Si dirà: la Bibbia è divinamente ispirata. Tante grazie; lo sapevamo. Ma bisogna vedere se ogni suo passo, o almeno quelli che voi adducete, contengono realmente queste misteriosità arcane che voi tirate fuori. Credete davvero che i profeti parlassero in estasi, sottintendendo nelle loro parole dieci diversi sensi reconditi, e forse non intendendo neppure essi che cosa dicevano ? Ebbene, vi risponde San Girolamo: I profeti non hanno già parlato in estasi, come Montano con le sue stolte femmine va sognando, sì da non capire ciò che dicessero e, mentre insegnavano ad altri, essi stessi ignorassero quel che dicevano... Se infatti i profeti furono sapienti, cosa che non possiamo negare..., come i sapienti profeti avrebbero ignorato, a guisa di animali bruti, ciò che dicevano? (In Isaiam, Prol.). La realtà è che, se moltissime volte la Bibbia è oscura, ciò avviene per varie ragioni che si vedranno in seguito, e nelle quali la misteriosità d’argomento non entra affatto; quando poi l’argomento stesso è misterioso - ad es. la processione del Logos dal Padre nel IV Vangelo - evidentemente esso rimarrà sempre tale, sia nella Bibbia sia fuori di essa; quando infine la Bibbia è limpidamente chiara, se voi ci ritrovate dentro ciò che essa non dice, è puro effetto della vostra pia e pietosa ignoranza. Non vi offendete di questo termine, egregio contradittore; è sant’Agostino che l’impiega: Non hoc habebat divina Scriptum, sed hoc senserat humana ignoranza (De Gen. ad litt., I, 19, 38). Ad ogni modo se, prendendo lo spunto da un testo biblico, volete ricamarvi sopra ed elevarvi ad altre considerazioni, fate pure: lo hanno fatto i Padri a scopi parenetici, e in misura più limitata (giacché non siete un Padre) sarà concesso anche a voi. Ma ricordatevi di presentare i vostri come ricami, non come autentica stoffa biblica, e che ad ogni modo, in tal caso, voi fate della mistica, dell’ascetica ecc., ma non della genuina esegesi. Così quando dissertando sulle frequenti frasi bibliche, apenens os suum,... elevatis oculis,... surgens abiit, ecc., voi scoprite in esse reconditi insegnamenti di lunghi silenzi, di sguardi modesti e gravi, di vita solinga e ritirata, e simili, io posso accettare i vostri insegnamenti morali: ma, sul campo esegetico, vi rispondo che quelle frasi sono ordinariamente impiegate nelle lingue semitiche per iniziare un discorso, attaccare un episodio, ecc., senza attribuire loro alcuna accentuazione di significato. - Quando a proposito dell’espressione del IV Vangelo, secondo cui Marta vocavit Maria sororem suam silentio (Giov. 11,28), io leggo in autori mistici deliziose considerazioni su quel vocare silentio una persona, sono disposto ad apprezzare tutta l’eccellenza di queste elevazioni spirituali: ma quale esegeta della lettera io rimango impassibile, come un qualsiasi Giunio Bruto che condanna i propri figli in nome della legge superiore a lui. La legge esegetica è là, superiore a me, e io non faccio che applicarla inesorabilmente: al posto di silentio il testo originale ha «segretamente», « di nascosto », ed ecco che il «chiamare segretamente» una persona è un’azione ordinarissima e semplicissima. E allora, il significato arcano di quel vocare silentio? Si potrà rispondere con sant’Agostino che, sotto l’aspetto esegetico, non hoc hahebat divina Scriptum, sed hoc senserat humana ignorantia: l’ignoranza del greco. L’esempio dei Padri non infirma, bensì conferma questa legge esegetica. Prendiamo proprio sant’Agostino. È notissimo, fra altri, il suo passo in cui ragionando del paralitico di 38 anni d’età (Giov. 5,1 ss.), egli sembra ricercare nella cifra dell’età di lui la ragione della sua malattia: 40 è cifra perfetta; ad essa mancano 2 anni, che rappresentano i 2 precetti d’amore verso Dio e verso il prossimo; perciò il paralitico era tale, perché mancante di quei due simbolici anni di età. (Tract. XVII, 4, in Joan.). Tutti anche conoscono il suo passo in cui, commentando il racconto del