Stimati Associati e gentili Sostenitori, Angelo Brucculeri S.J. - «Moralità della guerra», per La Civiltà Cattolica, Roma, 1953 - ci ricorda la sentenza di Cicerone che, con la sua fastosa eloquenza, illustra il principio su cui si regge la sana concezione del diritto di guerra: «È questa una legge non scritta, ma naturale, che noi non abbiamo imparato, ricevuta o letta; ad essa non siamo stati istruiti, ma fatti; non addestrati ma impregnati; e dice questa legge che se noi ci trovassimo nella necessità di salvare la nostra vita da agguati, dalla violenza o dalle armi di briganti o di nemici, potremmo difenderla con ogni mezzo onesto. E questa la ragione ha insegnato ai colti, il bisogno ai barbari, la consuetudine ai popoli e la stessa natura agli animali: l’allontanare dalla loro vita con qualunque mezzo ogni violenza, dalla testa, dal corpo, dalla vita».

• Se è diritto dell’individuo, con le dovute riserve, vim vi repellere, anche l’individuo collettivo, la società politica, deve avere lo stesso diritto di attendere alla propria conservazione e tutelarla, se necessario, con la forza. Ma non solo è permessa la guerra, allorché si subisce, per dir così, a causa d’una ingiustificata aggressione; ma anche allorché si tratta di riparare un essenziale diritto disconosciuto e violato, o di recuperare dei beni iniquamente usurpati, o di punire dei gravi crimini perpetrati a proprio danno. In altri termini, non solo è legittima la guerra difensiva, ma anche quella offensiva. Lo Stato, infatti, ha la sua ragione di essere per il bene comune, ossia ha per suo specifico compito la tutela e la promozione di tutto quel complesso di condizioni che assicurano la prosperità materiale e morale della collettività nell’ordine temporale.

• Orbene questa meta non si può raggiungere con la sola resistenza contro le invasioni della disonesta violenza, ma domanda altresì la riparazione d’ogni altro essenziale diritto che venga ostinatamente violato da nazioni ostili (Francisci de Vitoria, Relectiones theologicae, XII, Lione 1557, De iure belli, I, p. 383). Contro quest’atteggiamento del lecito appello alle armi da parte del potere politico si sollevano delle obiezioni.

• Abbiamo già mostrato nei numeri precedenti (244 e 245) la fallacia di alcune di esse, tratte da qualche testo scritturale o dalla storia. Ora, prima di procedere più oltre, vogliamo rapidamente esaminarne qualche altra che parrebbe fondarsi sulla ragione. Non è lecito, protestano soprattutto i pacifisti estremi, che per ovviare ai mali si ricorra ad un mezzo che serve a moltiplicarli. Servirsi delle stragi di tanti innocenti per il trionfo della giustizia, significa ammettere l’immorale principio del fine che giustifica i mezzi. Nessun dubbio che questo principio machiavellico debba assolutamente ripudiarsi; ma esso, nel nostro caso, è un fuori di luogo. Chi, con la forza e nelle dovute condizioni, difende o restaura il diritto, questi non compie un gesto in se stesso disonesto. Se egli colpisce degli innocenti, ciò avviene indirettamente, casualmente, praeter intentionem agentis. Come non operano immoralmente gli agenti della polizia, che per far capitolare un pugno di masnadieri annidati in un castello, lo assediano, o se è necessario, lo abbattono, sebbene vengano colpiti gli innocenti che vi si possono trovare; così anche gli eserciti d’uno Stato che difendono una giusta causa non perpetrano un delitto, se la loro azione risulti in grave danno degli innocenti.

