Comunicato numero 59. La legittima difesa

Stimati Associati e gentili Sostenitori, dato che il tema è particolarmente importante nonché attuale, parliamo di «Legittima difesa» (cf. «Enciclopedia Cattolica», Vol. IV, Vaticano, Imprimatur 1950, dalla colonna 1581 a seguire). Chi, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui, riguardante l’incolumità personale, o un bene prezioso in proprio possesso, contro il pericolo attuale di un’aggressione ingiusta, ferisce o uccide l’aggressore, si dice agire per legittima difesa, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa. La liceità della legittima difesa sgorga dallo stesso diritto di natura ed è ammessa da tutti i diritti positivi.

• Già Cicerone, parlando di questo diritto, lo ascrive alla legge naturale: «A natura cuique tributum, ut se et corpus suum tueatur declinetque ea, quae ei nocitura sunt» (De Officiis, I, I). E Gaio: «Naturalis ratio permittit se defendere» (D. 9, 2, 45). Ma nel diritto romano era lecito solo difendersi, con l’uccisione dell’aggressore, quando era in gioco la vita, l’integrità personale ed il pudore; non già se si trattava di beni, a meno che per ragione del tempo e del luogo dell’aggressione non fosse in pericolo l’incolumità personale, oppure il ladro aggredisse, percuotendo la vittima. Tuttavia non era illecito prevenire l’aggressore e difendere in maniera cruenta non solo se stesso, ma anche i propri cari. Poco si sa di preciso sul diritto barbarico in materia, per la diversità delle fonti e dei pareri degli interpreti; ma pare che la difesa legittima non fosse considerata come istituto a sé, sia per la natura oggettiva dell’antico diritto germanico, sia ancora per la facoltà data ai privati di vendicare l’omicidio. Il diritto canonico antico confermò la liceità della difesa cruenta. Innocenzo III circoscrisse i limiti della difesa «cum moderamine inculpatae tutelae».

Nell’ambito della liceità dell’uccisione per legittima difesa si fece rientrare anche la difesa dei beni di fortuna. La dottrina canonica, già lungamente discussa dai decretisti, venne ulteriormente elaborata dai teologi moralisti, sotto il controllo del Magistero ecclesiastico, che corresse le sentenze troppo lassiste o rigoriste degli uni e degli altri. Fu riprovata così la sentenza di coloro che pretendevano estendere il campo della liceità della legittima difesa alla tutela dell’onore (Denz-U, 1117, 1180); o dei beni materiali di scarsissimo valore o che non sono attualmente in nostro possesso (ibid., 1182 seg.); o dichiaravano legittima la soppressione del giudice nell’imminenza della dizione di una ingiusta sentenza, altrimenti inevitabile, di un falso accusatore o di un falso testimone (ibid., 1118), dell’adultero o della moglie sorpresi in flagrante adulterio (ibid., 1119); oppure accordavano la scriminante della legittima difesa anche a colui che avesse potuto altrimenti sottrarsi efficacemente all’aggressione, per esempio, con la fuga (ibid., 1180). Tutti casi in cui non si verifica lo stato di necessità; in cui la soppressione dell’avversario non sempre è il mezzo più adatto per tutelarsi o manca il senso di proporzione dei valori. D’altra parte furono considerate come infette di rigorismo le sentenze di coloro che non riconoscevano mai lecita la soppressione dell’aggressore, in quanto nella difesa legittima si avrebbe sempre una sproporzione di valori nella preferenza data alla propria vita temporale sulla salvezza eterna del prossimo. Sentenze che trovarono eco anche in giuristi e filosofi, che vissero più o meno al margine del pensiero cristiano. Nel diritto canonico odierno (Codice Pio-Benedettino del 1917, ndR) è stabilito che la legittima difesa contro un ingiusto aggressore «si debitum servetur moderamen», esclude del tutto il delitto e quindi la punibilità; mentre, se non è osservato il dovuto «moderamen» attenua l’imputabilità (can. 2205 § 4).

