Stimati Associati e gentili Sostenitori, domandiamoci cosa deve la donna alla Chiesa cattolica. La moderna - menzognera - vulgata attribuisce alla Chiesa le peggiori nefandezze contro la donna. È nostra intenzione, al contrario, dimostrare rigorosamente quanto la donna le è debitrice e quanto le debba essere riconoscente. Al bisogno utilizzeremo il prezioso opuscolo del Padre Giulio Monetti S.J., «Che cosa deve la donna a la Chiesa Cattolica?», Collana S.O.S., Serie III, numeri 30 e 31, imprimatur 1942.

Introduce il P. Monetti negli anni ’40: Aberrazioni. Chi oggi tenga dietro alle vicende del giorno, ai referti della stampa, agli orientamenti del pensiero, ha ragione di temere che nei bassi fondi sociali si tenti di preparare dove più, dove meno copertamente, una paurosa rivoluzione, che dovrebbe scuotere dai suoi cardini l’intero ordine costituito, avviando il mondo per vie nuove, che si promettono prodigiosamente feconde di bene per gli individui e per i popoli... È la rivoluzione comunistica, il sogno macabro della gente dal «pugno chiuso», vibrato in aria in segno di odio e di minaccia. Minaccia ed odio che vorrebbe essere soltanto espressione e portato della lotta di classe, lotta apparentemente limitata, al solo campo economico-sociale: ma che realmente lo trascende mirando in fondo alla distruzione della Chiesa Cattolica, alla radiazione violenta di ogni culto religioso dal mondo civile, allo stabilimento e all’universalizzazione della società dei «senza Dio», fosse pure attraverso ai delitti più infami, alle stragi più feroci, alle più ciniche degradazioni. Orbene tra quei forsennati, sitibondi di sangue, essudanti livore maligno, — lo diciamo con animo addolorato e mosso a profondo ribrezzo — troviamo la donna, sia essa la «Passionaria» spagnola, sia la Kollontai sovietica, sia la tedesca Rosa Luxenbourg... E allora ci domandiamo costernati: — Come mai le turbe infellonite contro il Signore, tra i popoli macchinanti stoltezza contro il suo Cristo e la sua Chiesa, si scorge la fronte di donne; e la voce femminile, che sempre dovrebbe sognare bontà e dolcezza, si fa sentire frammista, a quelle voci blasfeme? — E aggiungiamo in compagnia del Divin Crocifìsso: «Padre, perdona loro, perché esse non sanno quel che si fanno! — Non pensano a quanto la donna debba al Cristianesimo!». Pensiamoci invece noi in luogo loro: Ci potrà servire a sgannare alcune di quelle anime che sono state fatalmente avvinghiate dai tentacoli del socialismo e dell’internazionale petroliera: e gioverà anche a noi per farci sempre più stimare ed amare l’opera della Chiesa Cattolica a prò dei deboli e degli umili, nel suo passaggio attraverso i secoli. Rammenteremo pertanto qual fosse la condizione della donna fuori dell’influenza cristiana, confrontandola poi coll’altezza morale alla quale l’ha portate la Chiesa Cattolica.

La donna nella società pagana.  Un essere senza diritti... Celebre nella storia della giurisprudenza riuscì il diritto Romano: ma qual sorte faceva esso alla donna nella società? Per un certo tempo, le negò ogni capacità giuridica. Francesco de Champagny, nella sua classica opera, Les Césars, II, così ne scrive: «Uscendo dalla propria famiglia, cioè dalla patria potestà, la donna entrava nella famiglia del marito, cadendo sotto la potestà di lui; diveniva, secondo il diritto, figlia del marito, sorella dei proprii figliuoli, sottomessa quanto essi ai rigori del tribunale domestico, e come essi riceveva una parte dell’eredità. — Vedova, ricadeva sotto il potere paterno; alla morte del padre doveva chiedere un tutore, senza l’assistenza del quale non poteva far testamento. — Non aveva famiglia che le appartenesse; cioè non aveva figliuoli sotto la sua potestà; non eredi che dipendessero da lei». E in questa materia si andò poi tant’oltre che si limitò talora, alla donna il diritto, pur così naturale, di possedere; citiamo la «Lex Voconia» sancita a Roma tra la 2.a e la 3.a guerra punica, in virtù della quale negavasi alla donna, ancorché fosse figliuola unica, il diritto di ereditare.