• È un principio, che non può revocarsi in dubbio, che è sempre lecito, allorché si ha un’adeguata ragione giustificatrice, porre una causa dalla quale possano seguire due effetti paralleli : benefico l’uno e l’altro malefico, purché non si abbia altro di mira che il buon effetto. Se il diritto non potesse adoperare la forza, sia pure col danno inevitabile degli incolpevoli, si spianerebbe la via al trionfo dei tristi, al disordine, all’anarchia; donde gravissimi danni per la società, non esclusi gli innocenti, che si vorrebbero sottrarre ai mali della guerra. Inoltre, diremo col Del Munnynck, «nel mondo materiale il male non consiste nella distruzione di un qualsiasi essere - ne distruggiamo tanti degli esseri per la nostra conservazione - ma nella distruzione che provoca una diminuzione del valore totale. L’iconoclasta che brucia le opere d’arte per riscaldare il suo pasto, è ignobile e criminale, perché distrugge il valore spirituale della bellezza per il piacere sensibile di mangiare la pietanza calda. Ma lo scultore che abbatte un albero per trarne un capolavoro, fa bene, perché l’albero non vive che a causa della materia, e la statua, concretizzando il pensiero dell’artista, ci farà vivere con lo spirito. La distruzione di cause materiali che non hanno altro intento che procurare la giustizia, non è un male, perché il regno della giustizia, che è un diritto divino, costituisce per l’umanità e il regno di Dio, un valore infinitamente superiore alla vita materiale di individui effimeri. Resistendo con la forza all’ingiustizia, non facciamo il male, ed è perfettamente assurdo gettare in faccia agli Stati, difensori con la guerra della giustizia, l’ingiuria abominevole, di giustificare i mezzi col fine» [Opinions catholiques sur la limitation et la réduction des armements, Juvisy 1932, pp. 12-13. (Extrait des Documents de la Vie intellectuelle)].

• La guerra, dunque, può essere permessa ed avere un suo valore etico; ma quali ne sono le condizioni? San Tommaso, come accennammo innanzi, ne ammette tre soltanto (Summ. theol. II-II, q. 40, a. 1), altri arrivano fino a dieci (Stratmann, Weltkirche und Weltfriede, op. cit. nei precedenti numeri, pp. 103-104). Noi le riduciamo a cinque: Auctoritas principis, iusta causa, intentio recta, iustus modus, ultima ratio. Su ciascuna di esse c’intratterremo brevemente.

• Auctoritas principis. La prima condizione è inerente al carattere pubblico della guerra. Solo il potere sovrano ha diritto di dichiarare lo stato di guerra come di sospenderlo con la conclusione della pace. «L’ordine naturale che vuole la pace fra gli uomini, scrive Sant’Agostino, richiede che il potere di intimare e condurre a termine la guerra, appartenga al principe; mentre i militari hanno il dovere di eseguire gli ordini, che sono loro imposti nell’interesse della pace e della salvezza di tutti» (Contra Faustum, lib. XXII, cap. 75: Migne, P. L. 42, 448). Nel medio evo, dato il regime feudale, potevano sorgere dei dubbi sull’autorità cui spettava il diritto di guerra. Di fatto all’imperatore cui era devoluto questo diritto o a quei monarchi, come i re di Francia e d’Inghilterra, che nelle proprie nazioni esercitavano la piena sovranità. Ma a ragione osserva il Taparelli: «Non è sempre necessario che l’autorità sia onninamente indipendente; basta che sia tale che, mancandole ogni ricorso, non possa se non colle armi sostenere il proprio diritto; il che può succedere sì per non curanza, sì per impotenza della suprema autorità ordinatrice nell’aggregazione di molte società uguali. Queste guerre dunque fra società non totalmente indipendenti sono proprie di un incivilimento appena abbozzato, e debbono cessare a proporzione che la civiltà progredisce» (Saggio teoretico di dritto naturale, n. 1322).Oggi, con la formazione dei grandi Stati, non presenta alcuna difficoltà la determinazione del soggetto internazionale dotato della capacità giuridica di intraprendere la guerra e concludere a suo tempo la pace. Nello Stato federale (come negli Stati Uniti) gli Stati membri non hanno questa capacità, ma la Federazione soltanto può avere rapporti bellici con altri Stati. Nelle Confederazioni invece (come quella della Germania del 1815) gli Stati membri conservavano la piena autonomia anche sul diritto di guerra. L’evoluzione del diritto internazionale, dopo la guerra mondiale del 1914, si volse a moderare la sovranità statale intorno all’esercizio del diritto di guerra. Così i membri della Società delle nazioni si sottoposero a serie limitazioni circa l’uso di questo diritto (Cfr Yves de la Brière, Le droit de juste guerre, op. cit. nei precedenti numeri, p. 61 e ss).

