Stimati Associati e gentili Sostenitori, leggiamo cosa scrive l’opuscolo protestante «Il perché» alle pagine 35 e 36: «Per ottenere la salvezza e la salute NON sono necessarie le opere nostre, bastano i meriti e l’opera di Gesù. Mentre Gesù spirava in nome mio in Croce, Egli esclamò: “Tutto è compiuto”, ossia la espiazione è compiuta; la ricevuta è firmata col sangue di Cristo, e Dio essendo soddisfatto pienamente con la morte vicaria di Cristo, lo fece risorgere dalla morte il terzo giorno. La cosa non mi è del tutto chiara, — diceva un ebanista ad un amico che cercava di spiegargli questa ragione. — Costui alzò una pialla che stava a portata di mano e con essa fece mostra di piallare un bellissimo tavolino, ormai finito e tutto lucido che gli era vicino. — Ferma, ferma! — gridò l’ebanista — non vedete che il tavolino è finito? Me lo rovinerete, se gli poggiate sopra la pialla! — Come? — replicò l’amico — ciò è appunto quello che io ho tentato di mostrarvi, rispetto all’opera redentrice di Cristo. Essa fu finita quando Egli diede la sua vita per voi e se voi procurate di aggiungere qualche cosa a quell’opera la guastate, non la perfezionate. Accettatela così come essa, è, la sua vita per la vostra, e voi siete libero dalla morte eterna! — Per quell’ebanista ciò fu un raggio di sole. Egli vide allora la via della fede. Accettò Gesù come suo Salvatore».

• Commenteremo la lunga citazione con l’aiuto del P. Carlo Bozzola S.J. (Opuscolo S.O.S., «Fede, opere, giustificazione», Serie I, n° 16, imprimatur 1944). Per ottenere la salvezza basta accettare l’opera di Gesù senza aggiunte, correzioni, mutamenti. Qui però sta la questione: in che consiste l’opera di Gesù? È quella concepita dai Protestanti (e dai modernisti che, a partire dal Vaticano II, occupano la Chiesa dall’interno, ndr.) o quella intesa dai Cattolici? L’opera di Gesù è riprodotta più fedelmente e maggiormente esaltata dai Cattolici, o dai Protestanti (e dai modernisti, ndr.)? Studieremo la questione nel presente opuscolo. Esaminata la dottrina dei Protestanti (e dei modernisti, ndr.) esporremo quella Cattolica. Dal confronto balzerà la verità.

L’opera di salvezza di Gesù e i Protestanti. «Per noi — dicono gli oppositori — la salvezza dell’uomo è tutta opera di Dio per i meriti di Gesù Cristo. L’opera redentrice del Salvatore è veramente e pienamente sufficiente, l’uomo non vi aggiunge nulla, nulla vi apporta quasi a completarla: non gli rimane che accettarla così come è». Ma è proprio vero ? Questa affermazione suppone malintesi e contraddizioni. Incertezze e contraddizioni. Non ci pare esatto affermare che nella dottrina dei Protestanti nulla è dovuto all’uomo, ma tutto a Cristo. Devono pure ammettere che l’uomo non può godere della salvezza apportata dal Redentore, senza la fede. È necessario che l’uomo creda all’opera salvatrice di Gesù, che la accolga, che si abbandoni al suo Signore. Di più i Protestanti odierni non dubitano di avvertirci che per ottenere la giustificazione è necessario il pentimento delle colpe passate: «Vero è che il pentimento deve precedere il perdono dei peccati, poiché solo un cuore retto e contrito sente il bisogno di un Salvatore» («Guida a Gesù», opuscolo protestante, pag. 29). Non solo: ma col pentimento ci vuole un sincero proponimento di non peccare mai più. «Non è sincero il pentimento che non reca un cambiamento e una riforma nella vita e nei costumi» (ivi, pag. 66). Ci parrebbe quasi quasi di ascoltare il Concilio di Trento (sic!) quando insegna quali sono gli atti coi quali il peccatore si prepara alla giustificazione! Ivi leggiamo infatti: «Si dispongono alla stessa giustizia quando eccitati e aiutati dalla divina grazia, col concepire la fede per mezzo dell’udito, si muovono liberamente incontro a Dio, credendo esser vere quelle cose che furono da Dio rivelate e promesse, e specialmente che l’empio viene da Dio giustificato per mezzo della grazia e della redenzione in Cristo Gesù; e quando riconoscendosi peccatori si sollevano dal timore della giustizia divina... alla speranza confidandosi che Dio per i meriti di Cristo sarà loro propizio e cominciano ad amar Lui quale fonte di giustizia, e conseguentemente si muovono ad odiare e detestare i peccati e infine propongono di ricevere il battesimo, di incominciare una nuova vita e di osservare i comandamenti di Dio» (Concilio di Trento, sessione VI, capitolo 6). La rassomiglianza è più apparente che reale: lo sappiamo; ma è precisamente nell’assegnare la differenza che ci sembrano apparire più chiaramente il malinteso, l’incertezza, la contraddizione della dottrina non cattolica. «Per noi — ci dicono gli oppositori — gli atti umani che precedono la giustificazione non hanno alcuna vera esigenza: la giustificazione non viene causata da loro, ma da Dio unicamente per i meriti di Gesù». Ecco il malinteso! I Cattolici non insegnano molto diversamente. Anche per loro gli atti che precedono la giustificazione si richiedono non come causa propriamente detta, ma come condizione; non hanno vera esigenza della salute, non contengono valore strettamente meritorio: sono una semplice preparazione, una rimozione di quanto impedisce l’opera misericordiosa di Dio. La grazia, la giustificazione vien da Dio concessa al peccatore, infallibilmente, è vero, qualora vi siano le dovute disposizioni da parte dell’uomo, ma ciò non per dignità ed esigenza dei suoi atti precedenti, ma unicamente per la promessa misericordiosa di Dio stesso in vista dei meriti di Gesù. «Ma veramente — ci soggiungono — nel nostro concetto, in questi atti antecedenti non vi è da riconoscere un vero contributo umano neppure preparatorio all’opera di giustificazione. Questi atti sono frutto della grazia di N. Signore; si producono nell’uomo, ma dimanano dall’influsso divino». Rispondiamo: come dimanano dalla grazia? La volontà è libera ed attiva oppure, come insegna Calvino, è trascinata a viva forza dalla grazia? In tal caso addio libertà umana! L’uomo diventa un automa irresponsabile. Perché allora punirlo se non arriva alla fede, se non si converte, se non vive una vita santa? La colpabilità si riversa tutta su Dio che non gli ha elargito i suoi doni e perciò il Dio dei Cristiani non sarebbe più il Dio della bontà, della misericordia, della giustizia e della santità, appunto perché la volontà di Dio sarebbe causa unica della dannazione dell’uomo. No, ci risponderanno gli oppositori, giustamente inorriditi da queste estreme e spaventose conseguenze, «no, la grazia di Dio non distrugge la nostra libertà. Gli atti che precedono la giustificazione sono frutti della grazia, ma essa li produce senza distruggere la nostra libertà. Essa ci attrae, ci piega, ci induce a questi atti, ci aiuta a compierli, ma non ci sforza. Cristo è pronto a liberarci dal peccato, ma non viola la nostra volontà; e se per effetto di una persistente trasgressione, la volontà stessa è interamente piegata al male, tanto che non consideriamo di esser liberati dallo stesso: né vogliamo accettare la grazia di Cristo, che cosa potrà egli fare per noi? Noi soli siamo la causa della nostra rovina col respingere risolutamente il suo amore» («Guida a Gesù», pagina 37). Ma se è così, perché allora ostinarsi a respingere la dottrina cattolica? Abbiano dunque la franchezza di ammettere che alla giustificazione è necessaria una cosciente e libera cooperazione umana.