•  Un essere senza dignità... Ma pazienza, quanto alla privazione parziale od anche assoluta di civili diritti di competenza propria del foro contenzioso! La donna vi si sarebbe più facilmente rassegnata, se le si fosse sempre conservato, e in seno alla propria famiglia, e al cospetto della società, quel rispetto che le era naturalmente dovuto. Pur troppo non fu così! In cento e mille occasioni la donna pagana dovè lamentare calpestato il suo diritto nativo a un posto dignitoso, consacrato da legittimo amore, nell’umana convivenza. E ciò in primo luogo per il dilagare della poligamia. Questa era comune in Egitto, fatta eccezione di qualche provincia e di qualche casta: ad esempio la casta sacerdotale; era comune tra i Germani del ceto dei maggiorenti, che ritenevano la donna come un oggetto di lusso; uso obbrobrioso, che prevalse anche nell’antica Media, e tra i selvaggi del Brasile e della Australia. Al quale proposito rileva il Lacordaire quanto triste dovesse riuscire la vita, nel sistema poligamico, di quelle «greggi di esseri tanto nobili al cospetto di Dio Creatore, e tanto degni di riguardo per parte della gentilezza del nostro cuore; veri armenti di donne, chiuse come bestie nel classico ginecèo, o nell’harem orientale, divenute nel tedio delle loro giornate, non già vittime di un sentito affetto, ma piuttosto di un momento di ebbrezza passionale, cui dovevano  seguire anche anni ed anni di abbandono». E non dice nulla, delle rodenti gelosie femminee, degli alterchi velenosi delle rivali, della rabbiosa vita d’inferno cui erano moralmente condannate, tuttora vive, quelle povere creature!... E che dire di quell’altra abbietta forma di degradazione della donna, che fu il concubinato legalmente ammesso ? Fu infatti equivalente legalizzazione del concubinato la legge romana del trinoctium, triste monumento di corruzione ufficialmente autorizzata... Poiché è risaputo che tra i Romani le «justae nuptiae», ossia il matrimonio civile (e per conseguenza la terribile «manus virilis», ossia il potere più o meno discrezionale del marito sulla moglie) erano immediatamente prodotte tanto dalla «confarratio» o dalla «coemptio», quanto dall’«usus» o convivenza di fatto per un anno intero. Orbene la legge suddetta privò di quel suo effetto legale l’«usus», che per tre notti fosse stato interrotto: quindi il nome della legge, che fu detta del «trinoctium». E quasi ciò non bastasse, vi s’aggiunse la «Lex Julia et Papia Poppaea», che più immediatamente legittimava detto disordine. Non parliamo poi del divorzio, arma terribile dell’uomo contro la donna, oltreché disgregazione fatale della famiglia; è addirittura spaventosa la facilità con la quale vi si ricorreva in antico, ed anche al presente, tra i popoli avvolti nelle ombre di morte del paganesimo! Il d’Azambuja, in dotta memoria sul detto argomento, ricorda che in un solo anno, nel solo ormai civilissimo Impero del Giappone, i divorzi superarono più d’un terzo dei matrimoni celebrati; dacché su 330.467 matrimoni conchiusi, s’ebbero ben 118.122 divorzi “legalizzati”!

Un essere senza difesa... Ed anche quando non si raggiungessero simili estremi, quanto spesso la sposa legittima vedevasi esposta, senza tutela da parte della legge, alle più cocenti offese ed alle amarezze più vive per parte dell’infedele marito! La legge, tra i Greci, tra i Romani, tra i Germani, non aveva sanzioni contro il marito adultero: se minacciava rigori, essi erano solo contro la donna che mancasse di fede al marito! Quindi come mai avrebbe potuto la donna garantirsi contro la capricciosa passione del suo consorte, sopratutto quando infortuni o malattie gliene facessero come un peso, od anche la stessa monotonia di diuturna convivenza, ponendone in evidenza i difetti, moltiplicassero gli screzi e i dissapori? A questa inferiorità giuridica aggiungiamo pure anche la tristissima inferiorità vorremmo dire sociale, in quanto la donna era troppo spesso dal marito degradata al livello di una schiava, e quasi di bestia da soma. Ed oltre al fatto già doloroso di questo manco di riguardo alla sua debolezza fisiologica, c’era ancora il fatto umiliante della motivazione di tale trattamento; chè il lavoro grossolano e materiale era troppo spesso riservato alla donna, appunto perché duro e degradante, secondo l’opinione pagana. Tale sistema di oppressione della donna vigeva nella Groenlandia, tra le tribù indiane dell’America Settentrionale, nella Mongolia, nella Tracia, (ancora oggi in molte zone dell’Africa, ndr.); persino i Germani, dei quali volle tanto decantarsi il rispetto per la donna, appunto a lei rimettevano i lavori manuali, come di sé meno degni; il che al dire di Piatone, tornava ad uno stesso che il ridurla all’avvilimento e alla schiavitù. E quante tribù selvagge tengono tuttora questo esoso sistema! Ma passi per la materiale fatica e per la durezza della vita: c’era ben altro. Non si può rammentar senza orrore a quali ludibrii in certe età e in certe nazioni, pur sì celebrate per civiltà progredita, andasse esposta irrimediabilmente la donna; ricordiamo la comunanza delle donne, sognata in teoria da Socrate e Platone, come condizione normale della perfetta repubblica: ricordiamo come Licurgo l’ammise in pratica a Sparta, in certi casi; ricordiamo gli infami «jus locandi» (in virtù del quale Catone il giovane cedette la sua sposa Marzia al rétore Ortensio) e «jus permutando», sanciti in Roma: appena potrebbe concepirsi degradazione più ributtante della donna, divenuta semplice strumento di piacere da potersi alienare, affittare altrui, e scambiare a capriccio! Resterebbe la sicurezza e incolumità personale: ce n’era garanzia seria nel paganesimo? Dobbiamo negarlo, per esempio, per i Romani, ai quali un tempo la legge dava potere di uccidere la moglie, non solo se riscontrata infedele (anche prima d’una condanna giuridica dei tribunali), ma eziandio per il semplice fatto che ella avesse bevuto del vino, o preso le chiavi del celliere. E per i popoli che riguardavano la nascita di una bambina come una disgrazia per la casa, e magari l’uccidevano soffocandola capovolta in una tinozza d’acqua, o l’abbandonavano su le strade in balìa dei cani randagi, o nei cespugli della, foresta, esca immancabile alle belve ? E per la Cina, ove, per millenni forse, si storpiavano i piedi alle neonate, sicché poi crescendo fossero costrette a rimanersene come prigioniere in casa? E per l’India, dalle cento caste, dove la vedova doveva consumarsi sullo stesso rogo che inceneriva la spoglia del proprio marito? E per l’Africa nera, tristamente celebre per gli orrori immani del Dahomey? E per il lontano impero del Messico, insanguinato, sotto il dominio delle dinastie Azteche, dal sangue d’innumerevoli vittime umane sgozzate nei templi? E per gli altri popoli dove i templi non vedevano scorrere il sangue della donna immolata, ma assistevano muti alle turpitudini delle «sacre prostitute» mancipate a culti inverecondi? Povere le donne! Quant’erano precipitate in basso nel paganesimo! Ma che meraviglia, se anche oggi le si comprano e si vendono tra i selvaggi, ed anche in nazioni che si pretendono civili, quando trattasi di collocarle in matrimonio? Del resto non era forse quella la mentalità dei tempi, logicamente espressa in concreto da tanto orribili costumi? Che cosa ci dicono della donna, per esempio, i tragici greci, che pur si volevano educatori del popolo?