• Iusta causa. Non è una causa sufficiente per legittimare una guerra il progressivo sviluppo di un popolo (anche se confinante) considerato quale non lontano pericolo di predominio. La guerra insomma preventiva, non è lecita, benché il Montesquieu pensi di poterla giustificare (Esprit des lois, lib. 10, cap. 2). Le ragioni sono ovvie. Primieramente perché l’ordine internazionale sarebbe di continuo in pericolo di frantumarsi, giacché variano frequentemente i rapporti di forza e di potere fra gli Stati. Si apre inoltre la via ad abusi e ad arbìtri d’ogni sorta. Soprattutto la guerra preventiva è illecita, perché il pericolo che d’ordinario crea una nazione progrediente è probabile, ma questa probabilità è un titolo incerto, che viene colliso dal titolo, non dubbio ma evidentissimo, che obbliga i popoli alla mutua benevolenza (Taparelli D’Azeglio, Saggio teoretico di dritto naturale, n. 1339). «Se la causa della guerra, scrive il Grazio, è d’altronde giusta, sarà anche da saggio e prudente intraprenderla, se avrà per risultato d’indebolire un vicino potente. Ma che la possibilità d’una violenza dia diritto alla violenza, ripugna ciò all’equità e alla giustizia. Tuttavia la vita umana non si svolge mai nella piena sicurezza. Dalla divina Provvidenza adversus incertos metus et ab innoxia precautione (cautele politiche, economiche, militari) non a vi praesidium petendum est» (De iure belli ac pacis, lib. I, cap. I, XVII). «Soltanto una minaccia manifesta ed imminente, insegna il Codice di morale internazionale di Malines, come politica sistematicamente aggressiva, concentrazione insolita di truppe ecc., può autorizzare lo Stato, che per tutto ciò si stima leso nella sua sicurezza, di esigere la cessazione dei sospetti procedimenti e, in caso di rifiuto, di imporla con la forza» (Codice di Morale Internazionale, Roma s.a., n. 152). Non è pure una giusta causa il prestigio del sovrano, perché non il bene particolare del singolo ma il bene della comunità può giustificare l’attività bellica, come qualsiasi altra attività dello Stato. Come non sarebbe una giusta causa il semplice motivo di espansione territoriale, giacché non è lecita la conquista dell’utile proprio col danno degli altri. Le guerre mosse dalla cupidigia, dice Sant’Agostino, quid aliud sunt quam grande latrocinium? (De Civitate Dei, lib. IV, cap. 1: Migne, P.L. 41, 117). E nemmeno è una giusta causa il mutuo e tacito consenso delle parti belligeranti, che convengono di affidare alla sorte delle armi la soluzione del loro litigio. « I due belligeranti, diremo col p. Yves de la Brière, sarebbero così d’accordo per ammettere che la questione si troverebbe normalmente sciolta a vantaggio del vincitore e che le nuove situazioni sarebbero validamente giustificate per il diritto di guerra e di vittoria» (Le droit de juste guerre, op. cit., pp. 78-79).

• Questa teoria è meritamente respinta, 1) Perché, se nel caso la guerra non viola la giustizia commutativa (il vinto ha in antecedenza rinunziato alla riparazione dei torti) viola l’ordine e lede il bene comune della società statale ed internazionale. 2) Include il supposto che la guerra sia mezzo razionale e normale di sciogliere i problemi della giustizia e del diritto. Ora la forza è assolutamente un fuori di luogo, ma la ragione soltanto può affrontare questi problemi. La ragione in tali casi, se si presentano incerti e dubbi e non si vede dove stia il diritto, ricorre ad un espediente che non sia malefico, come l’arbitrato, la composizione amichevole, la sorte e simili mezzi. 3) Contiene l’intrinseca illiceità del duello. Oggi si parla di spazio vitale quale causa di guerra. Se s’intende per diritto allo spazio vitale il diritto alla vita, sebbene legittimo che questo diritto non può essere invocato contro l’identico diritto che altri hanno alla vita ed all’esistenza: può solo valere collidendo col diritto inferiore degli altri. Per esempio il diritto di proprietà è inferiore al diritto alla vita, quindi l’occupazione o l’invasione di una terra disabitata o pressoché disabitata per parte di un popolo che non può più essere contenuto nel proprio territorio a causa della saturazione demografica, è lecita. [Qui ci sarebbero molte precisazioni da fare].