Esaminiamo ora qual è la giustificazione ammessa dai Protestanti (e, più o meno, dai modernisti, ndr.). Simulacro di giustificazione. Essa si riduce a nulla perché gli strumenti di santificazione da Gesù stesso istituiti, i Sacramenti, sono mezzi vuoti e vani. (Notiamo tra parentesi che i Protestanti non ne ammettono ordinaria- mente che due, il Battesimo e quello che loro chiamano la Cena). Difatti non sarebbero essi che segni dell’opera redentrice di Gesù e della sua intenzione purificatrice, un’oggettiva e visibile predicazione della misericordiosa volontà di Dio: loro effetto null’altro sarebbe che una soggettiva eccitazione di fede in Cristo. In tal caso i Sacramenti della Nuova Legge non differirebbero per nulla dai riti sacri dell’Antico Patto. Anch’essi significavano e preannunciavano la futura opera di Cristo, anch’essi servivano ad eccitare la fede e la fiducia nel Salvatore. San Paolo però non è dello stesso avviso. Ai Galati che impressionati dalla pompa delle antiche cerimonie, a cui non vedevano contrapporsi che i semplici e apparentemente meschini riti della Legge Nuova, egli vivamente fa osservare che non si lascino indurre in errore dall’apparenza esterna, ma vogliono colla fede intravedere, oltre il segno esterno e visibile del rito, la realtà meravigliosa che vi si nasconde. Le cerimonie dell’Antica Alleanza erano vuote e impotenti non già perché non potessero eccitare la fede e la fiducia, come è ovvio, ma perché non avevano il potere di trasformare l’uomo internamente, di santificarlo realmente. «Perché dunque — ammonisce l’Apostolo — vi rivolgete di nuovo ad elementi impotenti e vuoti?» (Lett. ai Galati, IV, 9). Se nella dottrina dei Protestanti i mezzi di santificazione sono tali quali sopra abbiamo esposto, ne viene di conseguenza che secondo la stessa dottrina: la stessa giustificazione non sia altro che una finzione, (se si vuole giuridica), ma non una realtà. Per essa l’uomo non viene intimamente trasformato; i suoi peccati non sono distrutti ed annientati: le sue piaghe e ferite non si rimarginano, né si chiudono; egli rimane nel suo interno quale era prima, un ammasso di peccati, di putredine e di fango, essenzialmente guasto e corrotto a causa del peccato di origine e dei suoi propri peccati personali. Però le sue iniquità non vengono più da Dio considerate, non gli vengono più da Dio imputate. Oh! e perché? Perché egli con la fede nella redenzione del suo Signore, si è con Lui unito, ha fatto suoi i meriti di Lui, se li è appropriati, e per conseguenza i meriti infiniti di Gesù si stendono sopra di lui e si frappongono tra lui e la giustizia divina. Che dire di questa dottrina? A noi viene spontaneo alla mente il «sepolcro imbiancato» del Vangelo: come i farisei, così pure i giusti all’esterno apparirebbero purificati e santificati, internamente invece sarebbero pieni «omni impudicitia» (Matt., XIII, 27-28). Oh, davvero che in tal caso l’opera di Gesù sarebbe ben poca cosa! Essa non varrebbe a santificare veramente l’uomo, a riparare veramente la grande perdita, il grande guasto prodotto da Adamo. Se così vana e inefficace è nella sua essenza la giustificazione quale la concepiscono i Protestanti, non migliori saranno le opere.