Un essere spregevole... Un essere spregevole: tale e non altra è in sostanza la designazione della donna per parte dei genii dell’Ellade antica. Euripide (Belleroph., fragm. 13) la dice «pessimo arnese». Altrove la dice creatura «da non fidarsene; tristo ingombro anche per chi sia stato tanto fortunato da incontrare una moglie buona» (Cress. fragm. 11). Asserisce anche «non esservi né mura, né tesori, né qualsivoglia altra cosa così difficile da custodirsi quanto la donna» (Danae, fragm. 8). E arriva a dire che «anche nel caso che un uomo si sposi con donna di ottima, fama, sarà sempre migliore l’uomo che non la donna!» (Danae, fragm. 2). «La donna è il peggiore di ogni male!» (Phoenix, fragm. 6). Secondo Eschilo (Supplic. 757), «la donna è indegna di considerazione, perché è imbelle»; «suo ornamento è l’inganno!» (Agamenn. 1645). Sarà forse diverso il sentire dei gravi filosofi da quello dei poeti? Pare proprio di no! Aristotile reputa la donna quale merce venduta al marito, in piena balìa, trasmissibile ad altri per testamento (come, per esempio, avvenne alla madre di Demostene); Catone la dice una bestia indomita, che vuol essere frenata, perché da sé non si contiene (Tito Livio, Hist. XXXIV, 2): Epitteto sentenzia che il savio non deve curarsi della sua sposa, più che d’un fiore colto a caso sulla sponda di un ruscello... Ed è perciò che, non fidandosene punto, il greco le negò l’istruzione, secondo il consiglio di un altro filosofo, per non renderla più ingegnosa al mal fare; e la volle rinchiusa nell’oicos, anzi nel ginecèo, intenta a tessere la tela per il suo signore...

Un essere minorato... Data una situazione così obbrobriosa della donna nella famiglia e nella società, si capisce come insignificante purtroppo, od anche addirittura nulla, potesse essere la sua influenza morale dove non c’è autorità: nè può esserci autorità dove non c’è stima né amore verso chi potrebbe esercitarla. Da ciò la rovina della famiglia, cioè dell’ambiente da Dio destinato a produrre alla donna le più dolci e più squisite consolazioni, e ad ornarla insieme delle più care virtù!  Scrisse il Weiss che il risultato concreto della degradazione della donna nel paganesimo può compendiarsi così: «Non padri, non figliuoli, non mariti !». Per esempio, tutta la vita dell’ateniese (diciamo di uno dei 20.000 cittadini, e non già di uno dei 400.000 schiavi di quella metropoli) agitavasi nella sua «agora»: ginnasii, bagni, teatri, portici, piazze, n’assorbivano così completamente l’esistenza, che soltanto il pochissimo che ne rimaneva era dedicato alla casa. E questa, anche tra i Romani, era fatta unicamente per servire di rifugio; si può vedere in Vitruvio quanto ristretta e malcomoda fosse l’abitazione riservata alla famiglia. Non si sentiva nemmeno il bisogno di fabbricarla con maggiori agi, non provandosi nessuna brama di starsene in casa, a godersi ivi la felicità di una vita di famiglia, di cui non rimaneva sentore: che «quando non c’è nulla di buono in casa, si passa il giorno in sul mercato, benché nessuna necessità vi ci chiami». Pensiamo ora come in simile ambiente dovesse trovarsi male la donna, cui certo il marito non permetteva fuori di casa quel compenso di distrazioni che egli invece s’affannava di procurare a se stesso! Tale era in complesso, in antico — e lo è oggi in parte — il vivere riserbato alla donna nella società pagana: miserabile quanto mai fisicamente, moralmente e socialmente: sebbene sia vero che le fosche tinte del quadro pennelleggiato qui sopra non convengano né ad ogni gente in modo indistinto, né ad una stessa nazione in ogni epoca della sua storia. Però l’essere stati, or qua, or là, ora in questo tempo, ora nell’altro, tollerati sì abominevoli eccessi, e, peggio ancora, il vederli eretti a quando a quando in costume, ben dimostra il bisogno estremo che ha l’umana corrotta natura di un principio superiore che ne risani la fibra, e la ritenga entro i limiti della ragionevolezza anche più elementare! E ne abbiamo purtroppo altre conferme di fatto!

Condizione della donna nell’Islamismo. Dopo seicento e più anni di Cristianesimo s’andò man mano affermando, prima nel prossimo Oriente, e poi altrove, la potenza (militare, ndr.) mussulmana, dando una certa grandezza alla civiltà araba: ma, per la donna, fu dessa in progresso, in confronto delle sue sorti nella società pagana? Non sapremmo davvero risolvere il problema! Il fatto doloroso è questo: il mondo mussulmano non ha riconosciuto alla donna il suo grado nell’umana società. Bestiale e violento come i pagani, il seguace del Corano ha anch’egli recluso la donna tra le mura della cattività e dell’oblìo noncurante; egli attruppa nei suoi serragli i miserabili oggetti dei suoi turpi piaceri! Certo il vituperoso spettacolo delle sfrenatezze turche, anche tra popoli che non mancano di una certa ingenita nobiltà, è in quelle regioni un avviso della Provvidenza alla donna tentata di apostasia in vista della severità evangelica; essa ne potrà imparare quanto costi un amore non protetto da Dio: ed a che si riduca l’adorazione di un uomo che non adori Gesù Cristo. Essa vi vedrà la degradazione preparatale dove Gesù non distenda più la Sua mano sull’uomo per contenere e purificare la sua consorte, rendendoli ambedue come santuarii venerabili, dove arda la fiamma di un amore fedele e rispettoso! [Tanto si potrebbe scrivere anche sulla condizione della donna nel giudaismo talmudista, ndr.].