• Per giusta causa si deve intendere la contestazione pervicace e la violazione di un diritto di sommo rilievo, e che intanto non si vuole affatto riparare. Il diritto all’esistenza, alla libertà, al proprio territorio, ai propri beni, al proprio onore possono essere, se lesi, valido motivo di guerra. Col Vitoria ed altri a lui posteriori, si è estesa la sfera dei diritti che possono essere difesi o promossi con la forza. E ciò in base alla concezione di una naturale società universale dei popoli. Così, per esempio, i diritti di commercio e di soggiorno in dati casi potrebbero legittimare il ricorso alle armi. La causa, inoltre, per essere giusta deve proporzionarsi ai gravi mali che si affrontano nella guerra. Si noti che una causa oggettivamente non grave, per la persistenza nel diniego d’ogni riparazione e l’atteggiamento sprezzante dell’offensore possono via via ledere così l’onore nazionale da costituire una causa grave. Questa proporzione è specialmente richiesta nella guerra che non ha un carattere punitivo, ma che ha un semplice scopo di riparare la violazione del diritto senza alcuna colpa morale.

• La causa deve essere certa. Nel dubbio non si può ragionevolmente infliggere agli altri un danno certo, quale è quello che è prodotto dalla guerra. Ci deve anche essere fondata speranza che i vantaggi prevarranno sui danni. «Il giusto belligerante, leggiamo nel Codice di Morale Internazionale, calcolando i legittimi vantaggi, che dalla guerra si attende e i danni d’ogni sorta che immancabilmente ne derivano, deve mettere in conto il grave peso delle sofferenze e delle rovine che il conflitto imporrà alle altre nazioni, a quelle di cui sconta il concorso armato, come alle neutrali che avranno a subire le dolorose ripercussioni della lotta. Questo confronto rivelerà forse una tale disproporzione fra il bene che varrà la vittoria e il prezzo a cui tutta l’umanità dovrà pagarlo, che la carità farà un dovere di rinunziare alla giusta riparazione ch’egli domanda, anziché esporre il mondo ad una spaventosa catastrofe» (Codice di Morale Internazionale, op. cit., art. 160). D’altronde la sproporzione delle forze non crea sempre l’obbligo alla parte più debole di cedere all’ingiustizia del più forte e prepotente. Anche la probabilità d’una disfatta, quando si tratta di difendere i valori superiori, come la fede giurata, la religione e simili, non deve agevolmente esimere dall’eroismo e dal martirio, che attraverso i secoli costituiscono per l’umanità una sorgiva di nobili aspirazioni, un lievito di ascensioni morali, un capitale vistosissimo che fruttifica attraverso i secoli e le generazioni.

• Un problema connesso con la questione della giusta causa della guerra è il problema della colpabilità morale, che, a parere di alcuni, si richiederebbe per giustificare l’uso della forza. È evidente che si può talora violare un diritto, essendo però in buona fede. In questo caso la coscienza è erronea, ma non lascia di esser retta, ossia immune di colpabilità soggettiva. I teologi, i canonisti e i moralisti sono concordi nell’ammettere che per giustificare la guerra, basta la sola colpa giuridica, la violazione oggettiva, materiale, estrinseca del diritto. Se così non fosse, se cioè si richiedesse la colpa morale, la restaurazione dell’ordine e la riparazione dei torti in troppi casi non potrebbero effettuarsi, perché non sarebbe assai spesso possibile accertare la colpabilità morale. In genere i belligeranti credono di non essere affatto colpevoli, e si battono in buona fede. La guerra, dunque, non è essenzialmente punitiva, ma restauratrice dell’ordine obiettivo.

