sillabariodelcristianesimo

Prevedo alcune obiezioni. Bella poesia, - esclamerà qualcuno, - degna d’una ingenua fede e del sogno infinito dei mistici! Ma è cosa che non fa per noi. Noi non siamo trappisti né carmelitane; siamo gente d’affari, uomini di mondo, persone di casa: siamo falegnami, banchieri, ingegneri, impiegate, maestre, operaie; chi mai potrebbe concepire uno di noi tramutato in un tale... “telefonista”? Quando io sento osservazioni simili, scrollo la testa. Invitandovi a divenire “telefonisti”, vi ho forse detto di lasciare le vostre famiglie, le vostre professioni, le industrie? Ma no, per carità! Tutto ciò che riguarda il campo e la materia della vostra attività esteriore, può continuare; solo bisognerà evitare il male; ad esempio, il banchiere non dovrà più rubare, l’impiegata dovrà meglio attendere al suo dovere e così via. Nulla di straordinario, adunque. Non si tratta di incappucciarsi col saio d’un frate o di ricoprirsi col velo monacale. Per nulla, affatto! Si tratta di dare un senso cristiano alla vostra vita. Il pensare di quando in quando, con una giaculatoria, al Signore; l’offrirgli le azioni della nostra giornata; il pregare in chiesa in un modo degno di questa parola, sono proprio cose impossibili, da lasciarsi alle anime mistiche o dedite alla contemplazione? Non avete forse anche voi un’anima da salvare? Non andate forse talvolta in chiesa per implorare grazie? Non dite forse di credere a Dio? E se vi credete, come mai potete rifiutarvi di rivolgervi a Lui e di diventare un buon “telefonista”? La mamma di famiglia continui a curare la sua casa; l’ingegnere prosegua nelle sue costruzioni; ognuno compia gli obblighi del proprio stato; ma tutti, nessuno escluso, possono e debbono finirla con una vita cristiana solo di nome, nauseante agli occhi di Dio ed allo sguardo della stessa nostra coscienza. Si dirà: - Ma io non so pregare! Non ho mai pregato davvero in vita mia! Ho frequentato le chiese ed i Sacramenti; ma non so come parlare al Signore... Ed io rispondo: - Non mi meraviglio di questo; ricorrete al “telefono” e saprete pregare all’istante. Mi spiego. Per “telefonare a Dio”, non occorrono formole speciali, né lunghe orazioni. Ricordiamo il buon vecchietto, (un fior d’analfabeta, povero contadino!), del quale leggiamo un affascinante episodio nella vita del santo Curato d’Ars. Il povero uomo se ne stava lunghe ore in chiesa, immobile, dinnanzi al Tabernacolo; ed un giorno il santo suo Curato gli chiese: «Cosa fate durante tutto questo tempo? Quali orazioni recitate? Cosa dite al Signore?». Ed il vecchietto, sorpreso: «Nulla dico. Nessuna orazione. Io guardo Lui; e Lui guarda me». - Quale ottimo “telefonista”! Se lo imitassimo tutti!... Se tutte le anime buone di quando in quando ne seguissero l’esempio! «Io guardo Lui; Lui guarda me»; c’è un metodo più facile per “telefonare”? Del resto, nelle pagine seguenti, a coloro che si rifiutassero di entrare nella “sezione telefonisti” col pretesto dei loro affari, delle loro imprese e simili cose, sarà data una risposta esauriente; ed anch’essi si convinceranno. Per ora, vorrei piuttosto preoccuparmi un istante delle persone di fede, che avranno esultato ed applaudito la proposta del “telefono”, ma che non vorrei cadessero nella trappola di alcuni errori o nel laccio di certi preconcetti. Innanzi tutto, il buon “telefonista” detesta i colli torti, gli eredi del fariseismo, che per pregare hanno il vezzo o il vizio di dar nell’occhio degli altri per suscitare ammirazione e plauso, o che fanno la faccia oscura, che abbassano gli occhi a terra, che si mascherano di compunzione con un muso tale, che pare vogliano mettere in fuga tutti i gatti del vicinato. Chi vive unito a Dio, ha in sé la fonte della letizia; ed anche nel dolore è rassegnato e comprende come san Paolo ripetesse: «Sovrabbondo di gioia in mezzo a tutte le tribolazioni». Se non siamo contenti noi, che abbiamo nel cuore Iddio, chi mai sarà contento su questa terra? Nessuno, poi, deve accorgersi del nostro “telefono”. Stiamo ridendo, scherzando, chiacchierando; è il momento più propizio per mandare una “telefonata” rapidissima al nostro Gesù. Le labbra non debbono muoversi; deve vibrare solo il cuore. È questo che Egli vuole! E non lamentatevi, anime buone, perché anche voi non sapete pregare, oppure perché avete dei periodi di aridità. Li ha sofferti, e terribili, anche santa Teresa del Bambino Gesù; ma - da squisita “telefonista” - paragonava la sua aridità all’oscurità di un tunnel, sotto il quale il Signore voleva che il treno della sua vita passasse; anche dalle tenebre fitte, però, ella mandava il suo saluto al Sole; sospirando l’ora di contemplarlo. Ancora: non lo si ripeterà mai abbastanza: chi impara a “telefonare”, impara a far bene tutte le sue pratiche di pietà. Ad esempio: la Comunione del mattino assume un altro aspetto. Le “telefonate” del giorno precedente e del mattino stesso sono il miglior preparamento alla Comunione; ed il lavoro, offerto a Dio, ne diviene poi lo splendido inno di grazie. La Comunione è il momento in cui, dopo tante “chiamate telefoniche”, Gesù viene in un’anima e si unisce intimamente e sacramentalmente con lei; è il momento in cui Egli parla e benedice. Non v’è più in questo caso un distacco fra la Comunione ed il resto della giornata; tutto è armonicamente connesso ed è per tale motivo che torna facile comunicarsi bene, e spesso, con fervore. Così si dica della Confessione: se siamo abbonati assidui del “telefono”, il dolore dei nostri peccati non sarà ardua impresa. Basta pensare a Lui, ai Suoi castighi, al Suo Cuore, alla Sua Passione, al Suo Cielo, al Suo Amore, e tutto è fatto. Né esistono eccessive difficoltà per abituarsi a telefonare. In poco tempo l’arte si apprende; superati, poi, i primi scogli, i progressi sono rapidissimi. Parlate a Dio, come parlereste ad un amico, ad un padre, ad un benefattore. Non si esigono frasi studiate, vocaboli ricercati; parlate con tutta la semplicità e la spontaneità dell’amore filiale. Mi ricordo che, in un Collegio delle Suore Marcelline a Milano, predicavo gli Esercizi Spirituali alle fanciulle che si preparavano al primo bacio di Gesù Eucaristico. Le vedo ancora dinnanzi a me quelle piccole, pendenti dal mio labbro, tutte piene d’attesa del gran giorno della loro prima Comunione. Ed io, proprio all’inizio degli Esercizi, dissi loro: «Figliuole, stasera voi andrete alle vostre case e verrà l’ora del riposo. Siete capaci di ricordarvi d’una cosa? Fate un bel nodo sul nasino, sapete...; altrimenti son certo che vi dimenticate. Dunque, quando sarete nel vostro piccolo letto ed avrete recitate le preghiere della sera, rivolgetevi al vostro Angelo, che sempre vi sta accanto, e ditegli così: - Senti, caro Angelo bello, fammi un favore. Vola un istante alla chiesina del Collegio, ove a giorni farò la prima Comunione. Va’ là; accostati al Tabernacolo del mio Gesù; portagli il mio bacio ed il mio saluto. - Vi ricorderete, figliuole?». Tutti i visini commossi mi rispondevano di sì; ed attraverso gli occhi innocenti pareva che brillasse qualche raggio di luce del loro Angelo. Ed io proseguivo: «Pensate, figliuole, quale scena meravigliosa avverrà allora questa notte in questa Cappella. Tutto sarà silenzio e tenebre. Nessuno sarà qui. Solo sarà presente Gesù, il quale penserà e guarderà a voi, alle vostre case, al vostro piccolo cuore. Dinnanzi a Lui, la lampada... La vedete la lampada, con la fiammella tremula che parla a Gesù, anche quando noi tacciamo e siamo immersi nel sonno?... E verranno i vostri Angeli... Entreranno ad uno ad uno... Si accosteranno al Tabernacolo; porteranno a Gesù il vostro bacio, il vostro saluto, il vostro pensiero... E Gesù sarà tanto contento!... Vi ricorderete, figliole?». «Sì, sì», esclamarono con gli occhi imperlati di lacrime, lacrime dolci e pure, che il divino Amico dei fanciulli avrà raccolto, come le raccoglieva un dì sotto il cielo della sua Palestina... Mantennero la parola. Ad ogni predica, io rammentavo loro la promessa e l’Angelo; e m’accorgevo dalla espressione stessa del loro viso e dello sguardo, che l’appello non era rivolto invano. Anche quelle piccole non erano eccellenti “telefoniste”?

