Comunicato numero 63. Il secondo comandamento

Stimati Associati e gentili Sostenitori, studiamo il secondo dei comandamenti: «Non nominare il nome di Dio invano», usando il semplice Catechismo del Santo Concilio di Trento.

• Importanza del secondo comandamento. Nel primo comandamento della Legge divina che comanda di onorare Dio piamente e santamente, è necessariamente incluso questo secondo che segue. Infatti, chi vuole che gli si tributi onore, chiede con questo stesso che si usino a suo riguardo sempre parole rispettose e si evitino le parole dispregiative, come apertamente ricordano le parole di Malachia: Il figlio rispetta il padre, e il servo il suo padrone: se io sono padre, dov’è l’onore che mi si deve? (Mal. 1,6). Tuttavia, data l’importanza della cosa, Dio volle separatamente emanare e formulare questa Legge sull’onore dovuto al suo Nome santissimo e divino.

• (Tragga di qui il Parroco la convinzione che non basta parlare di tale argomento in termini generici. Si tratta di un tema su cui deve fermarsi a lungo, enumerando con ogni cura ai fedeli tutto ciò che vi si riferisce. Non tema mai di eccedere in diligenza, perché non mancano individui cosi accecati nelle tenebre dell’errore da osare di bistrattare, con le parole, Chi è glorificato dagli angeli). Non impressionati dalla Legge una volta emanata, costoro non ristanno dall’offendere senza vergogna ogni giorno, ogni ora anzi, e quasi ogni minuto, la maestà di Dio. Non udiamo tutt’intorno giuramenti sprecati per ogni quisquilia, discorsi tutti “infiorati” di imprecazioni e scongiuri, fino al punto che nulla si vende, si acquista o si contratta, senza far intervenire la solennità di un giuramento, senza usurpare migliaia di volte il nome santissimo di Dio nelle cose più sciocche e insignificanti? (Usi dunque il Parroco tutta la sua diligenza nell’ammonire spesso i fedeli sulla gravita ripugnante di questa colpa).

• Spiegando questo comandamento, non si dimentichi che la legge implicitamente accoppia alla proibizione l’imposizione di ciò che gli uomini devono fare. Proibizione e imposizione devono essere spiegate però separatamente. In primo luogo, perché più agevole ne sia l’esposizione, si indichi ciò che la Legge comanda, poi quello che proibisce. Comanda che il nome di Dio sia onorato e con esso non si facciano che giuramenti santi; proibisce poi di offenderlo, di invocarlo stoltamente, di giurare con esso alcunché di falso, di vano, di temerario.

• Come si onora il nome di Dio. Spiegando ai fedeli la parte in cui si comanda di tributare onore al nome divino, (il Parroco ricordi che) col nome di Dio non si intendono solamente le lettere, le sillabe, il puro vocabolo; ma si faccia riflettere al suo valore che designa la maestà onnipotente ed eterna del Dio uno e trino. Si capisce quanto stolta fosse la superstizione di alcuni Giudei, i quali scrivevano il nome di Dio, ma non osavano pronunciarlo, quasi che tutto consistesse nelle quattro lettere ebraiche, anziché nella divina realtà. E sebbene sia detto al singolare: Non nominare il nome di Dio, il divieto deve applicarsi non ad un solo nome speciale, ma a tutti quelli che sogliono attribuirsi a Dio. Essi sono parecchi: ad esempio: Signore, Onnipotente, Signore degli eserciti, Re dei re, Forte, e altri simili, contenuti nella Scrittura, i quali tutti esigono uguale venerazione.

