistenza preziosa, per difendere la Patria, è un nobile eroismo od un preciso dovere! E perché non si potrebbe fare tacere l’istinto sessuale in vista appunto di ideali più nobili e generosi? Un ultimo appunto che si muove al celibato è quello di serrare in una fredda solitudine il cuore del sacerdote e del religioso, e di chiuderlo alle gioie dell’amore e di quella pura e santa amicizia, che lega l’un l’altro il cuore dei due sposi cristiani, rendendo così soavi e leggieri i pesi della loro vita. Ebbene il contatto continuo e cordiale del sacerdote con la grande famiglia delle anime (non sono forse sua famiglia i fanciulli, i giovani, i poveri, i membri tutti della parrocchia, dell’associazione?...), la molteplice attività apostolica, lo studio, e sopratutto il contatto intimo con le supreme realtà della Fede — mediante la vita di preghiera — sono più che sufficienti a dissipare ogni senso di solitudine. Ma il suo cuore non è chiuso neppure al caldo soffio dell’amore e dell’amicizia; solo ne è nobilitato l’oggetto, Dio. Neppure la donna esula completamente dalla sfera del suo amore. Maria, l’immacolata, la più bella e amabile di tutte le creature, sta continuamente davanti ai suoi sguardi e costituisce, dopo Dio, tutto l’oggetto del suo amore tenero ed entusiasta. Così anche nell’ordine della grazia niente è soppresso di quelle che sono le legittime aspirazioni del cuore umano. Tutto vi è anzi nobilitato, perfezionato, reso più saldo. Antigienico? Esaminiamo ora il quesito se la continenza perfetta non costituisca un serio pericolo per la sanità. Qui, evidentemente, l’unica autorità competente è la Medicina: ad essa lasceremo tanto più volentieri la parola, convinti come siamo che nessuna seria opposizione potrà mai esservi tra Scienza e Fede. Il Dott. Escande, della R. Università di Tolosa, nella sua tesi di laurea ha così formulato il verdetto della Scienza: «Non vi è alcuna malattia dovuta alla continenza» (Cfr. Dott. Henry Bon, «Medicina e Religione», Torino, Marietti, 1940, p. 173-74, dove reca altre preziose conferme. Testo molto interessante e rigoroso con tante pagine dedicate ai Santi medici, ndr.). La conferenza internazionale di Profilassi Sanitaria, tenutasi a Bruxelles nel 1902, dopo aver citato oltre centocinquanta celebrità mediche del mondo intero, votava all’ unanimità quest’ordine del  giorno: «Bisogna insegnare ai giovani che non solo la purezza e la continenza non sono nocive, ma che anzi queste virtù sono le più consigliabili dal punto di vista medico» (Hoornaert, «A coloro che hanno vent’anni», Roma, Ferrari, 1923, Trad. Colazzi, pag. 196). Più categorica è la dichiarazione della Facoltà di Medicina dell’Università di Cristiania: «Non conosciamo alcun caso di malattia e nessuna forma di debolezza che si possa attribuire a una condotta perfettamente pura e morale » (Dott. Antonelli, «Per l’igiene e la morale», Roma, Pustet, 1930, pag. 94-95). Da noi, in Italia, il Prof. Luigi Scremin, ha realizzato qualche cosa di più. Tra il 1920-40, ha consultato in proposito le autorità mediche più illustri e famose d’Europa e d’America, ed ha raccolto in un opuscolo le risposte di più che ottanta di questi specialisti, raggruppandole secondo le cinque categorie di appartenenza dei singoli sanitari. Risposte tanto più sincere in quanto che redatte in forma privata e confidenziale, e non per la pubblicità. Il punto su cui tutti incondizionatamente convengono è di asserire che «ogni malattia vera e propria è esclusa», e che quindi la «continenza, nel senso più stretto della parola, la severa norma morale, non è per se stessa in contrasto con le esigenze dell’igiene e può (come deve) essere proposta e consigliata ai