La donna moderna fuori dell’influenza e dell’atmosfera cattolica. Passiamo adesso a considerare la condizione della donna  in ambienti già illuminati dalla luce cristiana, ma che poi andarono man mano sottraendosi ai vitali influssi della Chiesa Cattolica, la unica vera Chiesa di Gesù Cristo. Accenniamo allo scisma, all’eresia, al cosiddetto libero pensiero: che ne hanno fatto della donna? Che ne fanno anche al presente? Il delitto loro comune, dal più al meno, è la dissacrazione del matrimonio, che, tra i cristiani, non può essere altro che Sacramento; tra gli acattolici, il matrimonio civile s’è venuto gradualmente sostituendo al matrimonio religioso, per opera della “legislazione” laicale che si è ovunque asserviti quei fantasmi di poteri religiosi che ancora sussistono fuori della Chiesa Cattolica. Ne segue immediatamente che quelle nozze, non essendo più Sacramento (almeno se la sostanza ne rimanga viziata o dall’assoluta profanità delle intenzioni, o  dall’incompatibilità delle condizioni apposte anche quando non manchi la condizione vitale di un Battesimo valido) non son più valide per cristiani, riuscendo soltanto a stabilire un lurido concubinato. E allora? Addio, divine benedizioni, tanto necessarie specialmente alla donna per alleviarle i gravi pesi inerenti alle mansioni di sposa e di madre! Addio, dignità di provvidenziale missione di moltiplicare - mercé la legittima prole - nuovi cittadini alla patria terrena, nuovi Prìncipi per il Regno Celeste! La donna, moralmente squalificata per la delittuosa sua posizione, non sarà più che una qualunque... incubatrice per moltiplicare i capi dell’armento umano, o piuttosto il semplice zimbello della passione voluttuosa del suo indegno compare! E vi si aggiunge, immancabile in simili legislazioni, la piaga cancrenosa, quanto mai dissolvente, del divorzio, che vi si va vieppiù facilitando.

• Per lo scisma, ne diede saggio mostruoso il massacratore di regine, Enrico VIII Tudor, iniziatore dello scisma Anglicano: per l’eresia, assistiamo al sovvertimento del diritto matrimoniale in tutti quei paesi dov’essa prevalse, secondo i bestiali principii degli autori del protestantesimo: per il libero pensiero poi, materiato di razionalismo e di settarismo, sappiamo quale ampia porta abbia aperto alle nefaindità del divorzio, esso che nella sua stampa, nei suoi spettacoli quotidiani, nella ributtante sua pratica, pare facciasi svergognato paladino del cosiddetto libero amore.

E il divorzio, cos’è per la donna? Quand’è un fatto compiuto, è la catastrofe! «La reietta, dice il Lacordaire, era venuta alle nozze giovane, integra, leggiadra...  la si rimanda minorata dall’età, dalle malattie, dai dispiaceri, dalla stessa consuetudine coniugale; non è più che un rudere! E resta nella vita proprio come in una casa un mobile sciupato dal tempo, e fuori uso, che non lo si vuole tra i piedi, e si rilega là, tra i ciarpami». Per un divorziato è anche troppo facile trovarsi altro.... ricapito; ma la divorziata, di ordinario, non trova che amarezze e rimpianti, anche se non vi si venga ad aggiungere la mancanza stessa del necessario alla vita materiale! Ed anche prima che vengasi all’attuale separazione, che arma fatale non è la minaccia del divorzio, in mano dell’uomo contro la donna! Che strumento di abbietta, dolorosissima tirannia, in mano di un prepotente, di un cùpido, di un lussurioso! E che vita d’inferno non è allora per la donna ad inghiottire tutti i bocconi anche più amari, per evitare lo scocco della velenosa saetta! Per ultimo, non sarà qui ozioso un accenno fugace alla donna spregiudicata, quale ce la va purtroppo preparando la età nostra laicizzata, scristianeggiata, di nuovo paganeggiante. Che creatura esosa nei suoi sempre rinnovati capricci, nelle sue irritanti pretese, nella sua leggerezza fenomenale, nel suo egoismo insaziabile, nella sua esotica progressiva mascolinizzazione, nella sfacciata procacità delle sue mode, nella sua nullità riguardo all’assetto domestico, alle incombenze familiari, a quei minuti lavori che le sarebbero proprii! Poveri mariti di simili spose! Poveri figli (se mai ne nasceranno) di simili madri! Povera società, che nulla ne avrà da attendere di bene, minata nelle fonti stesse del suo rinnovamento!