Misere e sterili sono le opere dei giusti secondo la dottrina dei riformati. Se il nostro interno non viene realmente trasformato, né i  nostri peccati distrutti, né la nostra natura migliorata, ma soltanto è il velo dei meriti di Cristo che sulla nostra miseria si stende a tutto coprire e nascondere, e se ad ottenere quell’effetto null’altro si richiede che la fede in Cristo, parrebbe logico concludere che dunque è inutile sforzarsi di evitare il peccato, e di compiere il bene. E difatti da questa conclusione pare non rifuggissero i primi corifei del protestantesimo, nelle loro violente polemiche contro i Cattolici, conforme al famoso detto, attribuito a Lutero: «Pecca fortiter et crede firmiter». Del resto qualche frase che raccogliamo dalla penna di moderni protestanti parrebbe riallacciarsi a tale conclusione. «Colui che si affatica e pensa di santificarsi con le proprie opere si accinge ad una impresa impossibile» («Guida a Gesù», pagina 67). «Molti pensano di avere una parte in quest’opera di miglioramento. Si sono confidati in Cristo per il perdono dei loro peccati: ora si studiano di vivere giustamente mercé le loro proprie forze. Simili sforzi sono vani!» (ivi, pagina 78). «Vi son di quelli che professano di servire a Dio, affidandosi alle proprie virtù personali per osservare i suoi statuti, migliorare il proprio carattere e assicurarsi la salvezza. I cuori loro non sono mossi da un sentimento profondo dell’amor di Cristo: cercano soltanto di praticare tutti i doveri della vita cristiana, credendo che Dio lo esiga, e guadagnarsi il Paradiso. Simile religione non vale nulla» (ivi, pagina 50). Dunque dobbiamo affidarci al tanto comodo assioma: «Pecca fortiter et crede firmiter»? No: la conclusione che arrideva agli antichi Protestanti, spaventa, e giustamente, i loro tardi nepoti; è troppo pericolosa! Con un’incongruenza logica, famigliare alle eresie, con qualche sapiente(!) aggiustamento, con un’oculata accortezza nell’evitare espressioni troppo spinte e troppo crude, essi metteranno tutto a posto! « L’errore opposto — ci si avverte — e non meno pericoloso, consiste nel credere che la fede in Cristo sciolga l’uomo dall’obbligo di osservare la legge di Dio: poiché per la sola fede siamo fatti partecipi della grazia di Cristo, le opere nostre non hanno più niente che vedere con la nostra redenzione» (ivi, pagina 67). Dunque le opere ci vogliono? «Sì — rispondono — ma tali opere nostre non producono in noi maggiore santificazione: è vano attendersi da loro una forza santificatrice. Le opere buone non si richiedono per santificarci maggiormente e per salvarci: ma naturalmente derivano dalla nostra santificazione. Se siamo uniti con Cristo e coi suoi meriti, da questa unione fluirà spontaneamente l’osservanza dei precetti e le buone opere per effetto della grazia di Cristo che opera in noi. Le opere non sono causa di santificazione, ma soltanto effetto. Se i nostri cuori sono rinnovati all’immagine di Dio, se l’amore divino regna nelle anime nostre, non dovrà la legge di Dio manifestarsi nella nostra vita? Quando il principio d’amore è saldo nel cuore, quando l’uomo è rinnovato all’immagine di Colui che lo ha creato, la promessa del nuovo patto è adempiuta. Io metterò le mie leggi nei loro cuori, e le scriverò nelle loro menti (Ebr., X, 16). E se la legge è scritta nel cuore, come potrebbe non modellare tutta la vita?» («Guida a Gesù», pagina 67). Va bene! Ma se è così, la grazia di Cristo non renderebbe le azioni dei giusti intrinsecamente degne della vita eterna: esse sarebbero accette a Dio solo per un rispetto esterno, per un riflesso dei meriti di Gesù. Ognuno vede come rimarrebbe limitata l’efficacia della redenzione e della grazia di Cristo!

Un’altra osservazione. Si dice che nell’uomo giustificato per mezzo della fede, la grazia di Dio non può non produrre spontaneamente opere di bene. Come? chiediamo noi. La grazia di Cristo talmente opera nella volontà umana che necessariamente la trascina al bene? No: già sopra ci fu assicurato che «la grazia non impedisce la libertà, non sforza». Dunque se la volontà potrebbe resistere alla grazia e non fare il bene, a cui la grazia porta, bisogna pur dire che l’osservanza della legge richiede la cooperazione umana, lo sforzo nostro. E se l’osservanza della legge è necessaria alla nostra redenzione, poiché «È errore... non meno pericoloso credere che la fede in Cristo sciolga dall’obbligo l’uomo, di osservare la legge di Dio» (ivi., pagina 67), bisogna dunque concludere che alla nostra redenzione è necessario anche il nostro sforzo, sono necessarie le nostre opere. Del resto perché essi stessi i Protestanti nei loro opuscoli, come in quello finora citato, tanto raccomandano l’ubbidienza a Dio, l’osservanza della sua legge, le opere di bene, se tutto ciò non fosse necessario alla salute o non dipendesse oltre che dalla grazia di Dio, anche da noi e dal nostro libero sforzo? Dunque NON sbagliano certo «i molti (che) pensano di aver una parte in quest’opera di miglioramento» («Guida a Gesù», pagina 78) «credendo che Dio lo esiga» (ivi, pagina 50). Dunque è falso che «simile religione non vale a nulla» (ivi).