• Ultima ratio. I rapporti degli Stati sono essenzialmente morali e giuridici; la forza non può sostituirsi alla disciplina del diritto se non nel caso estremo, in cui questa sia resa impossibile dal fallimento d’ogni via di pacifico componimento. È sempre ingiusta una guerra, se chi l’intraprende, pur essendo il buon diritto dalla sua parte, non abbia fatto ricorso ai mezzi pacifici di soluzione. «La diplomazia è definita la scienza della costituzione sociale e politica degli Stati e l’arte di conciliarne i diritti, i doveri e gli interessi. È vero purtroppo, che per molti è l’arte di cucire la pelle della volpe con quella del leone, quando questa è troppo corta» Hoijer, La solution pacifique des litiges internationeaux, Parigi 1935, pp. 3-4). Questi mezzi pacifici di soluzione sono: 1) Le negoziazioni dirette fra i contendenti, che si svolgono per via della diplomazia. Se veramente si vuole la pace non è malagevole con la chiarificazione dei propri punti di vista e con le reciproche concessioni di raggiungere l’accordo. 2) I buoni uffici, ossia i passi di una terza potenza che si offre alle parti in conflitto per spianare loro la via alle negoziazioni dirette o a riannodarle se interrotte. 3) La mediazione, che è il procedimento con cui una terza potenza, mediante la persuasione o l’ascendente morale, agevola l’accordo con l’attuazione delle richieste o per via di compromessi (La mediazione può essere singolare o collettiva. Può talora dispiegare una pressione illegittima, perché animata da calcoli interessati). 4) L’arbitrato, che è una forma giudiziaria di risoluzione vera e propria, mentre gli altri modi sono vie che conducono alla soluzione. 5) Le commissioni d’inchiesta internazionale, le quali dovendo fare delle indagini, mentre da una parte, mediante persone imparziali mirano a far luce sui fatti, dall’altra parte guadagnano del tempo che tanto giova a moderare le divampanti passioni. È un’istituzione sorta con la prima conferenza dell’Aia. 6) Potremmo in fine aggiungere la Società delle nazioni e l’O.N.U., le quali, sebbene non abbiano fatto buona prova, erano sorte coll’intento di ostacolare al possibile le guerre fra le nazioni e adoperarsi a mantenere fra loro la concordia e la cooperazione internazionale. PS: Quando le società erano civili, abitualmente i sovrani ricorrevano ai Pontefici per la possibile soluzione delle controversie.

• Intentio recta. Essendo la guerra attività morale, come qualsiasi azione morale deve giustificarsi dal suo oggetto e dalle sue circostanze, fra le quali primeggia quella del fine. «È necessario, scrive San Tommaso, che l’intenzione dei belligeranti sia retta, ossia che abbiano per mèta di fare il bene e schivare il male... e quindi può avvenire che la guerra sia stata giustamente dichiarata dalla competente autorità, ed essere frattanto illecita a causa della perversità degli intenti di coloro che l’intraprendono. Il desiderio di nuocere, la crudeltà nella vendetta, un animo spietato e nemico della pace, il furore nelle rappresaglie, la passione del dominio e sentimenti congeneri, ecco ciò che deve essere meritamente riprovato nella guerra» (Summ. theol., II-II, q. 40, a. 1).

• Notiamo che tanto la recta intentio quanto il modus iustus, non appartengono al ius ad bellum, ma al ius in bello, ossia al diritto che si esercita nella condotta della guerra. In altri termini, l’intenzione può rendere ingiusta la guerra dal punto di vista soggettivo e morale; mentre dal punto di vista oggettivo e giuridico è incriminabile. Così, per esempio, il punire con la guerra una violazione del diritto può accompagnarsi col desiderio di sfogare l’odio e di soddisfare la propria avarizia coi beni del nemico. «La perversa intenzione, scrive il Caietano, rende la guerra riprovevole, così come nel caso della giusta punizione d’un ladrone, la quale diviene riprovevole, se vi si esercita la giustizia ma per odio... Non si dà luogo quindi a restituzione, giacché il ladro o il belligerante vinto subiscono a giusto titolo la condanna, benché nell’intenzione del giustiziere vi sia della malizia, poiché egli nella sua coscienza non ha voluto compiere il giusto in una giusta forma» (Summa Cajetani, Venetiis 1571, p. 26).