giovani come sicura e nobile norma di vita» (Scremin, «La continenza giovanile sessuale e l’igiene», Torino, Lice, 1943, pag. 13). Queste testimonianze ci sembrano più che sufficienti a confermare una tesi del resto moralmente evidente e che solo la passione impugnerà sino alla fine del mondo. Impossibile. «Non ci riesco! Impossibile», è la parola dei fiacchi, dei vili, dei naufraghi; di quanti, insomma, sono al punto di disertare dal posto di combattimento. «Non ci riesco! Impossibile!». Lo pensava anche Agostino. Nell’angosciosa lotta che precedette la conversione, vide comparirsi davanti «la casta dignità della Continenza, improntata a pudica, e severa allegrezza. [.....] Fanciulli e fanciulle, giovani numerosi e persone d’ogni età» le facevano corona. «E mi guardava », dice il Santo «con un sorriso ironico per farmi coraggio, quasi volesse dirmi: non potrai tu fare quello che sono stati capaci di fare questi e queste?» (Conf. 1. VIII, c. 11). Oh, a quanti giovani moderni, traviati e scoraggiati, la casta Continenza potrebbe rivolgere, come al sensuale Agostino, l’ironico ammonimento! Parecchi medici, di quelli citati dal Prof. Scremin, quando trattasi di rispondere al quesito se sia possibile o no conservarsi casti nel bollore degli anni, non sanno far di meglio che appellarsi alla propria esperienza personale maturata nei più svariati ambienti giovanili, e all’esempio luminoso del clero cattolico. Mons. Olgiati ha interrogato direttamente i giovani della sua Associazione giovanile: soldati, operai, studenti. Confessioni candidissime che si fanno solo al sacerdote. Questi giovani affermano: sì, è possibile perché noi stessi lo siamo («I nostri giovani e la purezza», Milano, Vita e Pensiero, E. 4.a, 1921). E, personalmente, sappiamo di centinaia e centinaia di giovani eroici e illibati i quali, nel mondo, hanno consacrato a Dio, con voto, la loro purezza. Davanti alla solenne e quotidiana smentita dei fatti, non mette la pena attardarsi a confutare il grido insano e spudorato di quanti ci vanno ripetendo: impossibile! impossibile! Certamente non è facile conservarsi casti a lungo: anzi è praticamente impossibile, abbandonati unicamente alle proprie forze naturali, senza la grazia di Dio. Ma questa grazia non viene negata a nessuno che la chieda a Dio con cuore umile e sincero. Sincerità che richiede una vigilanza continua e la rinuncia a tutte quelle cause di eccitazione, letture, compagnie, spettacoli, che pongono sulla china sdrucciolevole del peccato. Lanciarsi volontariamente tra le fiamme, e pretendere di non bruciare; per puro capriccio, destare e stuzzicare quella parte di bestia ch’è in noi, e pretendere di non restarne offeso, sarebbe da stolto e da temerario. Ma a chi lotta con pura volontà, la grazia di Dio non manca e la vittoria è sicura. Quindi se a tutti è difficile la castità (meno, però ai sempre puri, più ai naufraghi e recidivi;) impossibile, essa non lo è mai: per nessuno. Sopratutto ove, alla preghiera, all’uso frequente dei Sacramenti della Confessione e Comunione, alla devozione figliale alla Madonna, alla pratica giudiziosa della mortificazione cristiana, alla fuga delle occasioni pericolose e ad uno sport moderato, si congiunga il consiglio d’un esperimentato direttore spirituale. Lacordaire, ch’era venuto a contatto intimo coi figli della dannata Rivoluzione, scriveva: «Le donne non sono le sole alle quali la continenza torni facile. Sovente io stupii della facilità con cui si può strappare un giovane alla depravazione» [Cfr. Monsabré, «Esposizione del Dogma Cattolico», Torino, Marietti, 1891, (Trad. Bonomelli) Quar. 1887, Conf. 90, pag. 265]. Il clero poi — è bene notarlo — in questo campo