• (Il Parroco) insegnerà poi in quale modo debba prestarsi il debito onore al Nome divino, perché il popolo Cristiano, le cui labbra devono sciogliere inni ardenti di lode a Dio, non può ignorare queste cose, utilissime, anzi necessarie alla salvezza. Molteplici sono le forme in cui può esprimersi la lode del Nome divino. Ma in quello che stiamo per dire sembra compresa l’importanza di tutte le altre. Lodiamo innanzitutto il Signore quando, al cospetto di tutti, lo riconosciamo fiduciosi come Dio e Signore nostro, professando insieme e proclamando che Gesù Cristo è l’autore della nostra salvezza. Lo stesso, quando attendiamo amorosamente alla conoscenza della parola, con cui si è espressa la volontà di Dio, meditandola assiduamente, studiandola con cura, leggendo o ascoltando, secondo le capacità e le incombenze di ciascuno di noi. Parimenti veneriamo e celebriamo il nome divino, quando celebriamo, per dovere o per sentimento di pietà, le lodi divine, e a Dio rendiamo grazie per ogni evento, prospero od avverso che sia. Dice il profeta: Benedici, o anima mia, il Signore e non dimenticare le sue elargizioni (Ps. 102,2). Sono parecchi i salmi davidici in cui sono soavissimamente cantate, con senso squisito, le lodi di Dio. Ed è sommamente eloquente il fatto di Giobbe esempio di pazienza, il quale, piombato in disgrazie terribili, non ristette giammai dal lodare Dio con animo invitto. Anche noi dunque, quando siamo afflitti dai dolori dei sensi e dello spirito, o siamo straziati dalla sventura, rivolgiamo le nostre forze alla lode alta di Dio, con la frase di Giobbe: Sia benedetto il nome del Signore (Jb. 1,21). Non si loda meno il Signore, però, invocandone fiduciosamente il soccorso affinché ci liberi dai mali, o almeno ci infonda forza e costanza per tollerarli serenamente. Il Signore stesso vuole che così facciamo: Invocami nel dì della tribolazione; ti libererò e tu mi renderai onore (Ps. 49,15). Implorazioni di questo genere trovano mirabili esempi in copiosi passi biblici e specialmente nei salmi 16, 43 e 118.

• Infine noi onoriamo il nome di Dio quando, a garanzia della parola data, lo invochiamo a testimone. Simile maniera di onorarlo differisce notevolmente dalle precedenti. Quelle che abbiamo enunciato, infatti, sono di loro natura così commendevoli che nulla v’è per gli uomini di più beatificante e di più desiderabile del trascorrere in esse notte e giorno. David esclama: Canterò le lodi del Signore in ogni istante; la sua lode fiorirà incessantemente sulle mie labbra (Ps. 33,2). Invece il giuramento per quanto buono in sé, non può essere lodevolmente usato di frequente. E la ragione della divergenza sta in ciò, che il giuramento fu istituito solo per essere un rimedio alla umana fragilità, quale strumento di prova per quanto asseriamo. Ora, come le medicine corporali vanno usate solo quando è necessario, e l’uso loro frequente rappresenta un pericolo, così il giuramento non può essere benefico, se non in caso di grave e seria opportunità. Se troppo spesso è ripetuto, lungi dal giovare, finisce col recare sensibile danno. Opportunamente insegna san Giovanni Crisostomo che il giuramento entrò nelle consuetudini umane molto tardi, quando nel mondo, non più giovane, ma adulto, il male si era propagato per lungo e per largo; tutto era fuori del proprio ordine; tutto era perturbato e sconvolto in una vasta confusione; e, per disgrazia più grande di ogni altra, gli uomini tutti erano caduti in una ripugnante schiavitù dinanzi agli idoli. Allora, poiché nessuno, in mezzo alla iniqua doppiezza universale, poteva credere alla parola altrui, fu giocoforza invocarvi sopra la testimonianza di Dio.

• Definizione del giuramento. Nell’ambito di questa parte del comandamento, il fine principale è di istruire i fedeli sul modo di usare santamente il giuramento. (Il Parroco quindi insegnerà innanzi tutto che) giurare è chiamare Dio in testimonio, qualunque sia la formula adoperata per farlo. Dire: Dio mi è testimone, o: Per Iddio, è la stessa cosa. Si ha ancora giuramento quando, per ispirare fiducia, giuriamo nel nome di certe cose create, quali, ad esempio, i Vangeli sacri di Dio, la Croce, le reliquie dei Santi, il loro nome e simili. Ma poiché simili cose di suo non sono capaci di conferire autorità e forza a un giuramento - e ciò può farlo solo Dio, la cui divina maestà si riflette in esse - ne segue che chi giura per il Vangelo, giura per Dio stesso, la verità del quale è contenuta e illustrata nei Vangeli. Lo stesso dicasi dei Santi, che furono templi di Dio, credettero nella verità evangelica, la rispettarono con ogni ossequio, la propagarono fra i popoli.