Io non saprei concepire una vita senza preghiera: uno svegliarsi al mattino senza incontrare il sorriso di Dio, un reclinare la sera il capo, ma non sul petto di Cristo. Queste espressioni di Contardo Ferrini riassumono il programma d’una giornata cristiana. Appena nella pace dell’aurora si aprono gli occhi, subito bisogna inviare un saluto al Dio del Tabernacolo. Michele Montaigne racconta che suo padre, quando egli era piccolo, lo faceva svegliare al suono di una arpa, perché l’animo fosse ripieno d’armonia, ed armoniosamente passasse tutta la giornata. Anche noi, se al mattino mandiamo, al primo destarci, un pensiero al Cuore che racchiude melodie del cielo, avremo bene orientato la navicella della nostra attività giornaliera. A somiglianza dell’oratore greco, che, sulla piazza di Atene, prima di aprire le labbra, si faceva dare da un artista la nota musicale, per parlare ai suoi concittadini con voce bella e graziosa, noi dal divino Artista chiediamo nel sorriso dell’alba la nota che ci accompagnerà durante le ore della giornata. Chi acquista la dolce consuetudine di inaugurare il suo mattino con un pensiero al Signore, comprende la squisita poesia dei monasteri di Palestina al tempo di san Girolamo, quando lo studioso di Betlemme aveva abituato le vergini a salutare il risveglio mattutino col grido dell’Alleluja (lode al Signore!). Del resto, anche oggi, il dolce suono delle campane squillanti dell’Ave Maria, non ci invita forse a scuotere il nostro torpore ed a volare nei cieli di Dio? E subito, a questa prima “telefonata”, un’altra ne segue: l’offerta delle azioni giornaliere al Cuore di Cristo Gesù, secondo il metodo santo, oggi così diffuso e praticato, per merito di quella provvida associazione che è «l’Apostolato della preghiera». Non è di san Giovanni Crisostomo il paragone delle azioni nostre con le lettere? Osservava l’eloquente Padre della Chiesa: se voi scrivete una lettera e non vi ponete l’indirizzo, è impossibile che essa venga recapitata a destinazione. E soggiungeva: anche ognuno dei nostri atti che compiremo durante il giorno, è simile ad una lettera; poniamoci, dunque, preventivamente l’indirizzo: «a Dio»; offriamoli, cioè, a Lui; ed allora man mano che noi scriveremo le lettere nostre, l’Angelo buono che ci accompagna le porterà a Gesù e gli sussurrerà: «Sono destinate a Te». Santa Gertrude, la grande mistica benedettina del secolo XIII, mi suggerisce un pensiero ancor più bello. Ella considerava il Cuore di Gesù come un turibolo, pieno di carboni ardenti; ed in esso s’immaginava di gettare le proprie azioni, quasi fossero un granello di incenso, destinato ad esser trasformato divinamente in una nube di preghiera, accetta al Padre. «Nel turibolo d’oro del nostro divin Cuore - diceva - dove arde a gloria nostra il soave profumo dell’eterno amore, io lancio il mio cuore, come un minuscolo grano d’incenso, desiderando con tutto l’ardore della mia anima, che, quantunque vile ed indegno, il soffio dello Spirito Santo lo accenda della sua vita». Non è forse questo il mezzo sicuro per conservare per l’eternità la nostra operosità caduca, che sembra inesorabilmente rapita dall’onda veloce del tempo? Il bravo “telefonista”, mentre si veste, pensa al Tabernacolo e recitando le orazioni del mattino, - non importa se brevi, - le pronuncia tenendosi in unione con Gesù. Povere orazioni, quelle brontolate, in fretta, alla sciamannata, e ridotte non solo ai minimi termini - e magari ad un gesto che vorrebbe essere, nell’intenzione dell’autore, un segno di Croce, - ma non accompagnate nemmeno da un palpito del cuore! Chi non sa telefonare, purtroppo agisce così con Dio, ossia lo tratta nel modo più sconveniente ed indecoroso che si possa pensare. Siamo sinceri: non v’è un uomo a questo mondo verso il quale voi usiate così pochi riguardi come fate con Dio! Se non altro, quando parlate con una persona, state attenti a quel che dite. Soltanto con Dio le regole della buona educazione si aboliscono! Il vero cristiano, invece, va in strada; passa per una piazza; e, cammin facendo, senza che nessuno se n’accorga, manda una “telefonata” al Tabernacolo lontano. Vi meravigliate di questo? Eppure, se sapeste quante anime giovanili oggi pregano per le vie d’Italia! (era l’anno 1940, ndR). Attraversano le nostre città, le nostre borgate od i villaggi; sono a volte abbigliate con decoro, a volte sono vestite poveramente; sono operai, studenti, professionisti, impiegate o signorine, contadinelle o mamme di famiglia. Voi non l’avete mai sospettato, perché nulla all’esterno vi tradisce ciò che mormora il loro cuore. Sotto il cielo della nostra Italia, tanto spesso profanato dalla volgarità della bestemmia, s’innalza tacita e gentile la voce dei cuori cristiani. Provatevi e constaterete come è facile e bello, fra il rumore assordante e la febbre dei traffici, fra il grido degli strilloni e la minaccia dei veicoli, inviare dalla strada al Gesù delle nostre chiese un saluto, anche un semplice saluto. Si entra in chiesa e talvolta si lascia la testa... fuori di essa. Io non voglio perdere tempo nel fotografare il contegno di molti nella casa di Dio. Certe Messe, la cui assistenza consiste nello star là impalati accanto ad una colonna, sospirando il momento della benedizione finale, passando in rivista tutte le persone presenti nel tempio, magari con un giudizio critico e comparativo delle loro diverse toilettes, non sono forse le Messe domenicali di moltissimi cosiddetti buoni cristiani, praticanti, esatti nei loro doveri religiosi? All’opposto, chi ha appreso l’arte “del telefono”, appena varcata la soglia interna del tempio, lancia uno sguardo al Tabernacolo. Là sono già arrivati tanti saluti, tante occhiate espressive dell’anima, tanti fremiti! Egli prende l’acqua santa e, come nota Ernesto Hello, a somiglianza del profeta Davide, esclama: «Signore, la mia anima si rivolge a Te, come una terra senz’acqua». Non è forse bella la stilla di rugiada, che nel mese di maggio cade su un filo d’erba e risplende, indorata dal sole? Anche la goccia dell’acqua benedetta, con la quale ci segniamo entrando in Chiesa, brilla sulla fronte nostra, se noi la illuminiamo con la luce di Dio. Simbolo della rugiada di celesti favori, segno della purificazione interiore che si opera in noi se il dolore delle colpe veniali lo accompagna, il nostro gesto di croce non è più un puro atto materiale, ma si traduce in una “telefonata”, o, meglio, nel principio d’una “telefonata”, che continua durante il tempo in cui restiamo in chiesa, durante la Messa o la Visita o la funzione liturgica a cui partecipiamo. Perché parecchi si lamentano che in chiesa non sanno pregare? La ragione è semplicissima: non sono “telefonisti” fuori di chiesa. Chi, fuori del tempio, sa “telefonare” a Cristo Gesù, quando si trova accanto all’altare non ha più gravi difficoltà da superare per discorrere col Re e con l’Amico del suo cuore, che si immola al Padre, e se ne sta dietro ai bianchi veli di un’Ostia ed alla porticina di un Ciborio (Tabernacolo, ndR). Il tempo che si trascorre in chiesa è limitato: bisogna, poi, attendere alle proprie occupazioni, ai propri doveri, al lavoro. Ed il “filo telefonico” sempre ci accompagna e sempre dobbiamo trarne vantaggio. San Bernardo ha enunciato la dottrina che ogni lavoro nostro dev’essere una preghiera: ed il superficialismo spalanca tanto di occhi e chiede: «Dobbiamo forse sempre pregare?» Rispondiamo: certo; non è forse scritto nel Vangelo: «È necessario pregare sempre?». Ma, dunque, dovremo stare tutto il giorno in ginocchio? Anche nelle officine? E nei campi? E nelle Banche? Ed il Parlamento?... Ah, no, buona gente! Ci mancherebbe altro! «Non colui che dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli; ma chi fa la volontà del Padre», chi compie cristianamente il suo dovere, - ci avverte Gesù . La mamma di famiglia che stesse dinnanzi agli altari assorta in preghiera durante numerose Messe e lasciasse a casa i suoi figliuoli incustoditi, non avrebbe l’approvazione di Dio. Ed allora?... Allora col “telefono” tutto è risolto. Il cristiano, in grazia, che lavora, ha un’attività - come vedremo in seguito - santificata, divinizzata; se, poi, egli all’inizio della sua fatica e di quando in quando rivolge un pensiero al Signore, offrendogli tutto ciò che egli compie, perché la sua attività la esplica secondo il volere di Dio, non vi accorgete che in questo caso il lavoro stesso assume una fisionomia nuova e si tramuta in una preghiera? Non sapete che la stessa “telefonata” mattutina, l’efficacia cioè di quella retta intenzione iniziale, se non è ritratta, influisce su tutta la giornata e santifica ogni azione? Mida, il figlio di Gordio, antico re dei Frigi nella Tracia, aveva ottenuto dal “dio” di convertire in oro tutto ciò che toccasse: il “telefonista” cristiano, che vuol moltiplicare i suoi meriti ed acquistarne sempre di nuovi e di maggiori, ha la possibilità di trasformare in oro ogni sua azione, ogni stilla di sudore, ogni sacrificio, ogni sforzo, ogni dolore. Se nell’ambiente, ove si trova, echeggia un’imprecazione od una bestemmia, egli oppone silenziosamente una “telefonata riparatrice”. Se commette uno sbaglio, cerca di ripararlo ed offre le stesse sue deficienze involontarie all’Unico che sa compatire. Se deve prendere il treno e mira i fili del telegrafo tesi lungo la strada ferrata, si rammenta che Lorenzo Perosi sui quei fili immaginava di porre le note musicali del suo genio d’artista; ed egli pone altre note, le note d’amore per il suo Dio. Ogni campanile che scorge, ogni chiesa che vede, è un invito a “telefonare”. Assidendosi a tavola, non dimentica la parola già ricordata di san Paolo ed anche in quest’occasione ricorda il suo Signore ed imita santa Teresa del Bambino Gesù, che in refettorio immaginava di essere seduta e di mangiare in mezzo alla Sacra Famiglia di Nazareth. Insomma, sempre si ricorda di Dio. Parla, ride, si diverte, tiene una conversazione, ma in pari tempo telefona. Se la belva della passione ruggisce nel suo petto, egli sa come chiamare in aiuto l’Alleato che non tradisce. E quando, infine, alla sera si reca al riposo, vola al Dio che ha allietato la sua giornata operosa e lo prega così: «Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dei tuoi occhi; proteggimi sotto l’ombra delle tue ali». Anche dal suo letto egli grida attraverso il suo “filo telefonico”: «Visita, o Signore, questa casa; allontana da essa tutte le insidie del Nemico; i tuoi Angeli buoni, che la abitano, custodiscano me ed i miei cari nella pace; e sopra di noi aleggi sempre la Tua benedizione».

Alcuni anni or sono, un poeta non ancora credente, Giovanni Bertacchi, cantava Il Telefono con questi versi, che paiono un anelito ed un lamento: «Parla un uomo al telefono: qualcuno ch’io non odo né veggo a lui risponde. Prega un uomo all’altar: parla con Uno che per me tace, che per me si asconde. Oh se basta a varcar tanta distanza un tenue filo a chi pur resta immoto; se il tenue filo d’una pia speranza basta pei cuori a valicar l’ignoto, date a me pure il fil che si dilunga oltre il giorno dell’uomo e la sua sede... datemi il tenue tramite che giunga al Lontano che parla e non si vede». Anche le persone, alle quali prima accennavo, sentirono questa dolce necessità. La loro vita religiosa si svolgeva languida ed insulsa. Il loro Cristianesimo consisteva nel biascicare qualche preghiera distratta, nel recarsi talvolta ad epoche fisse e per moto d’inerzia alla chiesa, alla Messa, ai Sacramenti, nel meccanismo esteriore di qualche pia pratica o nella ripetizione pappagallesca di qualche formula. La fede non era l’anima della loro anima, non pervadeva neppure gli stessi atti di religione. Era come una foglia morta alla superficie delle acque di un lago, mossa qua e là dal vento delle circostanze e dell’ambiente. E la foglia minacciava di diventare sempre più inutile, in attesa di scomparire del tutto: il lago della propria vita non ne avrebbe risentito influsso alcuno e con la massima indifferenza avrebbe continuato ad essere solcato da barche e da battelli, vale a dire da tutta l’abituale attività quotidiana. Un giorno una tale apparente religiosità esteriore divenne insopportabile anche per loro. Un corso di istruzione cristiana, che potrebbe essere quello raccolto in questi capitoli, aprì loro gli occhi. Compresero cosa significa la grazia, cosa vuol dire essere figli adottivi di Dio; impararono a recitare il Padre nostro, che dapprima non avevano mai capito quantunque fossero arciconvinti di capirlo; e fu allora che essi provarono ad utilizzare una specie di “filo telefonico” tra la loro coscienza ed il Tabernacolo, tra il loro piccolo cuore ed il Cuore di Gesù. Quando siamo in grazia, quando il peccato mortale non deturpa la bellezza dell’anima nostra redenta dal Sangue di Cristo, noi siamo congiunti col nostro Dio ed ogni opera che non sia peccato, già a Lui virtualmente si riferisce. La grazia santificante è simile ad un filo divino, che ci collega con Lui e che solo può esser spezzato dalla colpa grave. Tuttavia, se basta questo candido filo posseduto dai bambini battezzati, che non possono peccare; se basta in noi ed in loro per essere figli di Dio, noi però, che abbiamo anche l’uso della ragione e possiamo col nostro volere rompere questo filo di vita spirituale, dobbiamo non solo conservare la grazia, ma trafficare altresì un così grande tesoro, operando cristianamente e pregando. Come non basta avere un’intelligenza ed una volontà, ma l’intelligenza dev’essere sviluppata ed alla volontà occorre una ginnastica energica, cosi pure la nostra unione con Dio, ottenuta mediante la grazia, deve conoscere non già il silenzio delle tombe, ma il fervore dell’azione e la parola del cuore riconoscente a Colui che è la stessa vita. Cominciarono, in tal modo, a... “telefonare”. Per ogni atto libero che compivano, per ogni dolore che accadeva, per ogni avvenimento che capitava, era un saluto al Cuore del loro Dio, ed al Dio del loro cuore, per dirla con santa Margherita Maria. Il comando dato da san Paolo nella lettera ai fedeli di Corinto: «Sia che voi mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto a gloria di Dio»; questo comando, ripetuto dall’Apostolo nell’altra lettera ai cristiani di Colossi: «Qualunque cosa facciate in parole od in opere, fate tutto in nome del Signore Gesù, rendendo azioni di grazie, per mezzo suo, a Dio Padre», non fu più per loro lettera morta. Uniti a Gesù Cristo per la grazia, furono uniti a Lui per una vita interiore intensa con la preghiera che zampillava dalle profondità della coscienza che rischiarava d’un sole nuovo ogni loro atto, che abbelliva e santificava l’attività stessa materiale, il lavoro, la sofferenza, i mille incidenti di una giornata. Non bisogna credere che, dopo una tale risurrezione spirituale, la loro vita fosse esteriormente mutata in modo sensibile. No, no. Eccettuate le colpe, continuarono a vivere come prima: identiche le fatiche, identici gli svaghi, identiche le persone con cui avevano a trattare, identico insomma tutto ciò che appare al di fuori. Ma interiormente quale diversità radicale! Se dobbiamo esser sinceri, dobbiamo confessare che provarono la sensazione d’essere divenuti un’altra persona, tanta fu la giocondità della nuova vita religiosa. Ma, prima di descrivere quest’ultima, descriviamo praticamente in che modo tali persone fanno funzionare il loro “telefono”. Nulla, più di questo, varrà a dare un’idea, pallida sì, ma efficace, a chi non fosse ancora... “telefonista”, del cambiamento profondo, operato da simile metodo, che, del resto, nulla ha in sé di nuovo, né di difficile. I Santi furono Santi, perché furono ottimi... “telefonisti”; anche se ai loro tempi il Meucci non aveva ancora scoperto il modo di “telefonare” ad un uomo, essi sapevano telefonare in una maniera meravigliosa a Dio. E che cosa ebbero di speciale, di essenziale, di caratteristico i veri mistici - queste coscienze elette dell’umanità, il cui culto risorge ai giorni nostri dopo un’epoca di materialismo e di grossolanità, - se non un’unione con Dio così intensa, che non solo essi parlavano al loro Signore, ma il Signore parlava talvolta direttamente a loro, o almeno indirettamente faceva sentire la sua voce al loro cuore? Guai se non si diventa, almeno inizialmente, “telefonisti”! Non si capisce nulla neppure dei primi principi del Cristianesimo!