Dottrina cattolica sulla giustificazione. Alla dottrina protestante crediamo utile contrapporre quella cattolica. L’eccellenza e l’efficacia dell’opera santificatrice di Cristo splenderà in tutta la sua grandezza e bellezza. Volontà libera dell’uomo e grazia di Dio. La grazia di Dio non è l’unico principio determinante, altrimenti sarebbe finita per la libertà dell’uomo, e insieme cadrebbe il misericordioso disegno di Dio di voler agire nell’uomo secondo la natura libera di lui, e di volerlo nobilitare col farlo concorrere liberamente alla sua salvezza. .Ma neppure la forza umana è sufficiente alla grande impresa. L’impulso violento della concupiscenza, alleata all’ignoranza della mente e alla debolezza della volontà, travolgerebbero l’uomo nel male se la provvida mano di Dio non si tendesse opportuna nel momento critico per preservarlo dalla rovina. Di più, come potrebbe l’uomo con le sole sue forze, che neppure bastano a preservarlo dal peccato, ordinare sé, la sua vita, le sue opere al fine soprannaturale a cui Dio lo destina? Ecco allora intervenire la grazia divina assolutamente necessaria e insieme completamente indebita. L’uomo non ne ha per sé alcun diritto, non può pretenderla. Essa è un dono non solo superiore alle esigenze della natura, ma verso il quale l’uomo ha una positiva indegnità, per causa del peccato originale. Ma allora perché Dio ne è così prodigo; a tutti promette la sua grazia; a tutti è pronto a somministrarla in tanta copia? Unicamente perché i meriti infiniti di Gesù hanno riparato alla nostra indegnità, e ce l’hanno ottenuta. Dunque se l’uomo può tendere alla vita eterna, e indirizzare ad essa la sua vita e le sue opere, lo deve alla grazia di Dio per i meriti infiniti di Gesù N. Signore.

La grazia eleva le opere naturali. La grazia è un influsso di Dio superiore alle esigenze della natura: quindi essa investendo le azioni umane le dignifica, le eleva, le soprannatura- lizza, fa si che esse siano intrinsecamente ordinate e proporzionate alla vita eterna. Non sono più opere di un semplice uomo, ma il fortunato risultato delle forze umane, e delle forze divine.

Doni della giustificazione. La grazia non si limita a concorrere alle opere che preparano la giustificazione, e a quelle ancor più eccellenti che la seguono. Essa non è solo un influsso momentaneo diretto a spingere l’uomo ad operare, o ad aiutarlo a ciò; non è solo un concorso attuale (che i teologi chiamano grazia attuale); grazia è pure un altro dono ancor più meraviglioso e misterioso che Dio infonde nella giustificazione e che nell’anima giusta rimane permanentemente, finché non venga ad opporvisi un nuovo peccato mortale. Per tale dono l’anima stessa nella sua essenza viene elevata sopra la sua naturale condizione, soprannaturalizzata (sit venia verbo) acquistando una proporzionata esigenza alla vita eterna, un’esigenza — remota ancora è vero finché dura la vita terrena — a partecipare alla vita intima di Dio, a conoscerlo cioè a faccia a faccia, intuitivamente, come Egli è in sé, e ad amarlo in modo analogo nell’altra vita, in Paradiso. Anche le facoltà spirituali dell’anima vengono elevate e nobilitate da doni infusi, specialmente dalle tre virtù teologali, fede, speranza e carità, che le rendono capaci di elevarsi verso Dio in modo consono e proporzionato, e di prepararsi così all’unione perfetta con Dio nell’eternità. Per questo si suole dire che è proprio di tale grazia abituale renderci partecipi della natura divina, in quanto cioè ci fornisce un partecipato principio di vita divina; per conseguenza, che ci fa figli di Dio, non per natura, evidentemente, ma per comunicazione ed estensione; che ci fa eredi della vita eterna, in quanto ci dà la capacità intima a godere della stessa felicità di Dio. Anche questo dono ammirabile ci vien da Dio infuso non per i nostri meriti, ma per i meriti di Cristo, nell’atto in cui rimossi con l’aiuto della grazia attuale gli impedimenti del peccato, e predisposta l’anima, Dio gratuitamente ci giustifica. Così brevemente esprime la cosa Sant’Agostino: «È manifesto che chiamò gli uomini Dei, perché deificati dalla sua grazia, non perché nati dalla sua sostanza. Difatti ci giustifica Colui che è Dio per se stesso, non per partecipazione di un altro. Colui poi che ci giustifica, ci deifica pure, perché giustificandoci ci fa figli di Dio... Che se siamo diventati figli di Dio, siamo dunque dei: ma ciò si deve alla grazia di chi ci adotta, non alla sua natura generante» (Sul Salmo 49, 2 — M. 36, 565). Ammirato San Leone Magno ci ammonisce: «Riconosci, o cristiano la tua dignità, e giacche sei diventato partecipe della natura divina, non voler con una condotta indegna ritornare alla bassezza di prima» (Serm. 21 c. 3 — M. 54, 192).