La donna nel regime comunistico. Qui possiamo dire in certo qual modo che tocchiamo il colmo della degenerazione e del disordine nei riguardi della donna, voluta scristianizzare. Diceva la «Pravda» (8 marzo 1920): «Trascinare la donna nel lavoro produttivo comune: strapparla al lavoro della casa: liberarla dalla sottomissione umiliante ed avvilente al marito, e dal trovarsi esclusivamente ed eternamente occupata nella cucina e tra le cure dei figli; ecco lo scopo principale da raggiungere!». E il Lenin dopo soli due anni dall’inizio dell’opera nefasta, cioè nel 1919, già poteva scrivere: «Noi non abbiamo lasciato letteralmente pietra sopra pietra di tutte le leggi odiose sull’ineguaglianza della donna, sulla restrizione del divorzio, sulla formalità tediosa che lo circonda, ecc.». Distruzione dunque dell’antico ordine giuridico matrimoniale, su tutta la linea; per sostituirvi che cosa? Leggiamolo nel libro «La donna e la Stato Comunista» della Kollontai, la famigerata ambasciatrice sovietica: «In luogo dell’antica famiglia, cresce ora una nuova forma di società tra uomo e donna: l’unione cordiale e cameratesca» (leggi la tresca più sfacciata e brutale, sotto il nome di libero amore). E così siam da capo coi mogliazzi da trivio, coi divorzi a ripetizione spaventosamente accelerata, con tutto l’orribile codazzo di mali, di lacrime, di odii insanabili, di rovine fatali, di stragi di innocenti con regresso di secoli e di millenni all’antica barbarie !... Ci si dirà esaltati, esagerati, pessimisti impenitenti? Parlino le cifre! «A Leningrado la più parte dei matrimonii dura da sette giorni ad un mese. (Si tratta sempre naturalmente, di matrimoni registrati ufficialmente: gli altri chi li controlla?). E a Mosca vi si ebbero nel 1934 ben 37 divorzi su cento matrimoni: nel 1935 la cifra dei divorzi saliva a 44, e l’anno dopo, 1936, saliva ai 45; sempre su cento matrimonii... E i matrimoni della durata di una sola notte non sono rari!» (Docum. Anticom., gennaio 1937). E meno male ancora, quando si abbia la triste lealtà di dichiarare apertamente il divorzio: chè almeno così si sa con chi si ha da fare, e come comportarsi in conseguenza; il peggio si è quando il caro adorato marito ti pianta lì, all’improvviso, coi figli sulle braccia, coi debiti da pagare, e con chissà quali imbrogli in soprappiù! Ed è appunto questo che è all’ordine del giorno nella Russia sovietica, paese classico del comunismo. La «Pravda» dell’11 agosto 1935 ci assicura che «il 40 per cento (quasi la metà!) di madri di famiglia operaie sono abbandonate dai loro mariti, e devono provvedere da sole alle necessità dei figli! E quindi nessuna meraviglia che tante di esse si sfibrino e invecchino innanzi tempo in un improbo lavoro, appunto per mantenere comechessia le loro povere creature, così abbandonate dai padri! Né possono sperare gran che dall’assistenza dei tribunali in simili circostanze: son troppo lenti; né sì muoverebbero, se prima la ricorrente non avesse scovato il marito latitante: ed a scovarlo ci vogliono troppe spese e troppo tempo, cui essa non può sostenere! Perciò il Krilenko, Commissario del Popolo per la Giustizia, ammetteva, nel 1935, per la sola Repubblica Russa, essere in sospeso ben 200.000 istanze giudiziarie contro mariti randagi, per costringerli a fornire gli alimenti dovuti. (Così le Izvestija del 10 agosto 1935). Disordini immani questi, già in se stessi : ma li rende più lacrimevoli ancora l’abbrutimento al quale n’è troppo spesso condotta la donna, fatta spietata contro il frutto stesso delle sue viscere. Né ci fermiamo a parlare dello stragrande numero di trovatelli, abbandonati anche dalla loro madre (nella sola Mosca, al dire della Pravda - 10 maggio 1935 - se ne raccolsero da 80 a 90 al mese, al disotto di tre anni!); accenniamo invece all’infanticidio ributtante e cinico, risuscitato in Europa dalle dottrine comunistiche. Ci attesta la Pravda dell’11 luglio 1935 che, due mesi prima, di 150 operaie bolsceviche ben 120 non vollero continuare ad essere madri, sopprimendo esse stesse la prole  concepita! (Adesso addirittura l’infanticidio viene perpetrato negli ospedali e pagato con i soldi estorti delle nostre sudate tasse, ndr.). E il dott. Editt Summerkill comunicava in Londra, nel 1935, al Congresso di pace ed amicizia coi Soviet (tenuto nei giorni 7 ed 8 dicembre) come nel solo anno 1934 un solo medico avesse soppresso 12.000 creaturine! E se ne vantava! Del resto, non è una novità per quei disgraziati paesi: a Mosca si contano ben 100.000 simili soppressioni all’anno! Fermiamoci qui: ce n’è abbastanza per farci un’idea di ciò che il comunismo ha fatto della donna: putridume-miseria-cinismo-crudeltà! La gramigna indigena delle terre «senza-Dio»! Voltiamo pagina!

[Il nostro stimato e rigorosissimo Autore solo anticipa e presagisce quelle mostruosità cui il femminismo precipiterà l’intera nostra società da lì a trenta, quarant’anni. Tanto che oggi giorno, probabilmente, qualche lettore - assuefatto ed inebriato dal pensiero, dai vizi, dalla corruzione, dai modi moderni - potrebbe non provare disgusto e non accorgersi degli immensi danni provocati da sì funeste turpitudini ed abominazioni. L’uomo d’oggi potrebbe non avvertirne il pericolo. La circuizione della donna è distruzione e disgregazione della famiglia, per conseguenza è disfacimento dell’ordine sociale, è usurpazione dei diritti divini e naturali, è defraudazione dei ruoli di madre e di padre, è plagio ed atomizzazione della prole, è l’inizio di un “mondo nuovo” ben descritto da chi, come Aldous Huxley, verosimilmente ben conosceva, dall’interno, le trame dei settarii, ndr.].