Una schiera di anime generose e vibranti, che si dedicano all’apostolato cristiano ed all’azione cattolica, per risolvere in un modo consolante il problema della preghiera e per aumentare sempre più il merito delle loro opere buone, sono divenute ammiratrici del... telefono. Qualcuno riderà di questo strano avvicinamento di idee: il telefono e la preghiera. Il telefono, in qualche città almeno, rappresenta quell’apparecchio terribile, inventato per la disperazione del genere umano, che renderebbe idrofobo anche l’individuo più calmo del mondo. È verissimo; ed intorno a ciò regna un consenso universale indiscutibile. Ma il nostro “telefono” è ben diverso ed opera miracoli. Dal giorno nel quale si diventa “telefonisti”, comincia un’epoca nuova nella vita; quest’ultima subisce una specie di benefica “rivoluzione”; tutto il nostro essere resta trasformato; sembra quasi che un soffio vivificatore, dapprima sconosciuto, ci agiti e ci allieti. Tutti coloro che ne hanno fatto l’esperienza, tutti - dico - senza eccezione di sorta - sono concordi in tale constatazione e soggiungono che solo allora, per la prima volta, hanno compreso con chiarezza cosa significa la religione. Si racconta che un dì due studenti, avviati verso l’Università di Salamanca, si fermarono stanchi ad una fontana, per dissetarsi e per riposare; e su una pietra vicina lessero queste parole: «Qui è sepolta l’anima di Pietro Garcias». Come mai - esclamò uno dei giovani - si può seppellire un’anima sotto una pietra? Sghignazzò e proseguì la sua strada. L’altro compagno, rimasto incuriosito dalla strana iscrizione, rimosse la pietra, scavò e scoprì un tesoro. Anche voi, se non sarete superficiali e mediterete attentamente questo capitolo sul... “telefono”, troverete un tesoro, che forse oggi vi manca e che vi renderà spiritualmente più ricchi. Permettetemi, quindi, di narrarvi con tutta semplicità l’esperienza religiosa di queste anime, i loro propositi e le speranze.

Nelle pagine dei suoi Colloqui, Giosuè Borsi ricorda un piccolo aneddoto. «Fu durante l’eclisse del 1842. Un povero fanciullo del comune di Sièyes (Basses-Alpes) guardava il suo gregge. Ignorando del tutto l’avvenimento che si preparava, vide con inquietudine oscurarsi a gradi il sole, mentre nessuna nuvola, nessun vapore gli dava la spiegazione del fatto. Quando la luce ad un tratto disparve del tutto, il povero figliuolo, al colmo dello spavento, si mise a piangere ed a chiamare aiuto. Le sue lacrime scorrevano ancora, quando il sole dette il suo primo raggio. Rassicurato a questa vista, il ragazzo giunse le mani, gridando nel suo dialetto meridionale: «o beou souleoul (o bel sole!)». Borsi, ripensando all’eclisse della fede, che gli aveva oscurato la giovinezza, ed al sole di Gesù, che gliel’aveva di nuovo illuminata, commentava con una semplice e sublime parola l’aneddoto grazioso: «O Gesù, o bel sole!». Moltissimi cristiani, più sfortunati ancora del pastorello di Sièyes, vivono nelle tenebre. Il sole del soprannaturale è ignoto al loro cuore. I dogmi non significano nulla per essi. Ai Sacramenti si accostano di raro. Ed anche quando, in qualche rara confessione ben fatta, riacquistano la vita della grazia, sono simili a ciechi; pur nella festa gioiosa d’una serena giornata primaverile, essi non scorgono la luce, che inonda la loro anima; non hanno coscienza della loro divinizzazione. Gran cosa la coscienza, la consapevolezza, la visione chiara di ciò che si è e che si deve fare! Un padre, una madre, un maestro che hanno coscienza della loro missione, agiscono ben diversamente da chi non ha mai avuto tale stato d’animo. Combatte con ben diverso valore, in qualsiasi battaglia, colui che ha la convinzione della bontà d’una causa e colui che è spinto per forza ad un combattimento, di cui non comprende il significato. E nessuno può confondere la pretesa religiosità di chi si appaga d’una vita esteriore e di qualche pratica meccanicamente compiuta, con la fede di chi tutto contempla al raggio della religione cristiana. Dopo d’aver descritto, sia pur pallidamente, cos’è l’ordine soprannaturale e la grazia, dobbiamo quindi ora conquistare la coscienza, la consapevolezza di un simile sole; in altre parole, dobbiamo vedere come risolve il problema della sua vita, come organizza la sua esistenza il credente, che sa di essere figlio di Dio. Il figlio di un re viene educato con questo criterio: «Ricordati ed agisci in ogni momento, in modo conforme alla tua dignità»; noi, figli di Dio, non possiamo sottrarci ad un simile dovere. Quando l’eclisse della ignoranza religiosa termina, quando risplende il sole della Verità, noi necessariamente, consci della nostra grandezza divina, dobbiamo esclamare ad ogni istante, con la fede e con le opere: «O Gesù, o bel sole! ». La fede ci fa credere le verità rivelate da Dio, non per l’intrinseca loro evidenza, ma per l’autorità di Dio rivelante, che non può ingannare, né esser ingannato. Le opere ci fanno vivere secondo gli insegnamenti della fede. Noi non dobbiamo vivere dimentichi di Dio; ma la preghiera deve unirci a Gesù ed al Padre; la natura ci deve apparire sotto la luce nuova di Cristo Signore; la vita dev’essere da Lui ispirata; il dolore dev’essere cristianamente sofferto. Ecco i punti che cercheremo di svolgere: 1. - Quale metodo dobbiamo seguire per rendere sempre più intensa la nostra unione soprannaturale con Dio? 2. - Con quale occhio - se l’eclisse è finita e se Dio risplende su noi con la grazia - deve guardare la natura e le cose, chi ha coscienza della sua elevazione soprannaturale? 3. - Con quale sguardo deve il figlio di Dio considerare la vita, le sue vicende, e, di conseguenza, con quale spirito deve organizzare la sua attività di ogni ora, di ogni momento? 4. - Come deve sopportare i suoi dolori un cristiano? Sono fili - la preghiera, la natura, la vita ed il dolore, - che debbono congiungere il nostro cuore col Cuore di Cristo nel Tabernacolo. Anche attraverso questi “fili telefonici”, passerà il nostro grido di saluto: «O Gesù, o bel sole!».

Per comprendere in che modo la Chiesa unisce i suoi figli a Dio, occorre dare uno sguardo fugace alla liturgia, ai Sacramenti, alla Messa, alla Comunione ed alla Gerarchia. La liturgia non è da confondersi: a) Con la bellezza estetica del culto; b) Col complesso delle cerimonie; c) Con l’erudizione storica intorno al culto. Essa è la preghiera collettiva della Chiesa, mediante la quale la Chiesa tutta - animata dallo Spirito Santo ed insieme con Gesù, suo Capo - si volge al Padre. È assurdo, quindi, capire, la liturgia e riviverla, prescindendo dal soprannaturale e dal dogma. I Sacramenti sono i canali della grazia soprannaturale e si definiscono: i segni sensibili, che non solo significano, ma anche producono la grazia, non come cause principali di essa, ma come strumenti scelti e voluti da Gesù Cristo. Nel soggetto e nei ministri dei Sacramenti occorrono alcune condizioni, che però non sono mai la vera causa della grazia. L’Eucaristia è stata istituita da Gesù Cristo: a) Perché fosse il Sacrificio della nuova legge, che rinnova e ricorda il Sacrificio della Croce e ce ne applica i frutti; b) Perché partecipando al Sacrificio, noi ricevessimo nella Comunione la Vittima divina, Gesù, veramente, realmente e sostanzialmente presente nell’Ostia consacrata, per essere nostro nutrimento soprannaturale. Con la Messa Gesù ci unisce a Dio; con la Comunione Egli si unisce a noi e, quando abbiamo le dovute disposizioni, accresce la grazia nelle anime nostre. Per conservare, diffondere e propagare la verità della Rivelazione, per diffondere la grazia e per reggere la società santa di fedeli, Gesù Cristo volle nella Chiesa la Gerarchia, la cui istituzione ha perciò una finalità d’indole soprannaturale. Il (legittimo, ndR) Pontefice ha il primato su tutti i Vescovi ed i fedeli, è il Pastore supremo dei credenti ed è infallibile (Per approfondimenti rimandiamo al nostro «Comunicato numero 36. L’infallibilità della Chiesa e del Romano Pontefice», 27 novembre 2016, ndR), quando, come maestro di tutti i cristiani, definisce cose di fede e di morale. I Vescovi sono i successori degli Apostoli, Dottori della verità cristiana, Padri del sacerdozio e dei fedeli, Giudici delle anime a loro affidate. I Sacerdoti sono i ministri di Dio, che consacrano il pane ed il vino, ci assolvono dai peccati, ci predicano la dottrina di Cristo. Chi guarda la Chiesa, da qualsiasi punto di vista, vede come il soprannaturale è la chiave che apre tutti i segreti della sua vita, è la spiegazione di tutta la sua attività.

La Chiesa è il regno di Dio e per mezzo di essa noi dobbiamo partecipare ai beni soprannaturali. Era evidente che non tutti i poteri santificatori si potevano concentrare in uno solo, dato il numero dei fedeli. Perciò «lo Spirito Santo pose i Vescovi a reggere la Chiesa di Dio». Il campo d’azione soprannaturale di questi Pastori delle diverse diocesi è - a differenza di quello del Papa - limitato; ed inoltre essi sono subordinati al Pontefice Sommo, il quale, benché non possa sopprimere l’Episcopato, può, però, rimuovere un Vescovo. Il Vescovo è un successore degli Apostoli ed a lui, quindi, Gesù ripete la Sua parola: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me». Il Vescovo è il Dottore e il Maestro della verità cristiana; è il Padre del sacerdozio che ordina i nuovi ministri del Signore; è il Padre dei fedeli, che perfeziona con la Cresima; è il Giudice delle anime a lui affidate. Intorno al proprio Vescovo si stringono i veri cristiani, come intorno a Cristo stesso. Non la sua persona, ma la persona di Cristo dobbiamo venerare nel Vescovo, come nell’ambasciatore vediamo non l’individuo, ma la nazione rappresentata. Per questo, pieghiamo il ginocchio dinnanzi al Vescovo, come lo piegheremmo dinnanzi a Cristo. Ricordo che nelle feste giubilari in onore del Cardinal Ferrari, celebrate poco tempo prima della sua morte, la Gioventù Cattolica Femminile Milanese aveva ricoperto di fiori freschi la tomba di san Carlo, sulla quale il Porporato offrì il Sacrificio santo. Ed il Vescovo di Cremona, Mons. Cazzani, in quella occasione, in un suo discorso, commentava l’atto gentile a questo modo: tutti i fedeli, e specialmente la gioventù, devono circondare il proprio Pastore coi fiori dell’affetto, della preghiera, dell’animo pronto e volonteroso. Felice il Vescovo che può raccogliere sull’Altare, dove egli celebra, i cuori delle sue pecorelle e offrirli a Dio, insieme col Cuore di Cristo, santificati e soprannaturalmente formati!