come altrove — si trova in condizioni di netta superiorità rispetto ai semplici fedeli e alla gente di mondo, per una speciale grazia di stato inerente alla sua vocazione, che gli rende più soave e facile il grave impegno del celibato. Antisociale. Forse non tanto da noi, in Italia, quanto altrove, sotto le brume del settentrione, oggi si declama contro il celibato e si versano fiumi d’inchiostro per dimostrare, anche ai ciechi, ch’è lui, proprio lui che uccide le nazioni. — Volgete attorno lo sguardo, vi dicono; osservate le nazioni d’Europa: sono tutte colpite da progressiva sterilità, sintomo indubbio di vecchiaia, preludio certo di decadenza e di morte. — Verissimo. Ma di chi la colpa? Del celibato ecclesiastico? — Non lo crediamo. Certo, a guardare le cose superficialmente, per il fatto medesimo che celibato dice diserzione dalla paternità naturale, il suo contributo al problema demografico non può esser diretto. Ma non segue, da ciò, che non vi apporti nessun contributo. Nel dicembre del 1941 «l guardasigilli Francese Barthélemy, lamentava che, nella coscienza di larghe porzioni del suo popolo, l’infanticidio fosse divenuto un peccatuccio,  tanto da tollerare l’uccisione annua di 60.000 innocenti. Una strage, compiuta in stato di narcosi e d’incoscienza. Ma perché? Perché a troppa gente non arriva più la voce d’un maestro e giudice che, con forza e persuasione e minaccia di castighi non passeggeri, tuoni dal pulpito o fulmini da un confessionale il divieto: — Non ammazzare —; ricordando che, se l’infanticidio è scusato solitamente dalle corti d’assise (come ha deplorato il guardasigilli stesso) non è però scusato dalla giustizia di Dio. [.....] E col divieto, non arriva più a quelle coscienze la spiegazione di quel che il matrimonio sia, di quel che la famiglia significhi» (Giordani, «Noi e i preti» in «Fides», Rivista mensile ecc., aprile 1942, pag. 166). Augusto Isaac, alla XV Settimana Sociale di Francia dichiarava molto giustamente: «In fondo, bisogna sempre ritornare qui: la questione della popolazione [.....] è sopratutto per i nostri concittadini un affare di volontà, per conseguenza una questione morale» (Cfr. «Le Probleme de Population», Paris, Gabalda, 1923, pag. 241). Un affare quindi di particolare competenza del sacerdote, il quale appunto perché può offrire in sé l’esempio d’una vita incontaminata, è, più d’ogni altro, in grado d’essere ascoltato. Solo che non gli si imbavagli la bocca, e su riviste e giornali da postribolo non se ne mettano in canzonatura gl’insegnamenti. Nel secolo scorso s’accusò il celibato ecclesiastico come causa di spopolamento, «ma la vera», scrive il Dott. Cattani, «erano il libertinaggio e la prostituzione nella quale colano tutte le immondizie e le nefandezze della corrotta natura umana» («Igiene del Matrimonio», Milano, Hoepli, 1925, pag. 306). Libertinaggio, prostituzione ! Ecco davvero il nemico numero uno; il vero cancro che rode l’Europa. Lo hanno riconosciuto statisti, sociologi e pubblicisti di tinte tutt’altro che cattoliche. Storia e medicina non fanno che dare il loro verdetto di conferma.

Cuori che non amano. Al celibato si rivolge un’altra accusa: quella di egoismo. Ad evitare equivoci, chiariamo subito il nostro punto di vista: C’è un celibato libertino: l’atteggiamento di chi rifugge dal matrimonio per potersela godere in barba ad ogni legge divina ed umana; e c’è un celibato virtuoso, santo: l’atteggiamento di chi rinunzia alla famiglia naturale per potersi più liberamente dedicare a Dio e al servizio dei propri fratelli. Del secondo e non del primo difendiamo la causa. Dalle pagine che seguono apparirà chiaro quanto sia vuota di senso l’accusa di egoismo.