Effetti della giustificazione. Questi doni meravigliosi non sono sterile abbellimento e decoro. Essi, importano nuove capacità, nuove inclinazioni, nuove e meravigliose attitudini. Per essi l’anima del giusto vien spinta ed aiutata all’osservanza della legge divina, al compimento del bene, all’esercizio di tutte le virtù. Ed ecco sbocciare, come una fioritura smagliante e profumata, gli atti più belli e graditi al Cielo! Ma notiamolo subito, questi atti benché esternamente possano apparire simili, identici anzi a quelli compiuti da un uomo lontano dall’influsso della grazia, in verità ne differiscono immensamente: non solo perché accetti a Dio, ma perché la loro perfezione intrinseca, la loro intima entità è completamente diversa, incomparabilmente superiore. Quelle sono azioni di un semplice uomo, di un principio meramente naturale: queste invece promanano da una causa soprannaturalizzata; provengono da una natura che in virtù della grazia santificante, dice esigenza della gloria celeste: anch’esse quindi portano questa impronta divina, dicono: esigenza alla vita eterna, sono ad essa proporzionate, ne sono degne. E poiché un grado più alto di gloria esige maggior capacità di visione da parte dell’anima, e questa capacità si radica e si fonda nella grazia santificante, ne consegue che un aumento di opere buone nel giusto gli portano maggiore grazia, aumento di santità. Con questa dottrina non si reca detrimento ai meriti di Gesù, come se essi non fossero sufficienti a ottenerci la gloria del Paradiso e avessero bisogno di un nostro contributo. Lo notiamo ancora una volta quanto di bene soprannaturale vi è in noi lo si deve a Cristo; poiché le nostre azioni non sono meritorie se non per la grazia sua che le dignifica. Quindi invece di sminuire l’opera di Gesù, esse maggiormente la esaltano. È tanta la dignità e la santità di Gesù, che unendoci a sé rende anche noi veramente degni e santi, e le nostre opere, pervase dalla sua dignità e santità, degne della vita eterna. Questa breve e semplice esposizione basterebbe, crediamo, per i lettori di buona volontà, a mostrare quanto meglio valga la dottrina cattolica a tutelare l’assoluta necessità della redenzione di Cristo, e la sua mirabile efficacia rinnovatrice. Ma non rispecchierebbe forse essa, anziché la realtà, un sogno, una pia invenzione della Chiesa Cattolica? No: si tratta di una felice ed indiscutibile verità, assicurata in modo inequivocabile dalla parola stessa di Dio, registrata nella Sacra Scrittura. Lo proveremo brevemente.

Sacra Scrittura e tesi cattoliche. Preparazione e cooperazione dell’uomo. Per arrivare alla giustificazione l’uomo deve prepararsi e cooperare: lo attesta la Sacra Scrittura, presentando Dio che invita alla salvezza ed attende la decisione umana. Un esempio fra mille. « Chiamo in testimonio il cielo e la terra, che vi ho proposto la vita e la morte, la benedizione e la mal edizione. Eleggi dunque la vita, affinché tu viva, tu e la tua discendenza» (Deut., XXX, 19). Ciò del resto facilmente ce lo concedono i Protestanti moderni, come abbiamo visto più sopra. Egualmente ci concedono che si richieda la fede, perciò anche su questo punto non ci dilunghiamo. Ma essa non basta, affermiamo noi, altre opere devono influire veramente, altrimenti la fede è inerte e inefficace. San Giacomo ci avverte in generale: «Vedete voi come per le opere è giustificato l’uomo e non per la fede solamente» (Giac., II, 24). In particolare si richiede la penitenza come condizione assoluta per la giustificazione: «Se non farete penitenza, esclama Gesù, perirete tutti allo stesso modo» (Lc., XIII, 3); e San  Pietro a coloro che gli chiedono che cosa debbano fare per ottenere misericordia e salvezza risponde categoricamente: «Fate penitenza» (Atti, II, 37-38. Cfr anche Matt., IV, 17 — Mc., I, 15 — Atti, III, 19 etc.). Anche nell’Antico Testamento, infinite volte Dio invitò l’uomo alla penitenza, promettendogli per essa il perdono più completo dei peccati: per esempio Ez., XVIII, 1 ss; Zacc., I, 3. Si richiede di più, e l’accesso ai Sacramenti, prima di tutto al battesimo, e conseguentemente il sigillo della carità infusa da Dio, talmente che se anche vi sia la fede, ma manchi questo, è impossibile essere giusti. San Pietro nel luogo sopra citato parlava ad ascoltatori che, mossi dalla sua predicazione, già avevano concepito in cuore una fede viva e sincera, eppure di questo non si accontenta; per avere salute devono fare penitenza e lasciarsi battezzare: «Fate penitenza e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati» (Atti, II, 38). In questo San Pietro si uniformava all’esplicito insegnamento del suo divino Maestro: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo»  (Marc., XVI, 15 — «Chi non rinascerà per mezzo dell’acqua e dello Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio» (Giov., III, 5). San Paolo poi dice di se stesso: «Se avessi tanta fede, sì da trasportare i monti, ma non avessi la carità, non sono niente» (I Cor., XIII, 2) cioè non varrei nulla per la vita eterna. Dunque la sola fede non basta a costituire l’uomo giusto.