• Siccome il Vescovo non può attendere personalmente a tutti i bisogni del suo gregge, è aiutato dai Sacerdoti, che egli delega alla grande missione. Chi guarda il Sacerdote non con l’occhio della natura, ma con uno sguardo soprannaturale, non può fare a meno di salutare in lui il ministro di Dio, che ha rinunciato alla famiglia, per dedicarsi alla famiglia delle anime, come strumento della loro divinizzazione. Il Sacerdote consacra il pane ed il vino; e nelle sue mani Cristo s’incarna, per vivere fra noi sacramentalmente. Il Sacerdote ci assolve dai nostri peccati e dona Dio e la grazia alle anime, che col battesimo sono state introdotte nel regno del soprannaturale e che egli cura ed assiste sino al letto di morte, per consegnarle al Signore. Il Sacerdote predica e Gesù si incarna nella parola sacerdotale (...) e scende nelle nostre menti. È possibile, dunque, definire il Sacerdote, prescindendo dall’ordine soprannaturale, dalla grazia, da Gesù Cristo? Anime buone, che leggete queste pagine, se voi non siete Sacerdoti, difficilmente capirete cos’è un Sacerdote ed il palpito del suo cuore riconoscente verso Gesù, che lo ha eletto a tanta grandezza! Io non ho mai inteso questo così intensamente, (afferma Mons. Olgiati) ,come nel mattino in cui, ricevendo l’ordine del Suddiaconato, ho consacrato per sempre la mia vita al Signore. Ho impressa ancora nell’animo la memoria di quel giorno, quando nella pace serena dell’alba, con una folta schiera di altri giovani leviti, uscii dal Seminario per recarmi al Duomo, al grande Duomo di Milano. La città dormiva ancora; rari i passanti; e solo parevano salutarci festosi i primi raggi del sole di maggio, che baciavano il popolo di statue e le cento e cento guglie, ergentisi sulla basilica e quasi tendenti «l’ali, nel (desiderio) dei cieli». La cerimonia s’iniziò con tutto lo splendore e la magnificenza del culto. A noi giovani, bianco-vestiti, il Vescovo solennemente dava l’avviso: «Adhuc liberi estis; siete liberi ancora. Scegliete, decidete». E quella parola, in quel tempo (si era nel 1907), significava pressappoco così: «Non sapete, o giovani, che in una nazione vicina si è scatenata la persecuzione religiosa? Ignorate che Cristo è conculcato dovunque e che domani v’attende il disprezzo, forse la morte?». Il mondo, i primi rumori della vita febbrile che fuori del tempio si facevano sentire, sembravano soggiungere: «Giovani, che avete il sorriso dei vostri vent’anni, che fate? Perché rinunciare alla vita, alle vostre primavere fiorenti? Se volete coronarvi di rose, adhuc liberi estis, siete liberi ancora...». Ma quelle voci non trovavano eco nel nostro cuore giovanile. Un’altra voce echeggiava, unica, dominatrice, fascinatrice: «O candidi figli dell’ideale, avanti, avanti! Invocate l’aiuto di Dio!». Ci prostrammo allora faccia a terra; e, flebile come un lamento, s’alzò il canto delle litanie: «Kyrie eleison! Christe eleison! Signore, abbi pietà di noi! Cristo Gesù, abbi pietà di noi! Sancta Maria, ora pro eis! O Vergine Maria, prega per loro!». S’alzava la supplica ardente fra le lacrime nostre più tenere, più pure, più belle, - fra il pianto delle nostre mamme, che tanto avevano pregato e sofferto, e vedevano benedetto il sogno e la speranza... Il canto si diffondeva per le ampie navate; saliva su su, sino agli archi slanciati, sino alla cupola ardita, sino a Dio, per poi ricadere sui bianchi leviti commossi, come un augurio dolce di gioia celeste. Pochi momenti dopo, il campanone del Duomo diceva a Milano ridesta che un nuovo stuolo di giovani aveva giurato fedeltà al Re dei vergini. La voce del campanone si perdette certo fra l’indifferenza; ma chi l’avesse raccolta, avrebbe inteso tutta la poesia e la grandezza del sacerdozio, verso il quale, in quel mattino, noi procedevamo col cuore in festa.

Il Papa è il Vicario di Cristo. Cristo è presente nella Sua Chiesa, è il Capo di essa, ma è invisibile. Egli, quindi, ha voluto scegliere Pietro ed i suoi successori, che facessero quaggiù le Sue veci. A Pietro soltanto Egli ha detto: «Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. Ed io darò a te le chiavi del regno dei cieli. Tutto ciò che avrai legato sopra la terra, sarà legato nei cieli; e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra, sarà sciolto nei cieli». La Chiesa è l’edificio, Pietro ne è il fondamento ed è colui che ne ha le chiavi, ossia è il capo supremo. Egli ha il primato sopra gli altri Apostoli, - e sopra, quindi, tutti i Vescovi del mondo, i quali sono i successori degli Apostoli, - come appare anche dalle altre parole di Cristo: «Simone, Simone, ecco Satana ha richiesto di vagliarvi, come si vaglia il grano. Ma io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede; e tu, quando un giorno sarai convertito, conferma i tuoi fratelli». Dopo la conversione, indefettibile è la fede di Pietro, che riceve l’ufficio di confermare gli altri nella fede e con ciò stesso l’ufficio di Superiore, di Maestro, di Capo. Se, poi, si rammenta che Cristo, poco prima dell’ascensione, disse a Pietro: «Pasci i miei agnelli (ossia i miei fedeli tutti, ndR); pasci le mie pecorelle (ossia gli Apostoli ed i loro successori, ndR)», non si può dubitare che lo abbia costituito Pastore supremo di tutto l’ovile, ossia di tutta la Chiesa, di tutti i credenti, nessuno escluso. Ed anche riguardo all’infallibilità del Papa, Gesù Cristo non poteva essere più esplicito. L’infallibilità - che l’ignoranza religiosa talvolta confonde persino con l’impeccabilità del Pontefice - consiste in ciò: che quando il Papa parla ex cathedra - ossia come Pastore di tutta la Chiesa universale - di cose di fede o di morale, dichiarando di definire la verità contenuta nella Scrittura e nella Tradizione, non può errare [«Per questo i Padri del Concilio Vaticano nulla hanno decretato di nuovo, ma solo ebbero presente l’istituzione divina, l’antica e costante dottrina della Chiesa e la stessa natura della fede, quando decretarono: “Per fede divina e cattolica si deve credere tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o tramandata, e viene proposto dalla Chiesa o con solenne definizione o con ordinario e universale magistero come verità da Dio rivelata” (Sess. III, cap. 3)», Papa Leone XIII, Satis Cognitum, ndR]. Orbene, ragiona egregiamente Monsignor Bonomelli: secondo l’insegnamento stesso di Gesù, «la Chiesa è fondata su Pietro, ossia sul Pontefice, in modo che la salvezza di lei dipende dalla saldezza del Pontefice; se il Pontefice potesse farsi maestro di errore, non pietra di fondamento, ma pietra di inciampo e di rovina, (ciò non) si potrebbe dire. Inoltre: Gesù Cristo dice che le potenze d’inferno non prevarranno giammai contro la Chiesa. E perché? Perché la Chiesa è fondata sopra Pietro, sopra il Pontefice; dunque la continua vittoria della Chiesa dipende dalla vittoria del Pontefice: ora se il Pontefice potesse insegnare l’errore, lungi dal dare alla Chiesa la vittoria, la condurrebbe alla sconfitta». Ancora. «Gesù Cristo dà al Pontefice le chiavi della Chiesa e dichiara ch’Egli ratificherà in cielo ciò che il Pontefice avrà giudicato sulla terra; non appone condizioni di sorta; la promessa è assoluta e amplissima; ma certamente Gesù Cristo non può ratificare che la sola verità; dunque l’insegnamento, la sentenza del Pontefice deve essere scevra d’errore, come scevra di errore è la sanzione di Gesù Cristo. - Non basta: Gesù Cristo dichiara d’aver pregato, affinché la fede di Pietro, e per conseguenza del Papa, non venga meno giammai; ora la preghiera di Gesù non doveva cadere invano, e le parole di lui mostrano che ottenne ciò che aveva domandato; dunque la fede del Papa può essere, deve essere posta alla prova, ma non può venir meno. - Ed è sì certo che la fede del Papa non può venir meno, che Gesù Cristo gli comanda di confermare in essa i fratelli, ossia i Vescovi, affinché confermati da lui possano sostenere la lotta contro Satana. Dunque la saldezza dei Vescovi nella fede deriva dalla fede del Pontefice: ora se il Pontefice potesse errare nella fede, come e in che cosa potrebbe confermare i Vescovi, la Chiesa universale? Sarebbe stata cosa ridicola in Gesù Cristo imporre a Pietro di confermare la Chiesa nella fede, s’egli stesso, Pietro, aveva bisogno d’essere confermato; cosa più ridicola ancora obbligare tutta la Chiesa a lasciarsi confermare nella fede da quel Pietro, che, potendo errare, la poteva confermare nell’errore. - Oltre di che, Gesù Cristo conferisce al Pontefice l’ufficio di pascere e reggere tutta la Chiesa, tutti gli agnelli e le agnelle del suo ovile, e quindi obbliga tutta la Chiesa, agnelli ed agnelle, a ricevere la sua parola e le sue leggi. Ora poniamo che il Pontefice possa condurre in errore l’ovile di Gesù Cristo; che ne avverrebbe? Ne avverrebbe che tutta la Chiesa sarebbe posta nell’alternativa assurda, o di disubbidire al Pontefice, contro la volontà espressa di Gesù Cristo; ovvero di seguire il Pontefice, anche nell’errore. Ciò è impossibile a concepirsi: dunque bisogna concedere che il (legittimo, ndR) Pontefice sia infallibile, perché sia ragionevole da una parte il diritto del Pontefice d’imporre la cosa da credere, e dall’altra ragionevole l’assenso dei fedeli». In breve: il Papa è il rappresentante di Gesù Cristo, e, in quanto tale, ha il primato su tutti e l’infallibilità. Egli è «il dolce Cristo in terra», come lo definiva santa Caterina da Siena. Nel Pontefice bianco è presente Gesù che parla, come nell’Eucaristia è presente Gesù che tace, - secondo la bella espressione di san Francesco di Sales. L’amore, l’ossequio, l’obbedienza, la devozione filiale, l’entusiasmo verso il Papa è per noi credenti una stessa cosa con l’amore, l’ossequio, l’obbedienza verso Gesù Cristo. Alcuni anni or sono, P. Mathéo Crawley veniva ammesso alla presenza del Santo Padre e ne riceveva parole di benedizione, di conforto, di augurio nel suo giubileo sacerdotale; ed egli ringraziò il Pontefice, dicendogli che gli era tanto grato per la sua bontà, perché il sorriso del Papa era per lui eguale ad un sorriso di Gesù. - Così debbono parlare, pensare ed agire i veri cristiani.

Sarebbe un errore madornale porre da un lato tutto quanto abbiamo detto intorno alla nostra divinizzazione, alla grazia ed all’autore di essa, Cristo Gesù; e dall’altro, senza connessione alcuna, la gerarchia cattolica. Anche qui l’unità dell’organismo brilla nella varietà degli uffici e delle mansioni, collegate - come mezzi allo scopo - al fine ultimo, che è la santificazione delle anime e la loro unione soprannaturale con Dio. Gesù aveva fondato la Sua Chiesa e noi - come vedemmo - non possiamo avere salute se non in questo Corpo mistico, che si sviluppa nei secoli. Data tale Sua volontà, Gesù Cristo doveva provvedere: a) A conservare ed a propagare la Sua verità rivelata, - la buona novella della nostra divinizzazione mediante i suoi meriti, - per preservarla dagli errori e dai pericoli dell’ignoranza; b) A diffondere la Sua grazia santificatrice, unico mezzo di salvezza stabilito dall’amore di Dio; c) A reggere questa società santa dei fedeli, che, come ogni organismo sociale, ha bisogno di un’autorità visibile e di una direzione. Perciò, dall’ordine soprannaturale alla gerarchia, il passo è logico; e tutti gli insegnamenti della dottrina cristiana, a proposito del Papa, del Primato di Pietro, dell’infallibilità pontificia, dei Vescovi e del Sacerdozio cattolico, dei loro uffici e della loro missione, non sono se non conseguenze della concezione fondamentale, dove nulla v’è di superfluo o di disarmonico.