Frutti del celibato ecclesiastico. Sbarazzata la via dalle prevenzioni e accuse, che si muovono contro il celibato ecclesiastico, passiamo ad additare in esso — attraverso i suoi risultati un elemento di vitale importanza per la rigenerazione religiosa, morale e sociale della Patria. Passato e presente saranno sicura garanzia per l’avvenire. Beni per il sacerdote. Studi statistici hanno messo in risalto che il clero è di tutte le classi e professioni sociali, la più sana moralmente e fisicamente (n.b. l’Autore scrive prima dell’occupazione modernista delle nostre chiese. Nella condizione attuale il falso clero, creduto per vero, stravolgerebbe le statistiche, ndr.). Nessuna meraviglia. Ormai è acquisito alla scienza e all’esperienza che la castità perfetta non solo non nuoce alla salute, ma anzi costituisce per l’organismo una magnifica riserva di energie vitali di prim’ordine, le quali conferiscono vigore alle membra, lucidità alla mente, fermezza e costanza alla volontà, agilità e resistenza a tutto il corpo. Ammaestramento non privo d’interesse, ove lo si consideri nel complesso delle sue cause. Eppure più ricco è il significato spirituale del celibato. Se è vero che il 99 °% delle defezioni dalla Fede, e la stessa delinquenza, nei cattolici, muovono inizialmente da crisi giovanili nella purezza; non è men vero che la Fede e la santità in nessun’altra virtù hanno un’alleata più potente e fedele come nella purezza. Per tre ragioni. Prima: perché la purezza tempra la volontà alla lotta, e forma il carattere al sacrificio e all’eroismo. Pretendere, come taluni vorrebbero, che il prete non possa essere puro e casto, se non a condizione d’essere un minorato fisico, o supporre che basti porsi addosso un pezzo di tonaca o di talare per mutare, ipso facto, natura, è un’ingenuità: a sfatare la quale s’incaricano le defezioni e deviazioni (non molte, ma reali ed innegabili) di alcuni membri del clero, in materia di castità. No, no: il giovane che varca la soglia del seminario o della casa religiosa per consacrarsi a Dio, nulla ha perduto della sua natura; egli sa, anzi, che un combattimento lungo e arduo l’attende contro un nemico subdolo e tenace che mai non s’arrende. Ma sa pure che per trionfare della carne è necessario crocifiggerla e sottrarle tutti i mezzi di offesa, come sarebbero compagnie frivole e mondane, letture e spettacoli pericolosi; libertà di sguardi e di pensieri, l’attacco smodato alle ricchezze, ai propri comodi, al proprio io superbo ed orgoglioso. Ingaggiare questa lotta, e continuarla per anni e anni, senza debolezze e senza compromessi, non è, forse, un eroismo? La volontà e il carattere se ne avvantaggiano: «[...] in seguito alla repressione dei loro appetiti sessuali, gli esseri forti sono resi più forti ancora mediante questa forma d’ascesi» (Carrel, «L’homme, cet inconnu», Paris, Plon, 1936, pag. 169). Seconda: la purezza, abbisognando per crescere e svilupparsi, d’un elemento ricco e pregno di soprannaturale, apre, necessariamente, l’adito a tutte le virtù. La castità è possibile solo con convinzioni religiose profonde. E anche qui, se tu sei puro, ma non sinceramente umile, mortificato, prudente, uomo di preghiera...: tu sei lo stesso in continuo pericolo di capitombolare, perché i  peccati mortali sono come le ciliege che una tira l’altra. E quando si combatte per la vita o per la morte, poco importa per quali vie si giunga alla capitolazione. Terza: la purezza, concentrando in Dio tutte le energie vitali dell uomo, e preservandole dalla dispersione, apre il cuore alla carità, e per ciò stesso a tutte le forme di beneficenza cristiana di cui il mondo è ricco. A questo contatto intimo, quotidiano col Dio dell’Eucaristia il cuore umano si forma, si riplasma, si divinizza quasi. A poco a poco, i pensieri, i  sentimenti, i desideri, gli affetti del Cuore di Dio rifluiscono nel