• Il giuramento è pure implicito in alcune formule di esecrazione, come quella adoperata da san Paolo: Invoco Dio a testimone contro l’anima mia (2Cor. 1,23). Chi pronunzia la formula del giuramento in questo modo, si sottopone al giudizio di Dio, vendicatore della menzogna. Non neghiamo che alcune di queste formule possono intendersi prive della forza di un giuramento; sarà utile però applicare anche ad esse le regole e le osservazioni formulate per il giuramento propriamente detto.

• Vi sono due generi di giuramenti: col primo, detto assertorio, affermiamo con forza religiosa una cosa passata o presente. Così dice l’Apostolo nella lettera ai Galati: Dio mi è testimone che io non mentisco (Gal. 1,20). Col secondo, detto promissorio, che comprende anche le minacce e riguarda il futuro, promettiamo e assicuriamo una cosa futura. A questa seconda categoria appartiene, per esempio, la promessa solenne fatta da David alla moglie Betsabea, nel nome di Dio, che suo figlio Salomone sarebbe stato l’erede del trono e gli sarebbe succeduto.

• Condizioni del giuramento legittimo. All’essenza del giuramento basta il chiamare Dio in testimone; ma perché esso sia giusto e santo si richiedono parecchie altre condizioni che devono spiegarsi con cura. Come attesta san Girolamo, le ha brevemente enunciate Geremia, quando scrisse: Giurerai, viva il Signore, con verità, con ponderazione, e con giustizia (Jr. 4,2). Con queste poche parole egli ha riassunto gli elementi del perfetto giuramento: verità, ponderazione del giudizio e giustizia.

• Al primo posto nel giuramento deve stare la verità, in quanto l’asserzione giurata deve essere vera e chi la emette la sappia tale, non per una leggera o temeraria congettura, ma in forza di saldissimi argomenti. Anche il giuramento promissorio esige la verità, dovendo, colui che promette, avere il proposito saldo di mantenere a suo tempo la promessa. L’uomo probo non si disporrà mai a promettere cosa contraria ai santissimi precetti di Dio; e quel che avrà promesso di fare con giuramento, giammai lo muterà, a meno che la situazione di fatto non sia così sostanzialmente cambiata che mantenere la promessa significherebbe incorrere nell’ira di Dio offeso. Anche David mostra quanto la verità sia necessaria nel giuramento, col definire giusto colui che giura in favore del prossimo, e non sa ingannare (Ps. 14,4).

• Segue il giudizio ponderato: non si deve giurare avventatamente, ma a ragion veduta. Chi vuol giurare, rifletta anzitutto se ce n’è la necessità, e consideri la situazione in tutti i suoi aspetti, per accertarsi che veramente esige il giuramento. Tenga conto del tempo, del luogo e di tutte le altre circostanze. Non si faccia trascinare da odio, da amore o da qualsiasi altro perturbamento spirituale, ma solo dalla necessità delle cose. Se simile accurata indagine non sarà stata premessa, il giuramento sarà senza dubbio temerario, com’è quello di coloro che per le cose più futili, senza alcun serio motivo, quasi per una pessima consuetudine contratta, giurano ad ogni istante. Così fanno ogni giorno venditori e compratori; quelli per vendere a più alto prezzo, questi per comprare a più basso: gli uni e gli altri esaltano o deprezzano, giurando, la mercanzia. E poiché i giovanetti mancano, a causa dell’età, di quell’acume che è necessario alla ponderazione richiesta dal giuramento, papa san Cornelio stabilì che non si chieda mai il giuramento a ragazzi di età inferiore ai quattordici anni, epoca della pubertà.

• Infine la giustizia: questa è necessaria soprattutto nei giuramenti promissori; perciò chi promette il disonesto e l’ingiusto pecca giurando, e accumula peccato su peccato, se mantiene la promessa. Abbiamo di ciò un esempio nel Vangelo, dove si narra del re Erode che, vincolato da una perfida promessa, donò in premio alla ballerina la testa di san Giovanni Battista (Mc. 6,23). E può ricordarsi anche il giuramento degli Ebrei, che, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, giurarono di non mangiare finché non avessero ucciso san Paolo (Act. 23,12).