• Fondamento della liceità. Siamo d’accordo sulla liceità della difesa legittima entro determinati limiti ben definiti, più difficile è trovare la ragione ultima della liceità appunto per questo contrasto di valori e di diritti nostri e di altri, e per l’universalità del precetto: «Non occides», che pare non consentire eccezioni all’infuori di un mandato speciale di Dio. San Tommaso (Sum. Theol., II-II, q. 64, a. 7) sembra in materia applicare il principio del duplice effetto. L’atto di colui che si difende, uccidendo l’aggressore, è da riguardarsi sotto un doppio aspetto: in quanto è diretto alla conservazione della propria vita, ed in quanto produce l’uccisione dell’aggressore. Difendersi è nell’ambito della più piena liceità, essendo connaturale che l’uomo tenda a conservare la sua esistenza quanto più può. L’uccidere poi l’aggressore, quando ciò non è voluto, ma solo permesso per gravissime ragioni, non è ugualmente imputabile al soggetto. Ma su questo passo di san Tommaso, che si è cercato di riferire nel senso più ovvio, si è fermata e formata tutta una gamma di interpretazioni e di sentenze dall’Azpilcueta al card. De Lugo, da sant’Antonino a sant’Alfonso, dal Lessio al Cathrein, al Waffelaert, al Van Hove, soprattutto perché il santo Dottore sembrerebbe proibire a chi si difende di intendere direttamente l’uccisione dell’aggressore: il che ad alcuni sembra inaccettabile, anche perché sarebbe una sottigliezza eccessiva e poco pratica. Perciò, oltre le diverse presentazioni del pensiero di san Tommaso, sono state elucubrate altre spiegazioni, più o meno convincenti. Alcuni infatti spiegano la liceità ricorrendo ad una specie di delegazione che la pubblica autorità farebbe a chi si trovi in simili circostanze. Ma si può osservare che i Codici parlano solo di effetto scriminante della difesa legittima. Altri ricorrono alla necessità di tutelare in questa maniera l’ordine sociale e conseguentemente di promuovere il bene comune; per quanto, si potrebbe osservare che al più si ha in ciò un criterio manifestativo della liceità dell’atto e non la ratio ultima. Altri si appellano al conflitto di diritti in caso incompatibili: il che suppone provato ciò che si deve dimostrare: la liceità di togliere la vita all’aggressore. Il Puffendorff trova la ragione ultima nel fatto che nei doveri di natura nessuno può chiedere ad altri quello che egli non adempie ed anzi positivamente trasgredisce. Chi aggredisce ingiustamente i diritti di un altro, perde i propri e si mette da sé fuori della legge. Ma anche i mutui doveri tra gli uomini procedono in ultima analisi da Dio e non cessano senza che in qualunque maniera egli lo voglia o consenta. Meno convincente è poi la teoria della necessità del diritto o dell’autorizzazione di Stato (Notstand und Notrecht), per cui l’uccisione dell’aggressore, per il semplice fatto che è necessaria alla propria conservazione o permessa dallo Stato, sarebbe lecita (Carrara, Pessina, ecc.). La soluzione è da altri prospettata in base a queste considerazioni. Nell’omicidio si ha una duplice ingiuria: contro Dio, vero padrone della nostra vita; verso il prossimo, che per il fatto che esiste ha diritto alla vita. Ma chi aggredisce è conscio di provocare una reazione, e quindi è responsabile in causa delle conseguenze e toglie alla reazione stessa cruenta il carattere formale di ingiuria; secondo il detto: «volenti non fit iniuria». Che poi questa difesa cruenta di se stesso non sia contraria all’ordinamento etico, che fa capo a Dio, può in parte rilevarsi dall’istinto di difesa insito negli animali e nell’uomo, che per moto spontaneo tende ad opporsi all’aggressore in qualsiasi modo: la voce della natura pare essere la voce del Creatore. Inoltre la coercibilità, cioè la facoltà morale di difendere un proprio diritto anche con la forza a determinate condizioni, è una qualità del diritto stesso, anche se non essenziale, e come tale deriva da Dio, autore delle cose e dei diritti. Ora il diritto alla vita è un bene sommo: la sua coercibilità deve dunque estendersi al sommo; sarebbe invece illusoria ed inefficace, se non giungesse fino alla difesa cruenta.

• Nella Sacra Scrittura non si trovano altri elementi che ci rendano manifesta la volontà divina. C’è un passo del Vecchio Testamento (Ex. 22, 2-3) che sembra consentire la difesa cruenta contro il ladro notturno, ma è incerto se ivi si tratti di una disposizione di diritto positivo o di diritto naturale. D’altra parte, però, non si può dimostrare in alcun modo dalla Sacra Scrittura l’illiceità della legittima difesa, perché i passi di Mt. 5, 38-39; 26, 52; Rom. 12, 18-19, che parrebbero presentare qualche difficoltà, sono comunemente interpretati nel senso che ivi si vieti soltanto la cupidigia della vendetta. Una fonte della dottrina della Chiesa è anche il Magistero ecclesiastico, che ha sentenziato nel senso sopra indicato. È dunque lecita la legittima difesa prima di tutto contro colui che è formalmente ingiusto aggressore. È anche lecita contro chi è aggressore ingiusto solo materialmente, perché all’atto pratico un simile esame è quasi sempre impossibile e d’altra parte l’argomento tratto dalla coercibilità del diritto vale contro qualsiasi tipo di ingiusto aggressore.