cuore dell’uomo. Siamo così al termine dell’opera, il capolavoro è pronto: la vita, la gioia, la beatitudine, la bontà dal cuore del sacerdote traboccano e si espandono per le vie insanguinate del mondo. Il fascino misterioso ma irresistibile della purezza tralucendo dallo sguardo e dal sorriso, attira a lui i piccoli fanciulli e gli apre i cuori giovanili che si schiudono alla vita. Ed è sempre questa purezza incontaminata che assiepa attorno al sacerdote le turbe di popolo e fa della sua persona l’amico ricercato delle ore di gioia e di dolore, il depositario d’ogni più caro segreto, l’animatore di ogni iniziativa di bene, l’autorità più sacra ed amata. È Cristo che passa, ricondotto in terra dall’immacolata purezza d’un cuore verginale. È questo il trionfo del celibato! Beni per la famiglia. - Si direbbe che celibato e matrimonio siano due antagonisti, sempre pronti alla zuffa: invece, grazie all’opera conciliante della Chiesa Cattolica, essi sono due fedeli e cari alleati. E così il celibato, lungi dal suonare condanna del matrimonio, n’è il più forte baluardo e la più sicura difesa. Papa Pio XI nella «Casti connubii» (1930); Papa Pio XII nei discorsi agli sposi novelli e in quello ai Parroci e Quaresimalisti di Roma, per la Quaresima 1944, hanno stimmatizzato i moderni errori circa il matrimonio. Da tali teorie (per lo più d’importazione estera) chi n’esce sempre malconcia è la povera dignità umana; poiché esse, in ultima analisi, non mirano che a svincolare il reprobo senso da ogni legge umana e divina, porre la ragione sotto il tirannico predominio dell’istinto, e degradare la donna al livello di «strumento» di piacere in mano dell’uomo (oggigiorno, a causa del perverso femminismo, è anche viceversa, ndr.). In questo senso, «il voto di celibato volontario», ha scritto il Forster, «ben lungi dall’avvilire il matrimonio, è anzi una protezione per la santità del vincolo matrimoniale, in quanto personifica la libertà spirituale dell’uomo di fronte agl’istinti di natura, [.....] rappresenta una coscienza ammonitrice di fronte a tutti i capricci e a tutte le usurpazioni del temperamento carnale, [.....] preserva i coniugi, nei loro stessi rapporti vicendevoli, dal credersi schiavi di una semplice e stupida forza naturale, e li educa a serbare sempre di fronte alla natura, anche nello stato matrimoniale, un contegno da liberi e da padroni». Né si esauriscono qui i vantaggi del celibato in rapporto alla famiglia: in tutti i tempi il clero è stato il suo più valido ausiliare nell’opera dell’educazione cristiana e scientifica della gioventù, facendo così rifluire in essa i tesori della cultura e dello spinto. Beni sociali. - Sfatiamo subito un pregiudizio. Si è troppo abituati, oggi, a considerare gli Ordini religiosi e, in generale, il clero, come un qualcosa di avulso dalla società moderna, dalla vita del popolo. Niente di più falso. Una importante ragione d’essere del clero e degli Ordini religiosi, anche più lontani da noi, come i claustrali, è eminentemente sociale. Come bellamente ha scritto Igino Giordani, (Op. cit., pag. 172) i grandi Ordini religiosi «non sono milizie di creature distaccatesi da noi, ma arruolatesi anche per noi; sono i  nostri ordini, la nostra milizia. Così come l’esercito di una nazione non è distaccato dalla nazione, ma è, come si dice oggi, la nazione stessa armata». Non è, quindi, sciocca pretesa la nostra, quella di parlare di frutti sociali del celibato. Esempio. - Un proverbio indiano dice: Come uccellini affamati intorno alla madre loro, così stanno tutti gli uomini intorno all’olocausto di colui che vince il mondo. Modo grazioso e semplice che rivela l’efficacia dell esempio. Ad esso, infatti, si riannoda il segreto di riuscita d’ogni pedagogia. Così fa la Chiesa: propone alla nostra imitazione la virtù eroica dei Santi — di questi esseri plasmati di carne e d’ossa come