Non è necessario esser credenti, per ammirare la magnifica organizzazione della Chiesa cattolica, col suo Papa, centro supremo a cui convergono i cuori del mondo, - coi suoi Vescovi, sparsi in ogni canto della terra, uniti in un forte organismo, - con la schiera candida dei suoi Sacerdoti (Correva l’anno 1944, ndR). Basta volare per un istante a Roma, alla cupola del massimo tempio della cristianità, lanciata dal genio di Michelangelo verso la volta azzurra del cielo, e di là guardare attorno, in ogni direzione, per sentire la divina bellezza di questa unità della Chiesa, che, come nel succedersi dei tempi vede i suoi Pontefici ed i suoi ministri trasmettersi la fiaccola accesa da Cristo, così nella distesa dello spazio domina ogni popolo ed ogni anima. (Un certo autore) provava un fremito di entusiasmo, a simile riflessione, e scriveva: «Questo vicario di Dio, questo supremo Pontefice della Chiesa cattolica, questo Padre dei popoli e dei re, questo successore di Pietro il pescatore, vive; tiene alta fra gli uomini la sua fronte ricinta di triplice corona, su cui grava il sacro peso dei secoli. Alla sua Corte risiedono gli ambasciatori delle nazioni; a tutti gli uomini egli invia i suoi ministri, e perfino in quei luoghi che ancor oggi quasi non hanno nome. Allorché, dall’alto del suo palazzo, volge intorno lo sguardo, il suo occhio discopre il più splendido orizzonte dell’universo; egli mira il suolo calpestato dai Romani, vede la città da loro edificata colle spoglie dell’intero mondo, divenuta centro di tutte le cose nelle loro due forme primarie, lo spirito e la materia; la città dove tutti i popoli misero piede, tutte le glorie sono convenute, tutte le colte immaginazioni hanno fatto - sia pur da lungi - almeno un pellegrinaggio; mira la tomba degli Apostoli e dei martiri, l’unione augusta di tutte le memorie: Roma!». Non invano l’obelisco della Piazza san Pietro porta le parole: «Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat»: l’unione dei Sacerdoti e dei Vescovi col Papa forma una delle prove e delle note più squillanti di tale vittoria di Cristo. Con animo diverso, però, molti mirano questa scena sublime. L’esteta gode ed ammira; un imperatore, come Giuseppe II, vi scorge un ottimo instrumentum regni da sfruttare; l’anticlericale delle nostre bettole vi paventa l’esercito dell’oscurantismo e la «prole negra della barbarie e del mistero»; noi, sulle tracce del Catechismo, esamineremo il fatto grandioso in rapporto al soprannaturale, cogliendo così il pensiero del Fondatore.

Nei sacrifici dell’antichità non v’era solo l’offerta e la distruzione della vittima; v’era anche la partecipazione al sacrificio stesso, ossia la Comunione. Nella distruzione l’uomo si volgeva a Dio; nella Comunione Dio si volgeva all’uomo, in quanto questi, mangiando parte della vittima, divenuta santa e sacra, si appropriava in qualche modo la virtù divina. Anche nel Sacrificio per eccellenza, la Santa Messa, la partecipazione o comunione è l’atto ultimo, che chiude l’azione sacrificale. E siccome la vittima è l’Uomo-Dio, così noi riceviamo nel nostro cuore Gesù Cristo, che si è immolato sul Calvario ed ogni giorno si immola sui nostri altari. L’insegnamento di Gesù non poteva esser più chiaro. Nel discorso della promessa e nell’istituzione della Eucaristia, Egli ha usato parole, che sono d’una limpidità perfetta. E il dogma, quando ci obbliga a credere che dopo la consacrazione il pane non è più pane, il vino non è più vino, ma che la sostanza del pane e del vino in virtù delle parole si è mutata nella sostanza del Corpo e del Sangue di Cristo; quando ci dice che per concomitanza sotto le specie del pane e sotto le specie del vino è presente veramente, realmente e sostanzialmente Gesù Cristo non solo col suo Corpo o col suo Sangue, ma anche con la sua Anima e con la Divinità, non fa altro se non tradurre le espressioni del divino Istitutore dell’Eucaristia. La teologia studia il dato della rivelazione e, discutendo i vari generi di presenza, ci fa notare come io posso esser presente in un luogo localmente, a modo dei corpi naturali; posso esser presente col mio pensiero in diversi luoghi; il mio pensiero stesso, espresso in parole e stampato, può esser riprodotto in mille esemplari ed esser presente in mille volumi, pur restando un solo pensiero. E la teologia soggiunge come Gesù Cristo non è presente sotto le specie del pane e del vino in nessuno di questi modi, ma in un modo misterioso, il modo sacramentale, che può esser paragonato al modo di presenza della sostanza. Come, infatti, la sostanza è tutta in tutto un corpo e tutta in ciascuna parte, così tutto Gesù Cristo è presente in un’Ostia intera, in tutte e singole le Ostie consacrate ed è presente in tutte le parti dell’Ostia, pur restando un unico Gesù. Ma noi non vogliamo in questo Sillabario del Cristianesimo discutere tali problemi; ci basta notare che anche al Sacrificio della Messa - ossia all’unione dell’uomo con Dio - è connessa la Comunione - ossia l’unione di Dio con l’uomo. Dio ha voluto venire nell’anima nostra, appunto per divinizzarla sempre più, per conservare in essa la vita della grazia soprannaturale, per accrescerla, per riparare le colpe veniali ed i difetti che la offuscano, per riempirci di ogni benedizione celeste e di gioia. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed Io in lui», ha detto Gesù Cristo. Con la Comunione non siamo più noi che viviamo, è Gesù Cristo che vive in noi. Egli ci trasforma in sé e mai come allora siamo uniti al nostro Dio. Un fascio di luce viene proiettato su questo mistero d’infinito amore, se noi lo riguardiamo al raggio dei principi esposti a proposito dell’ordine soprannaturale. La nostra divinizzazione per mezzo di Cristo ci spiega perché il Redentore nostro, non contento di essersi sacrificato per noi, ha voluto diventare il nostro nutrimento. La preziosità della Messa e della Comunione; l’importanza della propaganda per la frequenza alla prima ed alla seconda, anzi per la Messa e la Comunione quotidiane; la convenienza di comunicarci - quando ragioni di utilità o di necessità non consigliano altrimenti - non prima o dopo, ma durante la Messa, insieme col Sacerdote, sono tutte cose che ormai debbono brillare d’intuitiva evidenza. In una sua poesia, un poeta indiano, il Tagore, descrive il mendicante, che racconta la sua fortunata avventura: «Sono andato a mendicare di porta in porta, lungo le strade del villaggio, quando il tuo cocchio dorato apparve in lontananza come un fastoso sogno, e io con meraviglia mi domandavo: - Chi sarà mai questo Re di tutti i re? - Le mie speranze salirono alte, e pensai che i miei lieti giorni sarebbero giunti finalmente, e mi fermai aspettando l’elemosina che è data senza esser richiesta e le ricchezze che vengono sparse ovunque nella polvere. Il cocchio si fermò davanti a me. Il tuo sguardo cadde su di me e tu con sorriso scendesti. Io sentivo che la fortuna della mia vita era finalmente arrivata. Allora, improvvisamente tu stendesti la destra e dicesti: - Che cosa hai da darmi? - Ah, quale scherno fu questo d’aprire la tua mano a un mendico, per mendicare! - Io ero confuso e stavo indeciso; poi dalla bisaccia tirai fuori lentamente il più piccolo chicco di frumento e te lo diedi. Ma come fu grande la mia sorpresa, quando, alla sera di quel giorno, vuotai il sacco sul pavimento e scorsi dentro al povero mucchio un piccolissimo granello d’oro. Amaramente piansi, ed avrei allora desiderato d’aver avuto il cuore di darti tutto il mio avere». Anche il nostro Re dei re, Cristo Signore, è venuto a noi, poveri mendicanti, ci ha steso la mano ed ha preso il nostro chicco di frumento. Ma Egli non si è accontentato di trasformarlo in un granello d’oro, ma l’ha mutato in sé, per offrire se stesso al Padre e per offrirsi a noi, perché fra Dio e l’uomo non vi fosse separazione, ma un’unione santa ed ineffabile.

Ogni popolo, ogni religione ha avuto i suoi sacrifici. Ed il sacrificio, se se ne cerca la natura, ci si presenta, in primo luogo, come offerta e distruzione della vittima. Con questo l’uomo riconosce la sua sudditanza verso Dio ed il suo nulla di fronte alla perfezione infinita del Creatore. L’atto della distruzione è un vero gesto d’adorazione, a cui si aggiungono gli altri significati, il ringraziamento, cioè, alla divinità per i benefici ricevuti, la supplica per ottenere favori e protezione, la propiziazione che invoca pietà per i peccati commessi. Tutti i sacrifici dell’antica Legge erano figure del grande sacrificio dell’Uomo-Dio sulla Croce: come dice san Paolo, «Gesù Cristo ha offerto se stesso a Dio per noi come un’oblazione e come vittima di soave fragranza», compiendo così l’atto più sublime e rendendo al Padre l’omaggio più perfetto. Il sacrificio del Calvario bastava completamente, essendo di valore infinito. Ma Gesù ha voluto istituire la Santa Messa, per i seguenti motivi: a) per rinnovare il suo Sacrificio, offrendo se stesso in ogni Messa al Padre ed immolandosi in un modo incruento sui nostri altari. La doppia consacrazione del pane e del vino, compiuta con due atti separati, significa la mistica immolazione del Salvatore, cosicché la Messa è un vero e proprio Sacrificio; ed ogni volta che si celebra una Messa, è Gesù Cristo che si sacrifica. Il Sacerdote non è che il ministro, ed è per questo che egli non dice: «Questo è il Corpo, il Sangue di Gesù Cristo», bensì: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue»; b) per ricordare il Sacrificio del Calvario. Nel Sacramento mirabile - per dirla con la Chiesa - Dio ci ha lasciato la memoria della sua passione. Ed ogni volta che noi assistiamo ad una Messa, dobbiamo rivivere in noi il dramma divino del Golgota; c) per applicare ai fedeli i frutti dell’immolazione cruenta sulla Croce. Cosicché fra l’Altare ed il Calvario esiste un nesso essenziale. «Il sacrificio che si compie nella Messa - rileva lucidamente il Catechismo romano - e quello che fu offerto sulla Croce non sono e non possono essere che un solo e medesimo sacrificio», quantunque, a differenza della Messa, sul Calvario Gesù Cristo si sia sacrificato con la reale effusione del suo Sangue. E se noi vogliamo attingere alle fonti della grazia, dobbiamo partecipare alla Santa Messa, con la quale ci è dato di offrire a Dio un omaggio di valore infinito, un’adorazione perfetta, un inno di ringraziamento degno di Lui, una riparazione adeguata delle colpe nostre, una supplica d’immensa efficacia.

Nella notte in cui veniva tradito, Gesù prese il pane ed il vino, li benedisse e li distribuì ai suoi Apostoli, dicendo: «Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo... Prendete e bevete, questo è il mio Sangue... Fate questo in memoria di me». L’Eucaristia era istituita. Fino alla fine dei secoli Gesù Sacramentato sarebbe rimasto con noi sui nostri altari. Un apostolo del movimento liturgico in Italia, [...] nell’introduzione al suo Messale festivo per i fedeli (che vorremmo vedere nelle mani di tutti coloro che assistono, specie alla domenica, alla Santa Messa), osserva giustamente che quella cena «diventò nell’antichità il prototipo […]. Gli Apostoli, ad esempio di Gesù, si riunirono tosto per la preghiera e per la frazione del pane, il che passò nelle generazioni cristiane come cosa indispensabile per il culto da rendersi a Dio e per la vita stessa della Chiesa. La Santa Messa fu così considerata giustamente come l’atto principale e più importante della religione, a cui tutti si tenevano in dovere di partecipare. L’Eucaristia fu e rimane quel sole divino, intorno al quale si muovono e si sviluppano tutte le anime redente dal sangue di Gesù, che vogliono conseguire l’eredità della salute eterna». Da quella notte l’Ostia ed il Calice della salute in ogni canto della terra furono e sono innalzati al Cielo; da quel momento - come Gesù disse un dì a santa Matilde - un’ape non si è mai gettata nel calice dei fiori per succhiarvi il miele, con avidità maggiore del Cuore divino nello slanciarsi verso le anime desiose di riceverlo. Al Tabernacolo vola il pensiero di tutte le coscienze cristiane. Intorno all’altare si stringe il popolo credente, per offrire con la Chiesa e col Sacerdote il Sacrificio a Dio. L’Ostia di Gesù spiega tutto, dalle Catacombe agli eroismi dei Martiri, dalle Basiliche grandiose alle abnegazioni sublimi dell’apostolato, dalla Verginità che prega o che lavora ai casti Ministri dell’Agnello che si pasce fra i gigli. I fanciulli si accostano al loro Gesù, vestito di bianco, e ne ricevono nella tenera età innocente il primo bacio; uomini e donne accorrono al Pane disceso dal cielo, e ne implorano aiuto; paesi e città lo portano in trionfo; in ogni istante s’eleva da milioni e milioni di cuori il saluto al Maestro buono: «Sia lodato e ringraziato ogni momento - il santissimo e divinissimo Sacramento». Non alcune pagine, ma neppure una vita intera, e tutta l’eloquenza umana basterebbero a parlare degnamente del mistero eucaristico. Noi daremo soltanto una rapida occhiata al Sacrificio della Messa ed alla Santa Comunione.