• Iustus modus. Nella guerra l’uso della violenza (o meglio: della forza) deve essere diretto a distruggere le forze armate del paese. Tutto ciò che non serve a questo scopo, ma solo allo sfogo dell’odio e della brutalità deve essere omesso. Tutto ciò che non è richiesto per la propria difesa, per la riparazione dei torti, per la rivendicazione del diritto è illecito. C’è chi pensa che la violenza nella guerra non deve aver alcun limite, ma deve tendere all’intensificazione assoluta. Il volere umanizzare la guerra sarebbe un procedimento assurdo, che si risolve nel protrarla a lungo. Queste affermazioni di filosofia bellica non reggono all’analisi. L’uomo, anche quando impugna le armi in difesa della giustizia, non cessa di essere uomo, ossia un essere razionale, sottoposto sempre all’esigenze dell’etica, che importano la conformità con la natura razionale. Perché, dunque, sia retta la condotta della guerra, non bisogna distruggere per distruggere, non bisogna compiere ciò che è intrinsecamente disonesto, come l’uccisione diretta dei cittadini innocenti, la violazione del giuramento, la calunnia. Certamente sarà permessa la rappresaglia, badando alla norma che la violazione del diritto di una parte belligerante non autorizza l’altra parte a violare qualunque diritto e a ricadere nella barbarie (Cfr. Yves de la Brière, Le droit de juste guerre, op. cit., p. 135).

• In secondo luogo bisogna uniformarsi alle consuetudini e alle convenzioni bilaterali o internazionali che sono state accolte nel diritto delle genti. Fra queste norme vanno segnalate quelle dell’Aia del 1907 per le quali «i belligeranti non hanno una facoltà illimitata nella scelta dei mezzi per nuocere al nemico. Questa stessa Conferenza del 1907 interdice all’articolo 23 del Regolamento: a) l’adoperare veleni o armi avvelenate; b) l’uccidere o ferire per tradimento gl’individui appartenenti alla nazione o all’armata nemica; c) l’uccidere o ferire un nemico che ha lasciato le armi o si è arreso, a discrezione, non avendo più mezzi per difendersi; d) il dichiarare di non dar quartiere; e) l’impiegare armi, proiettili e materie proprie a causare mali superflui; f) l’usare indebitamente delle bandiere parlamentari, o la bandiera nazionale o l’insegne militari e l’uniforme del nemico, o i segni distintivi della Convenzione di Ginevra (Croce Rossa); g) l’appropriarsi o distruggere delle possessioni nemiche, a meno che non sia ciò imposto da necessità belliche; h) il dichiarare estinti o sospesi o non validi i diritti e le azioni dei nazionali della parte avversaria; i) costringere i nazionali della parte avversaria a prendere parte alle operazioni di guerra dirette contro il proprio paese.

• Rispetto ai prigionieri è prescritto, da questa stessa conferenza, che non possono essere uccisi. Importante è poi la distinzione fra combattenti e non combattenti, sebbene oggi si presti a gravi difficoltà, giacché nella guerra odierna, così eminentemente industriale, pressoché tutta la popolazione attiva prende parte alla guerra, né può dirsi del tutto inoffensiva. Ad ogni modo essa deve essere, per quanto è possibile, al riparo delle violenze dirette causate dalla guerra. Oramai è permesso al giusto belligerante d’attaccare l’avversario sul punto vivo dell’apparecchio economico: officine militari, ferrovie, porti, fonti di materie prime, ecc. Si ammetterà altresì di esercitare col blocco una graduale pressione che finirà col ridurlo a chiedere la pace. L’arma del blocco non pare che possa vietarsi, giacché essa non diviene micidiale che per la tenacità della popolazione assediata, che si sottopone alle più gravi privazioni piutto-stoché capitolare (Codice di Morale Internazionale, op. cit., art. 172).

• La guerra lungo i secoli ha subito necessariamente una continua evoluzione. Nel paganesimo le guerre avevano sempre un carattere di brutalità che ripugna alla coscienza cristiana. Nessuna limitazione alla violenza, nessuna norma che temperasse la ferocia di uccidere, anche senza una esigenza militare. I feriti, i prigionieri, i cittadini non combattenti potevano essere sgozzati o venduti schiavi. Paolo Emilio vende come schiavi centomila epiroti che si erano arresi volontariamente. È ben noto lo sterminio di Cartagine, di Gerusalemme e di tante altre città compiuto dai Romani. Con la strage degli uomini vi era anche la strage delle cose: città, messi, patrimonio zoologico, tutto veniva distrutto. «Con questo diritto di guerra, scrive Fustel de Coulanges, Roma estese la solitudine attorno a sé » (La cité antique, Parigi 1905, p. 244).