San  Paolo Insegna che basta la fede? Ci si obbietta: «Nella dottrina del Nuovo Testamento, specialmente in San Paolo, la giustificazione è attribuita alla fede». Rispondiamo: Viene attribuita alla fede perché essa è necessaria ed è il primo movimento dell’uomo verso la salute, sicché si può dire che la sua salvezza prenda le mosse dalla fede, viene dalla fede. Ma ciò non vale in senso esclusivo, come se bastasse la sola fede, per la semplice ragione che negli stessi scritti ispirati la salvezza viene attribuita anche ad altri atti, perché anch’essi richiesti; l’abbiam visto poco fa. Per questo mai la Sacra Scrittura, in nessun luogo afferma bastare la sola fede. Del resto la fede, suppone e inferisce tutto quanto si richiede da parte dell’uomo. Chi ha una fede vera e sincera non può non riconoscere e ammettere, almeno implicitamente, tutte le condizioni fissate da Dio per l’acquisto della salute. San Paolo ce lo dichiara apertamente: «In Cristo Gesù nulla importa né la circoncisione né il prepuzio: ma la fede — quale? — quella che opera per la carità» (ai Gal., V, 6). I nemici obiettano: «Ma pure San Paolo è troppo esplicito nel richiedere la sola fede e nell’escludere ogni altra opera. Eccone le prove: “Sapendo come non è giustificato l’uomo per le opere della legge, ma per la fede di Gesù Cristo, crediamo anche noi in Gesù Cristo, per esser giustificato, per la fede di Cristo, e non per le opere della legge: dappoiché nessun uomo sarà giustificato per le opere della legge” (ai Gal., II, 16). “Imperocché per grazia siete stati salvati mediante la fede, e questo non da voi; imperocché è dono di Dio: non in virtù delle opere, affinché nessuno si glorii” (agli Efes., II, 8-9). “Non per le opere di giustizia fatte da noi, ma per sua misericordia ci fece salvi” (a Tit., III, 5)». Al primo testo addotto rispondiamo, che esso non si riferisce alla nostra questione. In tutta la Lettera ai Galati San Paolo vuol provare che i riti dell’Antica Legge non valevano da sé a giustificare, ma solo un virtù della fede in Cristo venturo: di queste «opere della legge» parla l’Apostolo, e non degli atti che precedono la giustificazione e che la preparano. Negli altri due testi non si tratta propriamente del modo con cui si arriva alla giustificazione, ma della perfetta gratuità della grazia. Già lo notammo, gli atti che precedono, preparano, dispongono la giustificazione, non la meritano in senso proprio, nessun di tali atti è un vero merito, poiché il merito suppone già la grazia santificante e in essa si fonda. Gli stessi atti preparatori, come proveremo tra poco con la Sacra Scrittura, esigono l’aiuto della grazia attuale, che è dovuta non ai nostri meriti, ma unicamente alla bontà divina. Quindi San Paolo può affermare che non siamo salvati per le opere nostre, cioè per le opere compiute con le nostre forze naturali, ma per la grazia di Cristo.

Influsso soprannaturale nelle opere preparatorie. Che la grazia sia assolutamente necessaria, non v’è dubbio. Mai Gesù fu così chiaro ed esplicito come in affermare questo. «Senza di me non potete far nulla». S’intende, non possiamo da noi far nulla che serva a condurci alla salvezza e al cielo: infatti Gesù nel luogo citato parla dei frutti di vita eterna: si comprendono quindi in ciò non solo gli atti che seguono alla giustificazione, ma anche quelli che la precedono e la preparano: fede, pentimento ecc.; anch’essi sono frutti di vita, perché ordinati anch’essi alla salute e alla vita. Come un tralcio non può produrre assolutamente alcun frutto se non riceve dal tronco della vite la linfa vitale, così anche noi senza l’influsso di Gesù, un influsso che ci giunge immediatamente da Gesù e ci pervade intimamente, appunto come l’influsso della vite nel tralcio è qualche cosa di intimo, di immediato: «Io sono la vite, voi i tralci... senza di me non potete far nulla». Di quale natura sarà quest’influsso divino? Non si tratterà certo dell’influsso ordinario di Dio come causa prima, necessario, secondo che insegna la retta filosofia, ad ogni causa creata per produrre qualunque operazione consona alla sua essenza. Questo concorso divino viene fornito alle creature per le esigenze di natura, e non per riguardo alle redenzione di Cristo, e per mezzo di Lui. Dunque per compiere azioni ordinate alla salute è necessario un concorso speciale di Dio, concesso per i meriti di Gesù, oltre le esigenze della semplice natura; è necessario un influsso soprannaturale. L’operazione che ne seguirà non potrà dunque essere un’entità meramente naturale, sia perché ogni effetto deve proporzionarsi alla causa, sia perché per avere un’entità meramente naturale non si richiede certo un influsso, una forza speciale, indebita alla natura, e quindi soprannaturale. Tutto ciò dobbiamo concludere se non vogliamo svuotare le parole sacrosante del Salvatore, e renderle espressioni senza senso determinato. Alle stesse affermazioni si arriva attraverso un passo ben famoso dell’Apostolo Paolo: «Io piantai. Apollo innaffiò: ma Dio diede il crescere, di modo che non è nulla, né colui che pianta, né colui che innaffia, ma Dio, che dà il crescere». Per arrivare alla fede, alla salute, per crescere nella santità acquistata, ci vuole sì la predicazione, e la cura esterna dell’apostolato — colui che pianta e colui che innaffia — ma ciò non basta e nulla dà, se manca l’influsso superiore di Dio. In questo senso sono da spiegarsi pure le parole di Nostro Signore: «Nessuno può venire a me — (per mezzo della fede, della conversione, della carità) — se non lo trae il Padre che mi ha mandato» (Giov., VI, 44) e quelle di San Paolo: «Imperocché Dio è che opera in voi e il volere e il fare, secondo la buona volontà» (ai Filip., II 13); «Non perché noi siamo idonei a pensare alcuna cosa da noi come da noi: ma la nostra idoneità è da Dio» (II ai Cor., III, 5).