Riabilitazione della donna nella Chiesa Cattolica. Veniamo ormai a parlare dell’opera della Chiesta a pro’ della donna: riconosceremo nelle sue dottrine, nelle sue influenze, nelle sue sollecitudini, l’alito rigeneratore dell’oltraggiata e calpestata debolezza femminile: e a lei attribuiremo il vanto di avere in sì importante materia rimediato radicalmente al profondo disordine che per secoli e secoli afflisse e disonorò l’umanità. Non già che neghiamo che fuori della Chiesa sia possibile incontrare rispetto alla donna, e vivo impegno nel difenderla; ma non sappiamo quante volte ci verrà fatto d’incontrarlo non menomato nella sua nobiltà dai freddi calcoli dell’egoismo. Chè esso s’incontra tra gli Indiani: ma è in gran parte desiderio di figliolanza prosperosa; nel gius germanico si rinnoda a superstiziosi terrori; nel gius ripuario s’ispira a mire politiche; nel gius alamanno e bavarese traspare notevole l’influsso cristiano. Il che si avvera anche nelle nazioni moderne: dove il rispetto e il nobile amore verso la donna non è una semplice cornice di parata, ma realtà vissuta, là regna lo spirito cattolico, ovvero se ne sente ancora operosa la sopravvivenza.

Gesù Cristo, il liberatore! Il poeta francese Henri de Bornier, dopo aver lamentato la triste sorte della donna nel paganesimo, così riassume l’opera ristoratrice, a prò di quella, compiuta dalla Chiesa: «Mais quelqu’un est venu briser ce joug infame. Il a mis une étoile au front blanc de la femme! Il a fait d’elle, au lieu de l’esclave domptée Un miracle charmant de vertu, de bonté: Et pour forcer enfin l’ironie à se taire, A l’homme, dont l’orgueil la courbait jusqu’a terre, Il dit: Au haut du Ciel, dans l’ombre du saint lieu Regarde! C’est la Mère, au coté de ton Dieu! » (L’Apôtre, II, 4).  Questo Taumaturgo è Gesù Cristo, che della Chiesa si valse per la grande riforma: quella stella che fu riposta alla donna sulla candida fronte, è la dignità di lei pienamente ristabilita. Infatti qual è la dottrina della Chiesa riguardo a tal dignità? Essa ci richiama col suo insegnamento ai primordi stessi dell’umano genere; e vi ci mostra Adamo vagare solitario per il giovane mondo, senza un suo simile con cui intrattenersi. E ci aggiunge che Iddio, a ricreare tal solitudine, creò Eva, e la condusse sposa ad Adamo, simile a lui nella natura, nella ragionevolezza, nell’armonia degli affetti, nei destini oltremondani; affinché dividesse con lui la sovranità dell’universo. E ci predica alto come la donna, non meno dell’uomo, sia fatta ad immagine e somiglianza di Dio: che con la grazia di Dio può poggiare alle altezze più sublimi della virtù, dell’eroismo, e così cingere in Cielo un eterno diadema, fatta più veneranda ai mortali per la divina sembianza saputa da lei perfezionare in se medesima. Indi, sempre la Chiesa, traendoci seco in ispirito per le altezze serene dell’Empireo, ci addita quante stelle di superiore grandezza lassù risplendano, decoro e vanto del sesso femminile: sino a condurci ai piedi di quella Vergine «umile ed alta più che creatura» alla quale Gesù Cristo-Dio conferì in perpetuo l’impero sovrano del Cielo e della terra. E al sentire le angeliche schiere inneggiarle perennemente come a loro Regina: al contemplare, prostata ai piedi di Lei or supplice, or grata, l’umanità sofferente: al vederla fatta arbitra dei destini del mondo e tanto vicina a Dio, ripetiamo volentieri col poeta: «Donna, sei tanto grande, e tanto vali, Che qual vuol grazia, e a Te non ricorre, Sua disianza vuol volar senz’ali! In Te misericordia, in Te pietate: In Te magnificenza, in Te s’aduna Quantunque in creatura è di bontate!». Poteva la donna pagana, dal lacrimevole abisso ove giaceva, porgere gli occhi bramosi, molli di pianto, a vetta più eccelsa? Poteva sognare rivendicazione più compiuta, maggiore glorificazione?