• Con l’avvento del cristianesimo e il suo trionfo nella coscienza pubblica anche la guerra subisce delle mitigazioni non lievi. Nel medioevo, per quanto frequenti, le guerre erano assai ristrette nel tempo, e gli effetti assai limitati. I combattenti sono volontari e poco numerosi. L’urto bellico avveniva per lo più nelle frontiere, e la vita della nazione non veniva nel suo complesso profondamente alterata. Con la rivoluzione francese si pone fine alle guerre dinastiche e s’inizia un’evoluzione della guerra che ne accentua sempre più l’asprezza e i danni. Essa infatti assume un carattere nazionale, ed è rivolta alla difesa della patria. L’elemento “morale” costituito dal patriottismo rende la guerra più disastrosa. S’introduce la leva obbligatoria che diviene pressoché generale nelle principali nazioni d’Europa. Oggi, coi progressi enormi della tecnica, le devastazioni, le morti, le distruzioni e tutti i mali inerenti alla guerra si sono centuplicati.

• Oltre al carattere nazionale oggi essa assume il carattere totalitario, giacché assorbe tutte le energie della nazione e la totalità dei suoi membri adulti. «Oggi (disse il generale Pétain nel discorso della sua ammissione all’accademia di Francia) a causa dello sviluppo dei mezzi di trasporto, le risorse nazionali integralmente mobilitate possono affluire con rapidità e rinnovare di continuo le masse armate. I trionfi, dunque, sono passeggeri; lo sfruttamento della vittoria si arresta non appena l’avversario ha potuto condurre in campo nuove forze. Perché il successo sia definitivo, bisogna impedire quest’afflusso di forze ed essiccarne la sorgente. Ormai il fine della guerra appare in tutta la sua ampiezza: esso è divenuto la distruzione non d’una armata, ma d’una nazione» [Paix et Guerre, Parigi s.a., p. 68 (La Vie intellectuelle - Les documents)].

• Al tempo stesso coinvolge per lo più le altre nazioni. La guerra del 1914, come quella del 1939 ne sono la prova. Queste considerazioni hanno indotto alcuni studiosi cattolici moderni a domandarsi: se non debba subire una revisione (ove possibile) la dottrina cristiana della guerra, soprattutto se possa più al presente parlarsi (secondo i più audaci) della sua liceità. Che cosa dobbiamo pensare su ciò? Prima di tutto notiamo che non possono non ammettersi alcune critiche, mosse alla concezione cristiana tradizionale, quale l’abbiamo esposta, intorno alla guerra. Queste critiche fanno capo a tre punti. Primieramente l’invalidità del criterio per giudicare se sia o no lecita la guerra. Questo criterio è la coscienza del sovrano o di coloro che hanno il potere supremo, ossia il giudizio è affidato alla parte interessata. Ma nemo iudex in causa propria. E se ciò è necessario per l’individuo, non è meno necessario per lo Stato in cui convergono interessi e passioni d’una portata incalcolabile. Chi può dubitare dell’accecamento a cui può condurre il patriottismo, l’egoismo accentratore, l’orgoglio ferito, la bramosia di predomio? Dove è mai quel popolo o quel sovrano che abbia mai riconosciuto il suo errore o la sua colpabilità nell’intraprendere una guerra? Vitoria (De iure belli, 21, p. 396) e Suarez (De charitate, disputatio XIII, De bello, sectio VI) hanno rilevato questo inconveniente; perciò il primo suggerisce al principe di consigliarsi coi savi e i dotti; il secondo ammetterebbe la soluzione di un neutrale, quale il Papa.

• In secondo luogo l’incertezza dell’esito, giacché affidarsi alle armi per far trionfare la giustizia, importa affidarsi ad un processo aleatorio, in cui non sempre il giusto e l’onesto trionfa, ma l’ingiusto e colpevole. Che anzi ha più probabilità di trionfo colui che ha violato il diritto, giacché se è stato così audace a violare il diritto, è stato a causa del prepotere delle sue forze che gli assicuravano il trionfo sulle reazioni che avrebbe sollevato il suo gesto criminale. In terzo luogo la precarietà della pace. Essendo il vincitore che l’impone, ossia la parte interessata, non è certo raro il caso che s’impongano ingiuste riparazioni e indebite sanzioni; anche quando il vincitore sia il giusto belligerante. E allora il vinto mal sopporta la pace e cercherà di rifarsi e scuotere il giogo non appena avrà qualche probabilità di vittoria.