• Chi rispetti tutte queste clausole e circondi il giuramento con queste condizioni, come altrettanti presidi, potrà con tranquilla coscienza giurare, come si può mostrare con molti argomenti. L’immacolata e santa Legge di Dio non comanda forse: Temerai il Signore Dio tuo; a lui solo servirai; nel suo nome giurerai? (Dt. 6,10-13). E David ha lasciato scritto: Saranno lodati tutti coloro che giureranno nel suo nome. Del resto la Scrittura mostra come gli stessi luminari della Chiesa, i santissimi Apostoli, ricorsero al giuramento, come risulta pure dalle lettere di san Paolo. Si aggiunga che gli stessi angeli giurano talora, poiché è detto nell’Apocalisse di san Giovanni evangelista che un Angelo giurò nel nome di Colui che vive nei secoli (10,3). Anzi giura Dio stesso, signore degli Angeli. Leggiamo infatti nel vecchio Testamento che Dio ripetute volte corrobora con giuramento le sue promesse ad Abramo (Gn. 22,16 Ex. 33,1) e a David, il quale esclama a proposito del giuramento di Dio: Ha giurato il Signore, e non se ne pentirà: tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedec (Ps. 109,4).

• La ragione stessa spiega agevolmente come il giuramento sia lodevole se ne indaghiamo attentamente l’origine e la finalità. Il giuramento infatti nasce dalla fede che gli uomini hanno in Dio, autore di tutta la verità, incapace così di ingannarsi come di ingannare, agli occhi del quale tutto appare senza veli (Hebr. 4,13), che provvede con meravigliosa provvidenza e regge l’universo. Vivendo in tale fede, gli uomini invocano Dio a testimone della verità, perché è cosa empia non credere a Lui. Il giuramento infine tende unicamente a comprovare la giustizia e l’innocenza umana, a chiudere le liti e le controversie, come insegna l’Apostolo nella sua lettera agli Ebrei (Hebr. 6,16).

• A tale dottrina non possono contrapporsi le parole del Salvatore in san Matteo: Udiste che fu detto agli antichi: Non spergiurare; ma adempi i tuoi giuramenti al Signore. Io però vi dico di non giurare in modo alcuno, né per il cielo che è trono di Dio; né per la terra, che è sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, che è la città del gran Re. Non giurare per la tua testa, perché non puoi far bianco o nero un solo capello. Ma sia il vostro parlare: Si, si; No, no: il di più viene dal maligno (Mt. 5,33). Non può infatti scorgersi in queste parole una proibizione formale e generale del giuramento, dal momento che abbiamo visto sopra come lo stesso Signore e gli Apostoli hanno giurato più volte. Dobbiamo pensare piuttosto che Gesù Cristo volle biasimare la distorta opinione dei Giudei, che nel giuramento fosse da evitarsi soltanto la menzogna, finendo col giurare e col chiedere l’altrui giuramento ogni momento, per le cose più insignificanti. Il Salvatore deplora questo pessimo costume e impone di astenersi dal giurare, finché non lo richieda una necessità.

• In realtà il giuramento è nato dalla fragilità umana e dal male; esso sta ad indicare l’incostanza di chi giura o la diffidenza di colui per cui giuriamo, deciso a non credere in altra maniera. Però anche il bisogno può essere sufficiente motivo di scusa. La frase del Salvatore: Sia il vostro parlare: Si, si; No, no, mostra senza dubbio che il giuramento è da lui vietato nelle conversazioni familiari, e che non dobbiamo essere inclinati ad emetterlo ogni momento. Intorno a ciò dovranno essere caldamente ammoniti (dal Parroco) i fedeli, poiché, come mostrano le Scritture e gli insegnamenti dei Padri, mali pressoché infiniti sgorgano dalla eccessiva facilità a giurare. È scritto nell’Ecclesiastico: Il tuo labbro non contragga l’abitudine del giurare: essa porta molti al precipizio. E poco dopo: L’uomo che giura molto, si riempirà di cattiveria e i malanni assedieranno la sua casa (33,9-12). Molte belle considerazioni in materia si trovano nelle opere di san Basilio e di sant’Agostino contro la menzogna. Fin qui abbiamo parlato di quel che è comandato; parliamo ora di quel che è vietato dal secondo comandamento.