Natura della giustificazione. La giustificazione si compie per mezzo di una rinnovazione vera dell’anima. È una nuova nascita, una rigenerazione. «In verità in verità ti dico: chiunque non rinascerà da capo, non può vedere il regno di Dio... In verità in verità ti dico: chi non rinascerà per mezzo dell’acqua e dello Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio». Una nuova rigenerazione suppone qualche cosa di intimo mutata, un nuovo principio di vita e di operazione diverso dal precedente.

Trasformazione completa. Perciò l’Apostolo afferma che nella giustificazione si ha una nuova operazione creativa da parte di Dio, il cui risultato è dare una nuova creatura, che cioè abbia qualche elemento fondamentale diverso da quelli che prima si avevano. «Imperocché in Cristo Gesù nulla vale l’essere circonciso, o incirconciso, ma la nuova creazione» (ai Gal., VI, 15). «Se alcuno pertanto è in Cristo, egli è una nuova creatura; le vecchie cose sono passate; ecco che tutte le cose sono rinnovellate» (II ai Cor., V, 17). E in questo sta la grande diversità tra i riti del Vecchio Testamento e quelli del Nuovo; tra il battesimo di Giovanni e quello di Gesù. Quelli soltanto provocavano alla fede e alla penitenza, ma da sé nulla di nuovo concedevano, perché vuoti; questi invece contengono il dono di Dio, la grazia, e la danno, (vedere la Lettera ai Galati già citata più sopra; e San Matteo III, 11). Nessuna meraviglia quindi che la Sacra Scrittura dica che i peccati non solo non sono più imputati, ma vengono cancellati veramente, distrutti. L’anima è rinnovellata! «Anche se i  vostri peccati fossero (rossi) come la porpora, diverranno bianchi come la neve» (Is., I, 18). «E tali (cioè adulteri — ladri ecc.) foste alcuni di voi, ma siete stati mondati, ma siete stati santificati, ma siete stati giustificati nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio» (I ai Cor., VI, 11). Quindi «niente di condannevole si trova più in coloro che (per mezzo della giustificazione) sono in Cristo Gesù» (ai Rom., VIII, 1).

Figli di Dio. Ma il nuovo dono, il nuovo elemento infuso, non solo ha un’efficacia distruttiva, trasforma anche e innalza l’anima sopra la sua condizione naturale, facendola partecipe in qualche modo dei principi divini e delle attitudini divine, in altre parole dandole una partecipazione della natura divina: «Per mezzo del quale (di Gesù Dio) fece a noi dono di grandissime e preziose promesse: affinché per queste diventaste partecipi della divina natura» (II di Pietro, I, 4). Per questo San Paolo proclama: «Che quelli che sono mossi dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio» (ai Rom.. VIII, 15): e, come nota giustamente San Giovanni, non figli di Dio per una semplice adozione legale, ma lo sono realmente, benché non per natura, ma per partecipazione. Ora è ovvio che uno non può essere veramente figlio, se non partecipa veramente della natura del padre. «Osservate quale carità ha dato il Padre a noi che siamo chiamati figli di Dio e lo siamo» (I di Giov., III, 1). L’ufficio di questo dono partecipato è appunto quello di comunicarci la capacità di ciò che Dio ha per natura, cioè delle sue intime operazioni, della visione intuitiva dell’essenza divina e dell’amore proporzionato. «Carissimi, già fin d’adesso siamo figli di Dio; ma non ancora si è manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quand’Egli apparirà, saremo simili a Lui; perché lo vedremo qual Egli è» (I di S. Giov., III, 2). È vero che, come nota San Giovanni, ora non godiamo ancora di questa visione, ma il principio, il germe è in noi già deposto: già ne abbiamo la capacità e l’esigenza nel dono della grazia di Dio, in questa misteriosa partecipazione della divinità; già abbiamo le mirabili inclinazioni operative che a quella visione e quell’amore ci preparano. «La carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, il quale è stato a noi dato» (ai Rom., V, 5). E «con la carità sono intimamente congiunte la fede, la speranza, la carità, queste tre cose» (I ai Cor., XIII, 13). «Imperocché non ha dato a noi Iddio uno spirito di timidità, ma di fortezza, e di dilezione e di saggezza» (II a Tim., I, 7). Si ha come un mirabile e nuovo organismo (ci si passi la metafora) soprannaturale che Dio produce in noi: una elevazione dell’essenza, una elevazione delle facoltà spirituali per la nuova vita divina a cui siamo destinati. Data questa affinità, questa assimilazione misteriosa dell’anima giusta con Dio, è cosa naturale che tra essa e il suo Signore nasca e intercorra uno scambio di affettuoso amore, di mutua compiacenza e di mutua dedizione, una vera e propria amicizia. È appunto noto l’antico effato (enunciato), che l’amicizia o presuppone eguaglianza tra coloro che si amano, o tenta, per quanto è possibile, di stabilirla. Dio nella sua benigna bontà si degna sollevare l’uomo a sé, quanto è possibile a una pura creatura, per poterlo amare come un tenero amico. «Chi ama me sarà amato dal Padre mio; e io lo amerò e gli manifesterò me medesimo... Chiunque mi amerà, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo da lui e faremo dimora presso di lui» (S. Giov., XIV 21-23- «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama, etc...»). «Voi siete miei amici se farete quello che vi comando. Non vi chiamerò già più servi, perché il servo non sa quel che faccia il suo padrone. Ma vi ho chiamati amici, perché tutto quello che intesi dal Padre mio, l’ho fatto sapere a voi» (S. Giov., XV, 14 ss).