• In quarto luogo la relatività che presenta la dottrina in questione, in quanto che una tale dottrina è stata accomodata allo stato inorganico dell’odierna comunità internazionale. La sua giustificazione ha dunque un valore ipotetico e condizionale proprio delle circostanze anarchiche della società umana universale. In uno stadio più evoluto e giuridicamente organizzato della naturale famiglia dei popoli, non potrebbe sussistere. «La comunità internazionale, scrive il p. Yves de la Brière, da molti secoli, somiglia, nei rapporti fra le potenze, ad un grande paese che non possiede né polizia, né tribunali, né sistemi di repressione penale. Per difendersi contro i delinquenti e per toglier loro la libertà di nuocere con nuove stragi e grassazioni non resterebbe altro partito ai gruppi particolari che ad organizzarsi ed armarsi contro le bande dei briganti e degli ingiusti aggressori... Sarebbe quindi la giustizia privata il sistema nel quale - a causa dell’assenza di una tutela organica e generale per la sicurezza comune, - ciascun membro della comunità farebbe del suo meglio per difendere coi suoi mezzi il proprio diritto. Stato di cose rudimentale e turgido di danni ed inconvenienti enormi, che non si giustifica e non si scusa che per la mancanza di guarentigie più razionali, più efficaci e migliori. È l’infanzia dell’arte in materia della protezione della giustizia e di guarentigia sociale per la tutela del diritto. Tale è il caso del sistema della giusta guerra. È conforme alla morale e al diritto a causa della deficienza di migliori garanzie e per evitare l’immunità ad abusi peggiori e più perniciosi. Si ha dunque una giustificazione condizionata, ipotetica, valevole solo per la mancanza di un sistema internazionale con cui sia razionalmente organizzata e protetta la giustizia fra gli Stati» (Le droit de juste guerre, op. cit., pp. 176-177). Ovvero: stando così le cose, la guerra giusta è conforme alla morale e al diritto. Questa l’opinione del p. Yves de la Brière.

• Se quest’atteggiamento moderatamente critico sull’insegnamento tradizionale intorno alla guerra può valutarsi, non tutti certamente consentiranno a quell’altro atteggiamento di pensiero, con cui si afferma che al presente la guerra è sempre illecita. Il 19 ottobre del 1931 alcuni teologi di varie nazioni, in una consultazione tenutasi a Friburgo (Svizzera) vennero alla seguente conclusione: «La guerra moderna non potrebbe essere una procedura legittima. Giacché essa, a causa della sua tecnica e per una tal quale necessità inerente alla sua natura, genera sì grandi rovine materiali, spirituali, individuali, familiari, sociali, religiose, e diviene una tale calamità mondiale, ch’essa cessa di essere un mezzo proporzionato al fine (che solo potrebbe eventualmente giustificare l’impiego della forza) ossia: l’instaurazione d’un ordine più umano e la pace» (Paix et guerre, op. cit., pp. 41-43).

• Secondo questi teologi parrebbe la guerra moderna sempre illecita. Che cosa si deve rispondere? Notiamo anzitutto che cosa pensano alcuni eminenti studiosi su questo problema. Il p. Regout, dopo d’aver citato le conclusioni dei menzionati teologi, scrive: «Se con queste proposizioni si vuole intendere che lo scoppio d’una guerra non può giammai esser lecito ai nostri giorni, anche dopo il fallimento dei mezzi pacifici e nel caso della peggiore delle ingiustizie, non potremmo per nostra parte sottoscrivere ad una tesi così assoluta (e assurda, ndr.)». Anche il Leclercq respinge la tesi assoluta dell’illiceità della guerra moderna: «Nella civiltà presente, egli scrive, è ancora concepibile che uno Stato sia obbligato ad una giusta guerra, fosse pure una guerra di sterminio. I casi d’una giusta guerra possono essere meno numerosi di altre volte, soprattutto i casi di guerra offensiva giusta non si concepiscono che assai difficilmente, ma basta che resti la possibilità d’una qualche guerra giusta, perché lo Stato debba mettersi in condizione di far fronte eventualmente ad essa».

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