Riabilitazione giuridica. Rialzata così la dignità morale della donna, la Chiesa venne man mano migliorando in pratica la sua condizione sociale. Sin dal principio le rese il naturale suo posto nella famiglia; promulgò elevate alla dignità di Sacramento le nozze cristiane; intimò solennemente l’unità e l’indissolubilità del vincolo coniugale, rendendone sacra ed inviolabile la legge di amore. Appresso, quando potè farsi sentire fuori delle Catacombe, la Chiesa procurò che fossero riconosciuti e garantiti alla donna i competenti diritti civili (i diritti civili quelli veri, non i simulacri incivili moderni, ndr.): e fu così che «Costantino Magno abrogò la tutela contro natura, cui la donna era soggetta, e accordò alle donne maggiorenti diritti analoghi a quelli dell’uomo. L’anno 321, quel medesimo ch’è sì memorabile per la legge sugli affrancamenti, è anche l’anno nel quale Costantino estese a tutte le madri il diritto di partecipare all’eredità dei loro figliuoli ». (Troplong). Ed è ancora dalla Chiesa, e dai nuovi costumi da lei introdotti, che deve ripetersi quel rispetto, quel quasi culto della donna, il quale quando non fu viziato da eccessi irragionevoli, fu nobile ed anche santo, e venne chiamato «Cavalleria», dai Cavalieri cristiani che l’usavano. Al quale proposito così ragiona quel profondo psicologo che fu Giacomo Balmes: «Penetrando più addietro nello spirito della cavalleria, e fermandoci in particolare sui caratteri dei sentimenti che essa nutriva verso la donna, si vede che non fu già la cavalleria a rialzare la donna poiché la trovò già rialzata e stimata; non fu essa a darle un nuovo posto di onore : ma trovò che già l’occupava. E per verità, se non fosse così sarebbe impossibile concepire una galanteria, che divenne poi tanto esagerata e fantastica. Invece s’immagini la intemerata verginella cristiana, resa più celeste ed eterea dal candido velo onde l’adorna il Cristianesimo: si capirà il delirio del cavaliere che snuda la spada, roteandola contro il nibbio grifagno che insidia all’innocente colomba... S’immagini la sposa fedele, la virtuosa matrona, la madre teneramente sollecita, in una parola, quell’angelo della famiglia cristiana che incentra in sé l’affetto del marito e dei figli: s’intenderà facilmente l’ebbrezza del cavaliere, che pregusta, pur pensandola, tanta domestica felicità! Di qui l’entusiasmo che il preme, e che lo spinge all’eroismo; esso non è più un semplice amore ordinario; è qualcosa di meglio che un impeto passionato; se rimarrà onesto, sarà intima venerazione». Evidentemente non parliamo qui della cavalleria tutta sensuale, quale ce la hanno descritta, adulterandola, i romanzieri: parliamo di quel puro ideale di carità cristiana, ch’era tanto più umile e squisita nei suoi riguardi, quant’era più fervida e soprannaturale nel suo motivo: di quell’ideale che faceva sua impresa la difesa del debole, il sostegno della virtù, l’eroismo ad onore della SS. Vergine, consacrandosi per questo triplice fine al soccorso della donna, troppo spesso tra barbari popoli, e per lo più guerrieri, pericolante. Quest’era appunto l’ideale cavalleresco a cui s’ispirava il Beato Enrico Susone. Figlio di un nobile cavaliere, e figura egli stesso fra le più insigni, nel mondo sì vario della cavalleria medioevale, passava un giorno attraverso una campagna melmosa, seguendo l’unico stretto sentiero che v’era praticato. Ad un tratto egli vide venirsi incontro una povera donna ond’egli si ritrasse dalla via asciutta, spostandosi verso l’acquitrino, per cederle il passo. La poveretta, tutta stupita, lo interrogò: — «E come, buon signore, lei, uomo nobile e prete venerando, cede il passo a me, donna volgare?». Enrico le rispose: «Buona donna, non ve ne meravigliate: è mio costume fare onore e cortesia a tutte le donne, per amore alla cara Madre di Dio, che è nel Cielo!». Allora la donna levò gli occhi al Cielo, e riprese: — «Ebbene, io prego la stessa Veneranda Signora che lei non abbia a partire da questo mondo prima di aver ricevuto qualche grande favore dalla Madonna, che lei onora in tutte le donne!». Belle parole, sensi sublimi, che non è dato trovare fuori del Cristianesimo!

Ascensioni sociali della donna nel Cristianesimo. La Vergine cristiana. Né qui s’arresta l’opera della Chiesa ristoratrice della donna; di origine celeste, come ella è, sempre la Chiesa mira più alto; e, com’è proprio dei giusti, sì accinge ardimentosa a sempre nuove ascensioni. Quindi, affinché la stima, il rispetto, l’amore, onde la Chiesa vuole circondata la donna siano sempre meglio fondati e durevoli, essa attrae lei per i sentieri di sovrumane virtù, e le irraggia in fronte una luce sovrannaturale; dolce riverbero di quella luce paradisiaca, che da sé riflette la «benedetta fra tutte le donne», la Beata Vergine Maria. Ed eccoci a parlare della vergine cristiana, creazione soave del Cristianesimo. Quanto è sublime nella semplicità dei suoi candidi veli, nell’eloquenza mistica del sereno suo sguardo, che, spregiata la terra, cerca più in alto l’oggetto degno dell’amor suo! Il niveo giglio che essa stringe tra le mani simboleggia l’immacolata purezza dell’anima, schiva di ogni corruzione; il suo costume è quello della colomba, che sulle paludi sorvola, e sovra esse trattiene il suo alito fuggitiva, per non contaminarsene; e solo sulle alture, dall’aere più spirabile, intemerata riposa. Oh quanto è ammirabile, cosa divina, la sposa amante di Gesù Cristo, sia che la contempli nel segreto notturno delle Catacombe assumere il bianco velo che le impone il Pontefice, alla vigilia forse del suo martirio; sia che la veda sotto l’abito di Suora della Carità vacillare e cadere insanguinata, colpita a Liao-yang, nella guerra russo-giapponese, dal primo obice lanciato in quella aspra battaglia! E, pari alla sublimità delle aspirazioni che essa rappresenta, è la sublimità della sua missione nel mondo: Iddio dissemina a disegno per la terra, anche negli ambienti più difficili (carceri, ospedali, campi di battaglia, lebbrosari, rifugi, eccetera) questi angeli in carne, perché col salutare esempio richiamino i figliuoli degli uomini dagli abbietti desideri della natura corrotta alle nobili aspirazioni dello spirito cristiano; quando pure non li moltiplica tra noi come vittime elette di espiazione per i peccati dei popoli, come nella Spagna rossa !... E di queste incomparabili creature la Chiesa Cattolica ne ebbe a milioni, di fronte al numero addirittura insignificante delle Vestali, — pur tanto discutibili — a mala pena racimolate nell’immensa distesa dell’antico Impero Romano!