noi, e che, come noi e più di noi, hanno conosciuto l’asprezza della lotta e, magari, l’onta della sconfitta. Ma sopravvengono, per ogni uomo, ore di tenebra così fitta e di combattimento così angoscioso, che l’esempio e l’ammonimento dei Santi non basta più, e siamo tentati di capitolare vilmente. Per attenuare la nostra parte di responsabilità, ci trinceriamo, allora, dietro gli arzigogoli, spesso fantastici e aprioristici, di chi sa quali grazie gratuite e irresistibili concesse ai Santi, e a noi negate. Ecco, perciò, l’imperioso bisogno di sentire al nostro fianco, nell’ora della mischia, altri soldati del medesimo esercito, difensori della medesima bandiera: persone conosciute, di provata e palese integrità: i vittoriosi della purezza. Ai tribolati dalla carne, ai giovani tutti, la Chiesa — additando la gloriosa ed immacolata falange dei suoi leviti, che ancora pugnano sulla terra — dice: Siate puri, come questi miei figli e fratelli vostri: lo potete: dovete! Sacrificio. Per dare un’idea meno inadeguata di quanto la società moderna, anzi la civiltà stessa, vadano debitrici al sacrificio del celibato cattolico, dovremmo enumerare a una a una tutte le benemerenze dei Pontefici, Vescovi e clero verso l’Italia, l’Europa e il mondo intero in questi venti secoli di Cristianesimo, perché solo così essi hanno potuto adempiere ai molteplici e difficili loro compiti di pastori delle anime, di tutori della morale, di banditori del Vangelo, di tutela del diritto, di salvaguardia della civiltà, di padri del popolo, di consolatori degli afflitti, di cultori delle scienze e delle arti. Così una paternità più vasta, più nobile, più divina s’è sostituita alla paternità umana. Qui accenneremo solo a tre punti, che più specificamente si riallacciano al celibato, cioè la vasta opera di bene svolta dagli Ordini e Congregazioni religiose di tutti i tempi, nel campo della carità sociale, della scienza e delle missioni. Al servizio della carità, in Occidente troviamo innanzi tutto un grande Italiano, S. Benedetto da Norcia, ch’è stato giustamente definito «padre di nazioni», e ciò non solo perché i suoi figli dissodarono gran parte dell’Europa, ed i suoi monasteri costituirono l’asilo di rifugio dei poveri, dei diseredati, degli oppressi, che attorno ad essi edificarono le loro città, ma anche perché da essi uscirono i grandi missionari che portarono la civiltà cristiana in Francia, Inghilterra, Germania, e nei Paesi Slavi. Ai Benedettini spetta il merito d’aver salvato la cultura, i libri sacri, i testi classici e le arti. In questa sfera d’azione entrarono, dai secoli X al XII, i Cluniacensi, Cistercensi, Camaldolesi e Vallambrosani e Certosini, i quali tutti dipendono dalla regola di S. Benedetto. Nel sec. XIII, ecco S. Francesco, il «padre dei poveri»: i suoi figli, andando al popolo, molto si adoperarono a sollevare la miseria facendo sorgere «monti di pietà», e sradicando le discordie cittadine. Già prima del Mille, s’era dedicato alla cura dei lebbrosi l’ordine di S. Lazzaro, seguito e imitato per gli altri infermi (sec. XI e XII) dagli Antoniti, dai Fratelli dello Spirito Santo e dai cavalieri Giovanniti e Teutonici; per la liberazione dei cristiani schiavi degl’infedeli dai Trinitari e Mercedari (sec. XII e XIII). A partire dal sec. XVI e XVII un rifiorire di carità si nota in Spagna, Francia e Italia per opera di S. Giovanni di Dio, di S. Vincenzo de’ Paoli e di S. Camillo de Lellis, con le rispettive famiglie religiose. Finché nei sec. XIX e XX non arriviamo al Cottolengo, a Don Bosco... E siam ben lontani dall’esser completi! Al servizio della scienza. Per il medio evo citiamo l’autorevole testimonianza del Prof. Jean Guiraud («Histoire partiale Histoire vraie», Paris, Beauchesne, 1914, vol. I, Ed. 35.a, pag. 350-351), il quale — in base a indagini precise — afferma che allora «tutte le scuole (non escluse