• Condizioni per la liceità della difesa legittima. Ma la facoltà del ricorso alla forza fisica per la tutela di un diritto non può essere mai illimitata: altrimenti sarebbe arbitraria e sconvolgerebbe, anziché tutelare, l’ordine etico e giuridico. Ciò vale anche per il caso della legittima difesa. Dopo quanto si è detto, è facile definire questi limiti, che i moralisti riassumono nella formola desunta dal Codice Giustinianeo «inculpatae tutelae moderatione» (Cod. 8, 4, I). In linguaggio più semplice, gli elementi costitutivi della moderatio sono: aggressione ingiusta, reazione proporzionata, necessità della difesa.

- 1. Aggressione ingiusta. Per la scriminante del moderame si richiede che l’agente operi per respingere una violenza da sé e da altri, violenza ingiusta o nella sostanza o nel modo, violenza in atto. Dal pericolo nasce un legame di fraternità universale, per il quale la reazione e la tutela ricevono l’impronta della legittimità da chiunque esercitate ed a favore di chiunque: dalla forma egoistica e personale della difesa di sé e dei suoi, si assurge così alla forma altruistica ed impersonale della difesa del diritto. Ingiusta è poi la violenza che viene inferta senza diritto; e basta che la violenza sia ingiusta in sé, senza bisogno di riferirla alla responsabilità dell’aggressore. Fosse anche questi un maniaco od un ubriaco, se l’atto suo ha fatto sorgere la necessità di una pronta reazione, la reazione è giustificata. Tuttavia perché abbia effetto scriminante è necessario che la violenza, e cioè il male o il pericolo contro cui si reagisce, sia attuale, almeno moralmente. Una semplice minaccia, non accompagnata da atti o circostanze, che inducano nel minacciato il timore dell’imminente esecuzione, non basterebbe per togliere l’imputabilità della reazione; ma può d’altra parte bastare il timore dell’imminente esecuzione, essendo massima antica di diritto e di senso comune, che «nemo tenetur exspectare donec percutiatur». Se l’attacco fu respinto, e, senza ragionevole motivo di temere che l’aggressore perseveri e ritorni all’ostilità, l’aggredito trascende contro di lui a violenze ulteriori, non sarà per queste invocabile la giustificazione del moderame. In tutti questi casi si deve piuttosto parlare di vendetta, e al più, a norma delle varie circostanze, a seconda del sentimento, che trasse il soggetto ad agire, si avrà la figura dell’eccesso di difesa o della provocazione.

- 2. Reazione proporzionata. Non si può togliere al prossimo un bene massimo per un bene minimo o per un bene altrimenti difendibile. Per questo requisito la legittima difesa deve restringersi agli attentati fatti alla vita, all’integrità personale, alla libertà, agli attentati al pudore, che siano tali da mettere la vittima in condizioni di doversi difendere. Il moderame per l’attentato ai beni va regolato moralmente in proporzione al valore intrinseco del bene conteso, alle condizioni di chi è minacciato ed alle possibilità di poterlo altrimenti rivendicare. Per queste ragioni non è facile una traduzione in cifre, per quanto da alcuni tentata. Certamente non può essere inferiore alla materia relativamente grave del furto (cf. Denz-U, 1181).

- 3. Necessità della difesa. Questa deve essere esaminata ed intesa tanto in rapporto alle proporzioni fra la reazione e la violenza contro la quale si reagisce, quanto in rapporto alla possibilità di altrimenti evitarla. La proporzione tra la violenza e la reazione non deve essere intesa in un senso solo materiale, ma bisogna aver riguardo anche ai mezzi, dei quali può disporre l’agente al momento dell’aggressione, alla possibilità per lui di far fronte all’imminente pericolo di agire diversamente, ed allo stato dell’animo suo. Quanto alla inevitabilità del pericolo occorre che questo sia tale da non potersi evitare con la preghiera, con le acclamazioni o con la fuga. L’obbligo però di fuggire non può affermarsi per chi abbia la consegna di restare al suo posto o che non lo possa fare senza perdere gravemente il proprio decoro. Nella valutazione di tutto ciò occorre attendere al turbamento d’animo prodotto nell’aggredito dal timore della violenza o del pericolo. Questi elementi costitutivi del moderame, oltre che nel diritto naturale, sono più o meno tenuti presenti anche nel diritto positivo. Anche i codici penali sogliono considerare la difesa legittima come circostanza che esclude il reato (alcuni codici però la prendono in considerazione solo per alcuni reati). ...