soldato che trafigge il costato di Gesù morto (Giov. 19,34), egli osserva che l’Evangelista si è servito di un vigilanti verbo; costui infatti non dice: latus eius percussit, aut vulneravit, aut quid aliud, sed aperuit, perché fu aperta la porta della vita, donde emanarono i sacramenti della Chiesa (Tract. CXX, 2, in Joan.). Tutto vero e tutte bellissime elevazioni. Ma abbiamo in questi passi l’Agostino esegeta, o non piuttosto il pastore d’anime e l’oratore parenetico? L’Agostino esegeta siamo abituati a conoscerlo da altri suoi scritti: ad es. dal De Genesi ad litteram libri XII, giacché l’esegesi letterale - cioè la vera - del Genesi fu un problema che l’assillò dai primi tempi della sua conversione fino si può dire alla morte, e questo fu l’ultimo suo libro su tale argomento, dopo gli altri che egli stesso nelle Retractationes definisce come tentativi falliti. Ora, in scritti strettamente esegetici egli non si permette pii voli come quelli dei due passi testé visti; e se i due testi evangelici fossero, per ipotesi, capitati in uno scritto esegetico, c’è da star sicuri che sant’Agostino li avrebbe spiegati in tutt’altro modo. Avrebbe detto che il paralitico aveva 38 anni, perché era nato 38 anni prima, e nel frattempo gli era venuta la paralisi; e, raccogliendo le sue assai scarse cognizioni di greco, sarebbe forse riuscito anche a dimostrare che il vigilans verbum impiegato dall’evangelista, equivale praticamente tanto ad aperuit, quanto a percussit e a vulneravit: mentre, a rigore, la traduzione che etimologicamente meno gli corrisponde è proprio aperuit. Ma in quei due passi non è l’esegeta che parla: è il pastore d’anime e il catechista parenetico; il quale inoltre, non solo vuole trasmettere la genuina dottrina cattolica, ma per imprimerla meglio nell’animo rozzamente immaginoso dei suoi ascoltatori africani, ricorre a quei rilievi e spunti che sembrano dati esegetici, mentre sono semplicemente risorse oratorie. Sant’Agostino - come del resto gli altri Padri, e la Bibbia stessa - domanda soltanto di esser capito. Tutta ispirata dunque la Bibbia, e in molti punti misteriosa per la misteriosità stessa dell’argomento: d’accordo. Ma magica, no, in nessun punto. Perché dunque non abbandonare del tutto il vezzo di ricorrere a sistemi d’interpretazione che ricordano in qualche modo la Cabala? Si farà ciò in buona fede a scopo edificativo, senza dubbio; ma qualcuno potrebbe dimostrare che oggi, ai nostri tempi, non solo tale scopo spesso non si raggiunge, ma se ne può ottenere invece un altro del tutto opposto e assai dannoso: di far, cioè, sospettare a molti lettori o ascoltatori che quelli siano i veri argomenti con cui si dimostra la divinità del cristianesimo e la necessità della sua morale. Si era proposto uno scopo edificativo anche quell’oratore che pochi anni fa - a quanto mi narrò un amico - andava in giro in una certa regione recitando alcune sue conferenze di tipo morale apologetico; le conferenze erano a serie, e purtroppo a serie acrostica, giacché ogni serie illustrava acrosticamente qualcuno dei nomi cristiani più venerati, Gesù, Maria, Paolo, ecc. Ad esempio, se ben ricordo, il nome di GESù era divenuto Grazia Eterna Salvezza Universale, ed era perciò argomento di quattro conferenze che dimostravano le rispettive verità del nome. È chiaro che ogni coscienza cristiana è ben lieta di ammettere quelle quattro verità, e quindi le conferenze - a parte il valore intrinseco - erano giustissime, prese ognuna a sé. L’oratore invece insisteva molto sul legame dell’acrostico, ritrovandovi in ciascun caso misteriose corrispondenze; e ci teneva tanto, che invitato a ripetere le conferenze in una località dove avrebbe dovuto necessariamente parlare un’altra lingua (era una regione bilingue), si vide obbligato a declinare l’invito. L’acrostico andava all’aria, e il legame si sfasciava. ...

«PUNCTA DOLENTIA», parte 3. Da Bibbia e non Bibbia, ab. G. Ricciotti, Morcelliana, Brescia, 1935. SS n° 4, p. 5