[Tutto ciò, ben si intenda, prima del funesto Vaticano Secondo: Rivoluzione diabolica, ordita dai modernisti e dai settarii, che di giorno in giorno corrode la Chiesa dall’interno e, se mai fosse possibile, la distruggerebbe. Ebbene proprio con i mortiferi principii del Vaticano Secondo, la società ha precipitato la donna in una situazione di apostasia, dunque in una condizione peggiore di quella pagana. Così pure la verginità è quasi estinta e così gli ordini religiosi e le suore. Oggi rimane ben poco, almeno numericamente, di quella che era - e fu per quasi duemila anni - la società cristiana, ndr.].

La sposa cristiana. Però la vergine cristiana, consacrata al Signore o con solenne rito ovvero anche nell’intimo santuario della propria coscienza, resta pur sempre un’eccezione anche nella Chiesa Cattolica. La Chiesa fu sempre ben lontana dall’errore di certi gnostici e manichei condannanti il Matrimonio, riconosciuto da essa quale uno dei sette Sacramenti. La via comune, tanto per l’uomo, quanto per la donna, è quella dello stato coniugale; quindi la Chiesa, non omise né cure né industrie per elevare e santificare la sposa cristiana. E anzitutto coll’unità e coll’indissolubilità delle nozze le assicurò la tanto necessaria stabilità del focolare domestico, assicurandola contro i capricci della passione o dell’incostanza del marito, e obbligando questo a vita ordinata per non mettersi da se medesimo la guerra in casa. E che fermezza non dimostrò la Chiesa attraverso dei secoli, per chiudere la porta alle infamie del divorzio; anche a costo di sfidare le bieche furie di prìncipi e di monarchi! Non le mancò sulle labbra il «non licet!» eroico del Battista, ovunque si trattò di difendere la santità del matrimonio, in favore di spose oppresse o rejette, fosse pure contro le ire di un Lotario Imperatore, o di un Filippo Re di Francia, o di un Enrico VIII Re d’Inghilterra. Con la grazia poi del Sacramento del Matrimonio la Chiesa assicurò alla donna l’amore cristiano del suo consorte, già garantito anche dal severo codice dei doveri vicendevoli promulgato dalla morale evangelica, e dalla Chiesa costantemente inculcato. E già Tertulliano all’inizio del III secolo cantava così la santità del matrimonio rinnovato: «Come varremo a descrivere la felicità del matrimonio, che la Chiesa procura, le preghiere confermano, gli angeli riferiscono in cielo, Iddio Padre ratifica? Quale soave giogo di due fedeli in una sola speranza, in una sola disciplina, in un solo dovere! Ambedue fratelli, ambedue conservi; nessuna divisione nelle cose spirituali e materiali. Insieme pregano, insieme piangono, istruendosi a vicenda, giovandosi l’un l’altro. Entrambi nella chiesa di Dio, insieme al banchetto divino, uniti nelle augustie, nelle persecuzioni, nei sollievi; uno non ha misteri per l’altro, né mai lo evita, né mai gli è di peso... Vedendo Cristo tali cose gioisce, e dona a questi due la sua pace; dove due, ivi è egli stesso» (Tertulliano, Ad uxorem II, 9). E ai nostri giorni quante volte il Santo Padre Pio XII ha avuto occasione di esaltare il vero amore nel matrimonio cristiano: «L’affezione vera — diceva agli sposi novelli il 30 Luglio 1941 — senza durezza come senza debolezza, l’amore vero, ispirato ed elevato da Cristo, noi li intravediamo in quelle prime famiglie di convertiti romani, come i Flavii e gli Acilii al tempo della persecuzione di Domiziano; ne ammiriamo lo splendore rifulgente intorno a una Santa Paola e a una Santa Melania.... Solo Nostro Signore è stato capace di far nascere in poveri cuori umani, feriti e traviati dalla colpa originale, un amore che resti puro e forte senza irrigidirsi e indurirsi, amore abbastanza profondamente spirituale per svincolarsi dai brutali stimoli dei sensi e dominarli, pur conservando intatto il suo calore e inalterata la sua delicata tenerezza». E il Santo Padre portava l’esempio d’un’altra Santa, d’una sposa «la cui vita è o dovrebbe essere ben nota a tutte le madri di famiglia, la Beata Anna Maria Taigi». Così in tutti i tempi la Chiesa nelle sue Sante fiorite di ogni virtù anche nello stato coniugale, moltiplicò i più suggestivi esempi di fedeltà, di abnegazione, di tenerezza assidua, di sollecitudine sagace, affettuosa, delicata per i proprii doveri, che mentre attirano sulla casa le tanto necessarie benedizioni di Dio, non possono normalmente non concimare alla sposa da parte dello sposo e ammirazione e amore. Chè se il marito resista alla grazia, la moglie cristiana troverà nei religiosi conforti che le moltiplicherà la Chiesa, nelle sue promesse, nei suoi Sacramenti e nelle sapienti direttive dei suoi Sacerdoti, quelle spirituali consolazioni al suo dolore di cui la donna pagana non potè mai avere, non pur la speranza lontana, ma neanche l’idea.... E così nobilitata e rafforzata dal Cristianesimo a quali altezze non assurse mirabilmente a quando a quando la sposa cristiana! Ammiriamo pure nel ceto beato delle Vergini le Agnesi, le Caterine, le Geltrudi, le Clare, le Giuliane... ma non lesiniamo la nostra ammirazione alle Lucine, alle Brigide, alle Clotildi, alle Teodolinde, alle Edvigi, ecc., della cui memoria s’onora non soltanto la Chiesa, ma anche la rispettiva Nazione che a quelle eroine dava i natali. La grazia divina santifica qualsiasi onesta condizione di vita! Prosegue nel numero 217 ...

Per P. Giulio Monetti SJ e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +

A cura di CdP