Valore delle opere del giusto. In virtù della grazia santificante l’anima giusta e tutta la sua vita e la sua attività vengono proporzionate alla gloria eterna, e le sue opere acquistano un’esigenza a tale gloria, cioè diventano meritorie di gloria e quindi anche di maggior grazia e santità. Così ci attesta la Sacra Scrittura. In innumerevoli luoghi il Paradiso, la gloria eterna è promessa a chi compie opere buone, è concessa per esse: sono esse la ragione della salvezza. Già nel discorso della montagna Gesù ce lo insegna più volte. «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli... Beati coloro che hanno il cuore puro, perché essi vedranno Dio... Beati quei che soffrono persecuzione per amore della giustizia, perché di questi è il regno dei cieli» (Matt., V, 3 ss.). E nell’estremo giudizio rivolgendosi ai giusti Gesù esclamerà: «Venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del regno preparato a voi sin dalla fondazione del mondo». Ora qual è la ragione di quest’invito al regno, di questa eterna predestinazione? «Imperocché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi ricettaste; ignudo e mi vestiste; carcerato e veniste da me... In verità vi dico: ogni volta che avete fatto qualche cosa per uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me». Ora il bene che si concede per ragione di una prestazione, per un lavoro, per una fatica deliberatamente assunta si chiama premio, e il premio ha come correlativo, nell’estimazione umana, il merito; quella prestazione, quel lavoro, quella fatica, ragione del premio, si dicono e sono meritorie. Del resto esplicitamente il regno celeste nella Sacra Scrittura è chiamato mercede, retribuzione, corona : ora è evidente che così si può chiamare soltanto ciò che si è meritato, strettamente meritato, altrimenti non sarebbe una vera mercede, ma un semplice dono grazioso. «Rallegratevi ed esultate —dice Gesù a quelli che sono perseguitati per causa sua — perché grande è la vostra mercede nei cieli». (Matt., V, 12). E queste sono pure le espressioni con cui ordinariamente San Paolo esprime il concetto del cielo e con cui anima i fedeli e se stesso alla generosità nel servizio di Dio. «Ognuno riceverà la propria mercede» (I ai Cor., III, 8). «Sapendo che dal Signore avrete la mercede della eredità, servite a Cristo Signore» (ai Coloss., III, 24). «Mi avanzo verso il segno, verso il premio della superna vocazione, in Cristo Gesù». «Ho combattuto nel buon arringo, ho terminata la corsa, ho conservata la fede. Del resto è serbata a me la corona della giustizia, la quale a me renderà il Signore giusto in quella giornata; né solo a me, ma anche a coloro che desiderano la sua venuta» (II a Tim., IV, 7-8). Si noti bene: si tratta di un premio strettamente dovuto, di giustizia; perché Dio non può negarsi di dare ciò che ha promesso a chi lavora per Lui, Dio non può non coronare col premio un’esigenza da Lui, per mezzo della grazia, impressa nelle opere del giusto. Accenniamo ad altri testi analoghi: ai Rom., II, 7 ss.; I ai Cor., III, 8; II ai Cor., V, 10; IX 6. Anche nell’Apocalisse il Signore ammonisce: «Sii fedele fino alla morte, e ti darò la corona della vita» (Apoc., II, 10).

Conclusione. Questa dottrina cattolica tanto ben fondata nella Sacra Scrittura, esalta la piena sufficienza dell’opera e dei meriti di Gesù, e insieme eccita e muove i cuori umani alla più alta perfezione, all’imitazione più fedele delle divine virtù del Redentore, mentre provoca in essi la più sincera gratitudine verso la misericordia divina, accende più vivo e più ardente l’incendio della celeste carità. Una dottrina così ben sicura nel dogma, e così efficace nella pratica, non può non esser vera, non può non dimanare da Dio fonte di ogni verità e di ogni bontà.

Per il P. Carlo Bozzola SJ e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +

A cura di CdP