Se, ora, dopo l’esposizione fatta, volessimo ricordare le obiezioni e la pratica disastrosa di molti a proposito di Sacramenti, avremmo da inorridire per le tristi conseguenze della ignoranza religiosa. Noi abbiamo mostrato come i Sacramenti sono mezzi per la nostra divinizzazione e, di conseguenza, quanto più frequentemente e quanto più devotamente li riceviamo, altrettanto più si aumenta in noi la grazia. Alcuni, invece, chiedono: «Perché dobbiamo accostarci ai Sacramenti? Non possiamo forse pregar Dio per conto nostro ed essere galantuomini anche senza di essi e persone leali ed oneste?». Non domandiamoci se proprio sempre chi sragiona a questo modo è un vero galantuomo (se si dimostra ipocrita, ndR); constatiamo solo il fatto che si ignora completamente ciò che è la grazia, il soprannaturale, la divinizzazione alla quale Dio ci vuole innalzati, ed il nesso essenziale fra questa ed i Sacramenti. Se si conoscessero almeno i primi principi del Sillabario del Cristianesimo, si saprebbe che tutta l’onestà naturale non può da sola produrre in noi neppure il minimo grado di grazia: tutto l’inchiostro del mondo non creerà mai da solo il più piccolo dei pensieri.

Si dirà: ma per ottenere questa grazia, significata e prodotta dai Sacramenti, non occorrono forse alcune condizioni nel soggetto che riceve il Sacramento e nel ministro che lo conferisce? Senza dubbio; ma bisogna fare una distinzione. Non si deve cioè confondere la condizione con la causa. Portiamo un esempio. Ho una camera chiusa ed oscura. È giorno. Fuori di là brilla fulgido il sole; dentro non v’è che tenebre. Io pratico allora nell’imposta un forellino e subito penetra un raggio vivido di luce. Tutti, in questo caso, mi ammetteranno che il forellino è la condizione necessaria perché entri il sole; ma nessuno, a meno di esser pazzo, mi sosterrà che il forellino è la causa della luce! Con miliardi di forellini, se non esistesse il sole, non illuminerei la stanza! Applichiamo il paragone al Sole di Dio, che, mediante i Sacramenti, entra nelle oscurità della nostra povera natura umana, per ravvivarla con la luce della divinizzazione soprannaturale. Il soggetto ed il ministro sono simili a quel forellino; essi possono impedire la venuta nell’anima del sole della grazia; per riceverla e per darla, debbono avere certe condizioni; ma non sono essi la causa della luce; non vi sarebbe proporzione tra il loro atto umano e l’effetto soprannaturale. Il soggetto deve avere le dovute disposizioni, - disposizioni diverse, secondo che si tratta dei Sacramenti dei vivi o dei Sacramenti dei morti. Così, ad esempio, chi si accosta alla Comunione, deve essere in grazia di Dio e, se avesse commesso un peccato mortale, non basta che faccia un atto di contrizione o di dolore perfetto, ma deve premettere la confessione (essendoci ovviamente il confessore, ndR). Ancora: se, per citare un’ipotesi tutt’altro che strana, qualcuno va a confessarsi senza il dolore dei suoi peccati, ossia con la volontà di continuare nel peccato e di rimanere nemico di Dio, è impossibile che ottenga il perdono e la grazia, in quanto pone un ostacolo. E così pure, alla diversità di disposizioni in chi si accosta alla Comunione, risponde una diversità nella grazia conferita. Quanto, poi, al (valido, ndR) ministro, egli deve avere l’intenzione di conferire un Sacramento, come fa la Chiesa, e non già - ad esempio - di giocare o di imitare per un altro motivo qualsiasi il gesto sacramentale. Tutto ciò è innegabile; ma chi non vede come le disposizioni del soggetto e l’intenzione del ministro sono semplici condizioni e non cause della grazia? (Della validità dei Sacramenti ne abbiamo già parlato brevemente altrove. Sul nostro sito abbiamo pubblicato il Comunicato tratto dal numero 14 di Sursum Corda®, ndR)

Ho visto in un salotto una piccola ed artistica statua di Dante. Il Poeta teneva in mano una penna e, con un gesto espressivo, la intingeva nel suo cuore. Quella statua m’ha fatto riflettere. Essa m’ha spiegato il senso di due principi: a) i Sacramenti significano la grazia; b) i Sacramenti producono la grazia in noi. La penna di Dante, infatti, in quel minuscolo e geniale capolavoro, non era per me una qualsiasi penna: era un segno, poiché mi significava la Divina Commedia. - Ed era anche qualcosa di più. Persino un’etichetta può essere un segno e servire d’indicazione; ma l’etichetta non produce nulla della merce significata. Invece, la penna di Dante è stato uno strumento nelle mani del Poeta o, se si vuol usare un termine filosofico, è stata una causa instrumentale nella stesura delle tre Cantiche. Non è forse ciò che si verifica nei Sacramenti? a) Gesù Cristo ha voluto utilizzare le cose sensibili - come l’acqua, l’olio, il frumento, il vino, la parola, l’imposizione delle mani - per significare la grazia soprannaturale, che Egli dona alle nostre anime. L’acqua, ad es., che nel battesimo è usata per il battezzando, è un simbolo esterno di ciò che accade nell’intimità profonda di una coscienza, la quale viene lavata e detersa dalla colpa d’origine ed è resa bella e pura dalla grazia. b) Questi segni, però, non solo simboleggiano la grazia, ma anche la producono; e come la santa Umanità di Cristo divenne lo strumento usato dalla Divinità per spargere attorno la vera vita, così i Sacramenti sono segni sensibili, dei quali Gesù Cristo si serve, come di mezzi o strumenti, per conferire la grazia. Con ciò non dobbiamo credere che un atto materiale ed umano sia la causa principale di un effetto soprannaturale, come è la grazia. No; solo Dio è causa efficiente, e solo Gesù Cristo è la causa meritoria della grazia. I Sacramenti sono, invece, cause instrumentali, come lo scalpello in rapporto alla statua e come la penna in rapporto all’idea che viene espressa sulla carta. In altre parole: i Sacramenti non eccitano soltanto alla fede - come vogliono i Protestanti; ma hanno una vera efficacia in ordine alla grazia soprannaturale. Indipendentemente dal valore e dal merito personale di chi lo amministra, l’atto sacramentale ci dà la grazia - ossia, come si esprime il Concilio di Trento, la conferisce ex opere operato, non ex opere operantis, - in virtù dell’atto, non dell’agente.

Un celebre artista […] sente nel suo animo una splendida melodia, che lo rapisce, lo affascina, lo fa beato. Egli afferra un foglio di carta, lo ricopre di segni, di chiavi, di do, di re, di la. Quelle note esprimono la musica del suo cuore. Se un contadino analfabeta, che non conosce altra armonia se non l’abbaiare dei suoi cani o il nitrito dei suoi cavalli, prende in mano il foglio prezioso, non capisce nulla: volta e rivolta la carta, contempla i segni “cabalistici” e li getta via. Voi, invece, vi fermate riverenti e commossi. Quelle note scritte vi significano un canto ineffabile e ve lo producono nel vostro animo. Mediante quei segni, l’artista comunica a voi la sua intima vita, la sua gioia intensa, l’inebriante bellezza della sua creazione geniale. Ecco cosa sono i Sacramenti. In essi voi trovate una materia, come l’acqua nel Battesimo ed il Crisma nella Cresima; avete anche delle parole, ossia una forma: «io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» e via dicendo. Tutto questo non è se non un segno. Se non avete mai saputo cos’è il soprannaturale, se non avete mai appreso cos’è la grazia, se la divina melodia del divino Artista - Gesù Cristo - è da voi trascurata, quei segni vi sembreranno cabalistici, misteriosi, quasi direi ciarlataneschi. Ahimè! Forse vi illudete di ragionare come un uomo superiore, pensando: «Che giova far ungere d’olio la fronte di un morente?» (per poi ascoltare casomai l’oroscopo, ndR) - ed, al contrario, non siete purtroppo se non un contadino analfabeta; la vostra mente ignorante è negata alla musica del soprannaturale. La divinizzazione nostra, la comunicazione dell’intima vita di Cristo a noi, era conveniente che fosse a noi manifesta con qualcosa di tangibile e di esteriore. Nello stesso ordine di natura, noi andiamo dal materiale allo spirituale, e quando scorgiamo una bandiera, non vi vediamo soltanto un pezzo di stoffa, ma […] pensiamo alla patria che quella bandiera rappresenta; tanto più così doveva avvenire quando si trattava di ascendere ad una realtà soprannaturale. Non deve essere, adunque, più un enigma insolubile per noi la definizione del Catechismo, che ci dice: «I Sacramenti sono i segni sensibili della grazia, istituiti da Gesù Cristo, per santificare le anime nostre».

Molti, quando discorrono dei Sacramenti, si fermano di preferenza sopra il fatto che essi sono sette. Ciò è tutt’altro che inutile, come è utile contare quante sono le parole di un telegramma. Ma, come in un telegramma di sette parole è necessario risalire all’unico pensiero che quei vocaboli esprimono, così occorre tener presente che tutti i Sacramenti significano e producono la nostra divinizzazione, mediante la grazia. Il Battesimo ci fa nascere alla vita della grazia, ci rende figli di Dio ed eredi del cielo, ci incorpora alla Chiesa. La Confermazione fortifica in noi la vita soprannaturale e ci fa soldati di Cristo. E siccome si nasce e si arriva alla virilità una sola volta, perciò questi due Sacramenti - come pure l’Ordine - non si ripetono. L’Eucaristia nutre l’anima nostra, è il nostro cibo, e con Essa Gesù Cristo ci pasce e ci trasforma in Lui, divinizzandoci sempre più. La Penitenza rimedia alla perdita della grazia o al suo illanguidimento, purificandoci dal peccato. L’Estrema Unzione con la grazia ci prepara nel passaggio all’eternità e ci conforta nelle angosce e nelle battaglie della malattia, impetrandoci anche talvolta la guarigione; essa è un rimedio soprannaturale nelle ore più gravi della nostra vita. Questi sono i Sacramenti che riguardano l’individuo e che fanno crescere o aumentano la vita divina in ciascuno di noi. Ma poiché l’uomo è anche membro della società, Gesù Cristo ha istituito il Sacramento del Matrimonio per santificare ed elevare soprannaturalmente la famiglia, ed il Sacramento dell’Ordine per provvedere al comune bene spirituale ed alla dispensa della grazia. Non soffermiamoci ad esporre come tre Sacramenti - il Battesimo, la Confermazione e l’Ordine - imprimano nell’anima il carattere indelebile di figli, di soldati, di ministri di Dio; né come i sette Sacramenti istituiti da Gesù Cristo, si dividano in Sacramenti dei vivi ed in Sacramenti dei morti, secondo che hanno per scopo di infonderci la prima grazia, ovvero di aumentarla. Non è questo lo scopo del presente lavoro. Noi ci proponiamo, piuttosto, di mostrare il nesso tra il soprannaturale ed i Sacramenti, - nesso così essenziale, che, chi volesse prescindere dall’ordine soprannaturale, deformerebbe o non comprenderebbe la stessa nozione di Sacramento.

Commentando il passo dell’Evangelista san Giovanni, dove si narra del soldato romano che con una lancia trafisse il costato di Gesù morto in croce, il pensatore di Ippona immagina di salire su un alto monte, alla ricerca di una pura e fresca sorgente. Sul monte Calvario, dalla fonte del Cuore di Cristo, scaturisce l’acqua santificatrice «senza la quale non si può aver accesso alla vita». Sono i Sacramenti, che ci conferiscono la grazia, applicandoci i frutti della Passione: «chi beve di quest’acqua non avrà più sete», ma avrà la vita eterna. In tutto questo volumetto noi abbiamo fatto squillare una nota soltanto: la nostra divinizzazione. I Sacramenti sono il mezzo col quale possiamo e dobbiamo acquistare (se non l’abbiamo o se l’abbiamo perduta) ed accrescere (se già ne siamo in possesso) la grazia che divinizza la nostra anima.