l’università) erano ecclesiastiche, e che la Chiesa fu la sola depositaria, la sola dispensatrice delle lettere, delle scienze, della cultura intellettuale e della civiltà». Per l’età moderna, abbiamo tutta l’opera degli Ordini e Congregazioni religiose, dei quali ricordiamo i nomi più popolari in Italia: gli Scolopi, i Barnabiti, i Fratelli delle Scuole Cristiane, i Salesiani e i Gesuiti. Al servizio dell’ idea missionaria. Oggi la Chiesa conta 61 Ordini religiosi e 93 Congregazioni maschili di diritto Pontificio quasi tutte applicate alle missioni, con un contributo complessivo di oltre 20 mila missionari (poi arrivò la “nuova pentecoste” del Vaticano Secondo che ha gravemente snaturato e danneggiato, se non distrutto, ogni missione, ndr.). Il risultato di quest’opera la conosciamo: il sorgere e propagarsi della civiltà cristiana nei continenti extra-europei. Invece di tornare sul già detto, ecco un brano di vita vissuta. Parlano il P. Rosso, della Consolata di Torino, e un ministro protestante, entrambi missionari nel Kenia, nel 1924. — E lei. Padre, non ha paura della peste? — Io, no; la mia vita è nelle mani di Dio. — Anche la mia; ma volevo dire: come si regola lei con gli ammalati? va a trovarli? Dà loro i sacramenti? fa la sepoltura dei morti? — Naturalmente; è questo il mio dovere ed io lo compio il meglio che mi è possibile. — Non sarebbe più prudenza tralasciare queste cose, stante la serietà del pericolo per la propria vita? — Ma, caro ministro, anche le pecorelle sono in pencolo, e noi bisogna essere buoni pastori e non abbandonarle. Noi, anzi. Padri e Suore, abbiamo già fatto al Signore l’offerta della vita, perché si degni risparmiare questi poveri indigeni. — Voi avete un coraggio «tremendo» (l’aggettivo è la traduzione letterale); ma io ho la moglie e li figli. — Io sono assai più fortunato di lei; anche per quel lato lì, non ho preoccupazioni di sorta. — Padre, ha ragione. Le auguro buona fortuna. Spero di venirla a trovare a Fort-Hall prima di partire per l’Europa. — Ma... va in Europa? — Sì, la settimana ventura. Voglio mandare i miei figli a Londra per le scuole; la mia signora li accompagnerà, ed io accompagnerò lei. Ritornerò dopo sei mesi; poiché è mia intenzione di fare il missionario ancora per un anno, onde avere diritto alla pensione. Spero che il Signore ci scamperà dalla peste (Da «La Consolata» periodo mensile missionario, Torino, anno XXIII, 1924, pag. 181 ss). I nostri missionari, oggi, durante l’imperversare di questo immane conflitto, hanno scritto una pagina non meno gloriosa. Essi sono là, fermi al loro posto, in prima linea, al di sopra delle ristrette barriere di nazionalità, a predicare con la parola e con l’opera l’unica Fede che affratella e salva: il Cattolicesimo integrale.

Conclusione. Dopo quanto siamo venuti dimostrando, alla luce chiara della scienza e dei fatti, due conclusioni si impongono per importanza e attualità: 1.a — La società moderna non ha nulla da temere dalla continenza e dal celibato. Tanto meno gl’individui. All’érta quindi dai falsi profeti! «I falsi profeti, che van proclamando come ideale della vita un edonismo senza pudori, alla gogna! Codesti ribaldi, che per poter vivere essi una vita scapigliata, gridano impossibile ogni freno degli istinti, ipocrisia ogni richiamo salutare» (Ries, pag. 8). Essi sono i veri nemici della Patria, — coloro che ne preparano il crollo; più temibili di qualunque nemico esterno. 2.a — Dal celibato ecclesiastico la società ed i partiti d’ogni colore, purché animati da sincera e fattiva volontà, hanno tutto da ripromettersi per la ricostruzione religiosa, morale e civile degl’individui, delle famiglie e degli stati: ne son garanti la divina saggezza della Chiesa che l’ha voluto, e un glorioso passato di venti secoli.

Per Angelo Capitta e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +

A cura di CdP