Ecco perché tutta la liturgia della Messa, fiorita a quei tempi e conservatasi sostanzialmente identica sino ai giorni nostri [L’autore, mons. Olgiati, scrive nel 1944, ben prima della pretesa “riforma liturgica” del 1969, ndR], è un inno alla Trinità, poiché che altro debbono fare i figli adottivi di Dio, uniti con Cristo suo Figlio naturale, se non lodare il Padre in unione allo Spirito Santo? Allora, non era solo il Pontefice, il rappresentante  della gerarchia, che pregava; ma con lui vibravano all’unisono le anime tutte di coloro che assistevano; ed è per questo che le preghiere liturgiche hanno sempre il plurale nelle loro espressioni; non dicono, cioè: «Io ti offro, o Signore», ma «Noi ti offriamo». Come il pane che mangiamo risulta da tanti grani di frumento, uniti insieme a formare una sola sostanza, e come il vino risulta da tanti acini d’uva insieme spremuti per farne uscire una sola bevanda, così i fedeli - avvertiva sant’Agostino - si sentono uniti fra loro e con Cristo, e con Cristo pregano e si immolano. - In una parola, «la pietà del popolo cristiano, e, quindi, le sue azioni e la sua vita, riposavano allora sulle verità fondamentali, che costituiscono l’anima della liturgia: la designazione di tutte le cose alla gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; la mediazione necessaria ed universale di Gesù Cristo; il posto centrale del Santo Sacrificio eucaristico nella vita cristiana; la missione della gerarchia nella nostra unione con Dio; la realizzazione visibile della Comunione dei Santi». Tutti questi dogmi [...] sonnecchiano oggi (anno 1944) in fondo alle anime; il popolo cristiano non li conosce più; e, di conseguenza, la pietà liturgica si è ridotta ad una partecipazione meccanica, passiva, spesso morta e distratta, talvolta galvanizzata dalla lettura di qualche libro, mentre si assiste alla Messa ed alle sacre funzioni. Auguriamoci che il movimento liturgico, così ricco ai giorni nostri di promesse, prosegua nella sua opera di salutare risveglio; e, senza eccessi di esagerazioni pericolose, cominci a scuotere i dormienti, con la diana eccitatrice d’una soda cultura catechistica. Sarà il mezzo migliore per attuare le speranze d’un santo Pontefice, Pio X, quando, discorrendo della liturgia, si attendeva da essa il rifiorire del vero spirito cristiano. [Purtroppo non è andata così: «[...] il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa [...]». Cf. «Breve esame critico al Novus Ordo Missae», Mons. Michel Guérard des Lauriers, presentato dai Cardinali Alfredo Ottaviani ed Antonio Bacci, ndR].

Oggi vigoreggia e si diffonde dovunque un movimento liturgico. Giova conoscere con esattezza la vera natura della liturgia, per dissipare certe idee seducenti, che possono abbagliare col loro falso splendore, ma che disconoscono e rovinano il valore ed il significato della vita liturgica della Chiesa. Cosa non è la liturgia. Tre errori, principalmente, serpeggiano ai giorni nostri a proposito di liturgia e vengono diffusi persino con opere letterarie ed in romanzi rinomati. a) Alcuni confondono la liturgia con la gioia estetica e col senso artistico, che fa sussultare alcuni spiriti colti e fa loro gustare le emozioni squisite, dinanzi ai riti della Chiesa. Ahimè! Purtroppo si può entrare nel tempio con tutta l’erudizione scientifica, col gusto più raffinato per il simbolismo, - con le finestre dell’anima aperte al soffio della bellezza, al fascino dell’arte, ai profumi dell’incenso, - senza penetrare nella sorgente della vita liturgica. Il soprannaturale non lo si coglie con la superficialità, neppure se questa fosse - come nel caso nostro - una superficialità dorata. b) Persino alcuni buoni cattolici scambiano la liturgia col complesso delle cerimonie, che si compiono nell’azione liturgica. Non sanno che il cerimoniale è necessario, come sono indispensabili per un oratore le regole della grammatica e della sintassi; ma che direste voi - domanda un valoroso benedettino, [...]- di un critico letterario, che non cercasse nei discorsi del Bossuet se non l’applicazione dei precetti grammatici e sintattici? c) Ancora: l’origine storica dei riti, la significazione dogmatica e simbolica delle azioni liturgiche, giovano immensamente a rendere intelligibile e feconda la partecipazione ai sacri misteri ed alle funzioni; ma anche questo è la scorza, è la parte esteriore, non è l’anima della liturgia. Cos’è la liturgia. Per cogliere quest’anima, occorre partire dal principio che il cristiano non è un atomo isolato, un individuo separato dal mondo soprannaturale, ma è un membro della Chiesa, ossia del corpo mistico di Cristo. Unito, per mezzo della grazia [se non la ha perduta col peccato grave, ndR], alla Chiesa ed a Gesù, suo capo, egli deve avere la coscienza di tale unione, per vivere della pienezza della vita divina, che pulsa in questo organismo. Ora, tale organismo, ossia la Chiesa, «con la sua vita intima, il suo pensiero, le sue aspirazioni, le sue tradizioni, tutta la sua anima, si è trasfusa nella sua lingua che è la preghiera» e precisamente nella preghiera liturgica. Si noti: v’è una forma di preghiera, la preghiera individuale, che le singole persone fanno, quando si raccolgono in sé, pensando a Dio e meditando; e ben lungi dall’essere superflua, è la condizione indispensabile per giungere all’altra preghiera della liturgia, che è preghiera collettiva, ufficiale, rivestita necessariamente di un elemento esteriore, compiuta da persone autorizzate, ossia dalla gerarchia stabilita da Cristo. Ecco cos’è la preghiera liturgica: per essa, l’uomo non è più lasciato alle sole sue forze naturali nel glorificare Dio, né abbandonato a sé, anche se ha la grazia soprannaturale nel cuore; non è più «una goccia d’acqua presa isolatamente»; ma è unito a Gesù Cristo ed alla Chiesa tutta, partecipa della potenza e della immensità di quest’oceano, e perciò - come scrive lo Chautard - «la sua preghiera si divinizza ed abbraccia tutti i secoli, dalla creazione degli Angeli e dalla loro prima adorazione, sino ai giorni nostri. Essa va da Adamo e dai suoi affettuosi colloqui nel Paradiso terrestre col suo Creatore alle oblazioni di Abele, di Melchisedecco, di Abramo, […] e dalle preghiere e riparazioni di Davide e di tutti i Santi dell’antica Legge fino al Calvario, centro della liturgia, - e fino all’Eucaristia, suo memoriale vivente. Essa comprende tutte le generazioni di anime sante che la Chiesa ha create dal giorno della Pentecoste; anzi... si identifica col Verbo; mediante quella lode divina, che scaturisce incessantemente dal focolare di Amore infinito che è la Santissima Trinità». Così pregavano i primi cristiani. Quando di notte si raccoglievano per assistere al Sacrificio e per ricevere la Comunione, essi si sentivano veramente fratelli in Cristo, ossia uniti nell’organismo della Chiesa insieme con Lui; e con Cristo e con la Chiesa offrivano al Padre l’Ostia ed il Calice.

Dopo di aver descritto a larghi tratti questo divino organismo della Chiesa, dobbiamo cercare di cogliere qualcuno dei suoi fremiti, qualche lato della sua attività soprannaturale, qualche funzione e qualche palpito che ci dia una pallida idea della sua mirabile vitalità. Potremo così comprendere sempre meglio in qual modo la Chiesa, nella quale noi siamo congiunti soprannaturalmente a Gesù, ci unisce a Dio. Questo divino organismo, il cui capo è Cristo, la cui anima è lo Spirito Santo e del quale noi siamo le membra, alza la sua voce al Padre, ha la sua preghiera, che si chiama la Liturgia: e converrà ricercare, innanzitutto, con esattezza il valore ed il significato di essa. Uniti in questo corpo mistico, viviamo e ci sviluppiamo soprannaturalmente, partecipando alla vita di Cristo ed alla Sua grazia. Questa ci viene conferita per molte vie e noi continuamente attingiamo alla pienezza di essa. Ma il mezzo principale, ordinario, sicuro di tale partecipazione alla grazia, sono i Sacramenti. Chi li rifiuta, calpesta il volere di Cristo e non comunica con la Sua vita soprannaturale. Le diverse teorie, inneggianti ad un culto individuale e privato, trascurano il fatto che persino nell’ordine naturale gli uomini dovrebbero rendere un omaggio a Dio anche con atti esteriori, come individui e come società, perché essi dipendono da Dio non solo nell’anima, ma anche nel corpo, e non solo come singoli, ma anche come collettività [Capito perché la pretesa “laicità degli Stati” è un grave errore dottrinale e morale?, ndR]; ed inoltre, dimenticano che ogni attività nostra, quantunque interna e nobile ed elevata, non può da sola innalzarsi alla soprannatura. Ci chiediamo, quindi: cosa sono i Sacramenti? Il più grande dei Sacramenti è senza dubbio l’Eucaristia, il sole della vita cristiana. Gli altri Sacramenti ci danno la grazia; l’Eucaristia ci dà l’autore stesso della grazia, Gesù Cristo; e di essa occorre dire una parola. Tanto più che, se tutti i Sacramenti procurano la nostra unione soprannaturale con Dio, nell’Eucaristia è il Figlio stesso di Dio che col Sacrificio congiunge la sua Chiesa al Padre e con la Comunione si unisce con noi per divinizzare le nostre anime, per nutrirle di Sé con le sue Carni immacolate, per fortificarle col suo Sangue divino. Finalmente, nella Chiesa vi sono coloro che Gesù ha scelto come strumenti attivi della nostra divinizzazione e che, appunto per raggiungere tale finalità soprannaturale, hanno la potestà e il dovere di istruirci, di reggerci e di amministrarci i Sacramenti. È la Gerarchia sacra, è la sacra schiera del Vicario di Cristo, dei Vescovi e dei Sacerdoti, che dobbiamo studiare. Nel contemplare tutta questa vita della Chiesa, non dimentichiamo mai il nostro filo conduttore: l’unione soprannaturale dell’uomo con Dio, che costituisce il programma e spiega ogni e qualsiasi funzione ed attività del grande organismo.

La Chiesa, fondata da Gesù Cristo, è un organismo, nel quale dobbiamo distinguere: a) il Capo, che è Cristo stesso; b) l’anima, che è lo Spirito Santo; c) le membra, che sono i cristiani. Tali membra possono essere: a) membra vive (chi non ha peccati mortali); b) membra morte (chi ha peccati mortali); c) membra separate (eretici, scismatici, etc...). La concezione della Chiesa come organismo ci spiega: a) il dogma della Comunione dei Santi; b) le note della Chiesa (unità, santità, cattolicità, apostolicità); c) la verità che fuori della Chiesa non v’è salvezza. Noi non possiamo essere uniti soprannaturalmente a Dio, se non mediante la nostra unione con Gesù Cristo e con la Chiesa. I figli adottivi, costituenti un unico organismo col Figlio naturale di Dio, loro Capo, sono uniti al Padre per la grazia vivificatrice dello Spirito Santo.

Non debbono essere ora un enigma le note che il Catechismo indica come caratteristiche ed essenziali della vera Chiesa di Cristo. a) La Chiesa dev’essere UNA, ossia deve possedere unità di fede (senza fede, è impossibile piacere a Dio), unità di culto (senza i Sacramenti, è impossibile ricevere la grazia), unità di regime (chi si ribella ai legittimi Pastori, rappresentanti di Cristo, si ribella a Cristo e si stacca poi dalla Chiesa). Né è lecito meravigliarsi, se le sètte protestanti si moltiplicano a dismisura e si dividono e si suddividono all’infinito, perché anche un membro avulso dall’organismo si decompone fatalmente. b) La Chiesa dev’essere SANTA, senza macchia ed immacolata. Santo è il capo (Gesù Cristo); santo è lo Spirito che ne è l’anima; santa è la dottrina; i Sacramenti, poi, diffondono la santità; ed i membri della Chiesa, quando sono membri vivi ed hanno la grazia, sono e vengono chiamati «santi» dalla Scrittura. È forse possibile concepire diversamente le cose, se si tiene conto che tutto l’ordine soprannaturale ha per scopo la nostra santificazione per i meriti di Gesù Cristo e con la grazia dello Spirito Santo? c) La Chiesa è CATTOLICA, ossia universale, non in un senso assoluto (poiché anche Cristo predisse le persecuzioni contro di essa), ma in un senso relativo. Cristo, il dominatore del mondo, ha il suo Corpo mistico, che di fatto in sé raccoglie membra appartenenti a tutte le parti della terra, e di diritto deve radunare l’umanità intera. d) Finalmente, la Chiesa è APOSTOLICA, in quanto dagli Apostoli (che, dopo la pietra angolare del Fondatore divino, ne furono il primo fondamento) ad oggi e per sempre, in una successione ininterrotta, Cristo vive in essa e la governa e la dirige. Non separazione fra la terra e il Cielo, tra gli uomini e Dio; non trincee fra gli uomini, quasi dovessero vivere in un individualismo egoistico; non divisione nello spazio e nel tempo; ma, al contrario, il trionfo dell’unità e dell’amore, secondo la preghiera di Gesù: «Ut unum sint... che tutti siamo una cosa sola, come io e Te, o Padre, siamo uno». Da questo punto centrale è necessario prendere le mosse per delucidare le varie dottrine. La Tradizione non può essere rifiutata, perché altro non è se non una conseguenza di questa concezione della Chiesa, per perpetuantesi nei secoli. La sconfitta dei nemici della Chiesa, il «portae inferi non praevalebunt», l’indefettibilità vengono a risplendere di luce meridiana: chi mai potrà vincere il Cristo, vivente nella sua Chiesa? La potestà di Magistero, di Ministero, di Regime della Chiesa sono conseguenze dirette, sgorganti dai principi posti. Così pure, la Chiesa è infallibile, perché altrimenti bisognerebbe dire che può sbagliare il suo capo Gesù Cristo. E - per volare ad una questione pratica - le meraviglie dell’apostolato cristiano, mediante, ad es., l’eroismo dei nostri missionari, appaiono con la loro vera fisionomia. Soprattutto, dalla semplice ed elementarissima esposizione del Catechismo che stiamo facendo, un effetto pratico non può a meno di conseguire: l’amore a Gesù Cristo mediante l’amore alla Chiesa. Non si può amare il Capo, se si disprezzassero o si colpissero le sue membra. È appunto l’amore a Cristo, che infonde forza, entusiasmo e generosità in tutti coloro che lavorano per la Chiesa, che si sacrificano, […] che pregano e lottano per le sue vittorie. Ben noti sono gli sforzi generosi che da tempo si vanno facendo per poter preparare - sia pure inizialmente - l’unione delle “chiese” separate con la Madre comune. Anche sul letto delle sue ultime agonie, il Card. Désiré Mercier offriva a Lord Halifax il suo anello d’oro, simbolo ed augurio di una futura unità. In tutto il mondo s’alzano preghiere e si compiono sacrifici, per affrettare l’adempimento di ciò che disse il Maestro divino: «Ho altre pecore, che non sono di questo ovile; anche quelle bisogna che io guidi, e daranno ascolto alla mia voce, e si avrà un solo ovile ed un solo pastore».

Il dogma della Comunione dei Santi è un risultato della concezione della Chiesa, che con san Paolo abbiamo descritto. Se la Chiesa è un organismo, ne consegue che le membra subiscono l’influenza le une delle altre, cosicché il bene operato da uno ridonda a vantaggio - non solo suo - ma dell’organismo intero, o meglio, di tutti i membri vivi. Chi appartiene alla Chiesa, gode di questa comunione o partecipazione dei beni spirituali, che in essa vi sono e fioriscono. I meriti infiniti di Gesù Cristo, i meriti preziosi della Vergine e dei Santi, tutte le opere buone compiute dai vari fedeli - Sacramenti ricevuti, preghiere recitate, mortificazioni, atti di virtù, elemosine, sacrifici e via dicendo ... - divengono vantaggio comune a tutti i membri in grazia, viventi cioè della vita soprannaturale. «In tal modo - dice san Paolo - cresciamo in tutto in Colui che è il capo, il Cristo; per mezzo di Lui, tutto il corpo, bene ordinato e unito insieme, con l’aiuto vicendevole delle membra che operano ciascuna secondo la sua misura, cresce e si edifica nella carità». Meravigliosa società, questa, che non tratta gli uomini come atomi separati ed agitati dal vento, ma tutti raduna come fratelli in un’unica famiglia, in un solo organismo, «il cui capo è Cristo», il Quale ci unisce al Padre, mediante la grazia ed il soffio vivificatore dello Spirito Santo. Di qui la necessità di capire la Trinità per spiegare la Chiesa, e di considerare quest’ultima in rapporto all’ordine soprannaturale, alla nostra figliolanza adottiva, alla nostra redenzione, alla nostra unione col Figlio di Dio.

Prima di chiarire quest’ultimo concetto della comunione dei santi, ci sia permessa una osservazione. Come un membro può partecipare alla vita dell’organismo in modo perfetto, può esser colpito da paralisi, od anche può venir tagliato dall’organismo stesso; e come un ramo può esser vivo, o secco, od anche può venir avulso dalla pianta, così, per ciò che riguarda la nostra partecipazione alla Chiesa, noi possiamo considerare questi diversi casi: a) Vi sono le membra vive della Chiesa, unite ad essa mediante il battesimo, la fede ed il vincolo della grazia e della carità; sono membra, nelle quali scorre pienamente la vita divina. b) Vi sono le membra morte, unite alla Chiesa dal battesimo ricevuto un giorno e dalla fede, ma prive della grazia che è vita dell’anima. Esse ricevono qualche benefico influsso, ma non possono partecipare alla vita interiore della Chiesa, - come ai rami secchi non viene partecipata la vita della pianta, quantunque per essi sia un bene l’essere uniti materialmente a questa, in quanto possono ravvivarsi e ricevere qualche influenza dalla medesima. c) Vi sono le membra non solo morte, ma anche separate dalla Chiesa e che, di conseguenza, non hanno parte a nessuna ricchezza spirituale del divino organismo fondato da Cristo. Solo la prima classe di membri - i membri vivi, che non hanno peccati gravi, ossia posseggono la grazia - sono vivificati dallo Spirito Santo, anima della Chiesa e godono della Comunione dei Santi.

Ad ogni corpo vivente è necessario non soltanto un capo, ma un’anima vivificatrice. Orbene, nell’organismo della Chiesa, se il capo è la persona adorabile di Gesù Cristo, l’anima è lo Spirito Santo. «Non solo - dice il Prat, riassumendo il pensiero paolino con le stesse parole dell’Epistola a quelli di Efeso - lo Spirito Santo abita nella Chiesa ed in ciascuno dei giusti come in un suo tempio, ma vi sta come un principio di coesione, di movimento e di vita. Egli non agisce in noi come se fosse fuori di noi; ma si unisce così intimamente alla nostra attività interiore, che la nostra azione è sua, e la sua azione è nostra; così noi viviamo per mezzo di Lui, e siamo mossi da Lui. È infatti Lui, che facendo salire dal nostro cuore alle nostre labbra il nome di Padre, attesta che noi siamo figli di Dio. Come la forma specifica l’essere, la presenza dello Spirito vivificatore in noi ci conferisce la nostra dignità soprannaturale, la filiazione adottiva. Poiché lo Spirito Santo è lo Spirito del Signore, per mezzo di lui noi diventiamo conformi all’immagine del Figlio di Dio, perché colui che aderisce al Signore è un medesimo Spirito con Lui, in quanto si trova avvolto nella medesima atmosfera di vita divina. Perciò san Paolo, ogni volta che parla della nostra trasformazione soprannaturale, ha cura di farvi intervenire lo Spirito Santo... Il battesimo e la confermazione ci incorporano al Cristo mistico, mediante un influsso dello Spirito Santo, che ci mette in comunicazione vitale col capo ed in relazione organica tra noi, doppio rapporto che Paolo, con parola molto indovinata, chiama la comunione dello Spirito». [Il “carismatismo” o “rinnovamento”, o piuttosto il “pentecostismo”, attenta anche a questi princìpi fondamentali ed elementari, ndR].

San Paolo, dopo d’aver preso nella Lettera ai Colossesi la Persona di Cristo come argomento principale, discorre, nell’altra sua Lettera a quelli di Efeso - della Chiesa, quale prolungamento di Cristo nel tempo e nello spazio. Per san Paolo la Chiesa è un organismo ed occorre afferrare bene tale concetto, illustrato dalla parola ispirata dell’Apostolo, per penetrare sempre più a fondo, non solo nel pensiero del creatore della Chiesa, ma altresì nella sublime unità della dottrina e della vita cristiana. Secondo san Paolo, dunque, noi dobbiamo distinguere il Cristo naturale, il Verbo incarnato, il Sacerdote e la Vittima del Calvario, Colui che ci ha riscattati soffrendo e morendo per noi, ed il Cristo mistico, ossia la Chiesa che è unita al Cristo naturale come le membra al loro Capo. Cristo è il «Capo supremo della Chiesa, che è il Suo Corpo»; tutti i fedeli, che col battesimo entrano a formare la Chiesa, sono le membra di questo organismo divino. E come nell’organismo si nota varietà di organi, diversità di posti, di struttura e di funzioni, ed in pari tempo v’è un’unità per il principio comune della vita e del moto, così nella Chiesa noi abbiamo quest’unità insieme con la molteplicità svariata dei suoi membri. «Ben lungi dal nuocere all’unità, - commenta il Prat nel suo bel lavoro su La théologie de san Paul - la diversità l’abbellisce e la completa. Il corpo - osserva san Paolo - non è un solo membro, ma più membra; se tutto fosse un solo membro, dove sarebbe l’organismo? Diversità di organi e identità di vita: tale è la formola del corpo umano, e tale pure è la formola del corpo mistico». Per questo, tutti i fedeli di Cristo - dalla Chiesa trionfante (i beati del Paradiso) alla Chiesa purgante (le anime del Purgatorio) ed alla Chiesa militante (i credenti di questa terra) - sono una cosa sola in Cristo Gesù e costituiscono con Lui l’unità del corpo mistico. Apriamo una parentesi. Questo insegnamento - mille volte ripetuto in mille forme nella Scrittura, come, ad esempio, quando Gesù ricorre all’allegoria della vigna e paragona Sé alla vite e noi ai tralci - implica la conseguenza che se vogliamo davvero vivere soprannaturalmente, dobbiamo essere uniti alla Chiesa. Chi è diviso dalla Chiesa, è diviso da Gesù Cristo, è un membro reciso dall’organismo e che si decompone, è un tralcio morto che diventa legna da ardere. Fuori della Chiesa, non v’è salvezza, non v’è partecipazione alla vita soprannaturale di Cristo. Le eresie e gli scismi tagliano una parte di questo organismo e portano, quindi, la rovina. È vero: noi, con la teologia, distinguiamo il corpo e l’anima della Chiesa: il corpo è l’organismo esterno e visibile; l’anima è la vita, è la grazia, che dentro vi alita; e nulla vieta che una persona in buona fede [invincibilmente ignorante, ndR] appartenga all’anima senza appartenere al corpo della Chiesa. Ma questa è un’eccezione e non sopprime, ma conferma la volontà di Cristo, che ci obbliga a vivere nell’organismo di cui Egli è il capo. L’unione con Dio, la grazia, Gesù Cristo, la Chiesa non sono punti separati, quasi che si possa scegliere liberamente uno di essi, rifiutandone un altro; ma hanno una tale connessione, che si spiegano a vicenda. [Il “vaticanosecondismo” attenta anche a questi princìpi fondamentali ed elementari, con tutte le conseguenze che ne derivano, ndR].

Non si può dividere Gesù Cristo dalla Chiesa. La «Madre dei Santi», l’«immagine della città superna», «il campo di quei che sperano», la Chiesa del Dio vivente, che da tanti secoli soffre, combatte e prega, e le sue tende spiega «da l’uno all’altro mar», è il capolavoro del Divino Artista e ne continua l’opera. Gesù ha amato la sua Chiesa, scrive san Paolo, ed ha dato se stesso per santificarla. Cos’è la Chiesa? In qual modo dobbiamo concepirla nella sua natura, nella sua vita, nella sua attività, nella sua storia, dal Cenacolo alle Catacombe, dai primi trionfi alle vittorie che sempre si rinnovellano? Ancora una volta: è impossibile trattare simili problemi, con tutte le altre questioni annesse, se non si parte dall’idea fondamentale dell’ordine soprannaturale, dalla grazia meritataci da Cristo ed a noi partecipata mediante la Chiesa, che Egli a questo scopo ha istituito. Leggiamo i vari paragrafi per capire di che si tratta.

La creatura che ha raggiunto l’unione soprannaturale più intima e più alta con Dio è Maria, la piena di grazia. Essa, infatti, fra l’altro, è: а) L’Immacolata, ossia è stata concepita senza il peccato originale ed ebbe sempre, per singolare privilegio, la grazia nel suo cuore; b) La Vergine, che fu sempre tutta e sola di Dio; c) La Madre dell’Autore stesso della grazia: Cristo Gesù. La nostra devozione, quindi, a Maria dev’essere soprannaturale. Se volessimo prescindere dalla grazia, non comprenderemmo la vera grandezza di Maria, né sapremmo convenientemente pregarla.

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