• Come si pecca contro questo comandamento. Ci viene proibito di invocare invano il nome di Dio. È quindi chiaro che pecca gravemente chi formula giuramenti senza motivo, ma temerariamente. La gravità della colpa traspare dalle stesse parole: Non invocherai invano il nome del tuo Dio, quasi volesse così addurre la ragione per cui simile colpa è tanto grave e riprovevole, in quanto lede la maestà di Colui che noi riconosciamo come nostro Dio e Signore. È così vietato innanzitutto di giurare il falso. Chi non rifugge dal peccato di porre sotto la garanzia di Dio il falso, fa gravissima ingiuria a Dio, attribuendogli o l’ignoranza, per cui suppone che non conosca una determinata verità, o una certa deformità di affetti, per cui lo suppone disposto a corroborare col proprio Nome la menzogna. Né giura falsamente solo colui che con giuramento afferma per vero quanto sa che è falso, ma anche chi giurando sostiene una cosa che, vera in sé, è però da lui reputata falsa. Menzogna infatti è asserzione difforme dall’intimo convincimento; perciò anche costui mentisce ed è spergiuro.

• Parimenti è spergiuro chi afferma con giuramento una cosa che ritiene vera, ed è falsa, sempre nel caso che non abbia adottato tutte le precauzioni per formarsi un concetto chiaro e sicuro della medesima; in tal caso, sebbene fra parola e pensiero vi sia corrispondenza, costui contravviene al precetto. E vi contravviene pure chi promette con giuramento di far qualcosa, e poi, o si propone di non farla, o effettivamente non la fa. Tale valutazione si applica anche a coloro che fecero a Dio un voto e non mantengono.

• Si manca al precetto anche quando manchi la giustizia, uno dei tre coefficienti del giuramento legittimo. Chi giuri di commettere un peccato mortale, un omicidio, ad esempio, pecca contro il comandamento, per quanto parli seriamente e sinceramente, e il suo giuramento abbia quella nota di verità, che già indicammo come indispensabile.

• Vanno segnalati anche quei tipi di giuramento, che nascono da un sentimento di dispregio, come nel caso di chi giuri di non voler obbedire ai consigli evangelici, che esortano al celibato e alla povertà. Sebbene nessuno sia obbligato ad osservarli, chi però giuri con solennità di non volerli seguire, mostra di disprezzare e calpestare i consigli divini.

• Inoltre viola questo precetto e pecca consapevolmente colui che giura il vero, sapendolo tale solo in base a fragili e remote congetture. Infatti, sebbene la verità accompagni simile giuramento, esso in qualche modo implica il falso, in quanto il giurare così negligentemente espone al più grande pericolo di spergiuro. Infine giura abusivamente chi giura per gli dèi falsi e bugiardi. Qual cosa più difforme dalla verità che l’invocare a testimoni divinità menzognere ed illusorie, al posto del vero Dio?

• Vietando lo spergiuro, la Scrittura dice: Non contaminerai il nome del tuo Dio (Lv. 19). è proibita dunque ogni disistima di tutto ciò a cui, in virtù di questo comandamento, dobbiamo ossequio; e fra l’altro, della parola di Dio, veneranda agli occhi non solo delle persone pie, ma anche delle empie, come mostra nel Libro dei Giudici il racconto che riguarda Eglon re dei Moabiti (3,20). Orbene, gravissima ingiuria si arreca alla parola di Dio torcendo la Scrittura dal suo retto significato all’asserzione di dottrine eretiche ed empie. Ci ammonisce in proposito il Principe degli Apostoli: Vi sono nelle Scritture frasi ardue che gli ignoranti e i superficiali fraintendono a loro dannazione (2 Pietr. 3,16). Parimenti la Sacra Scrittura è contaminata quando le sue venerabili sentenze, da uomini sconsigliati, sono tratte a significati profani, sconvenienti, favolosi, sciocchi, magici, calunniosi e simili. Il sacro Concilio Tridentino vuole che si avverta che ciò non si può fare senza peccato.

• Infine, come onorano Dio coloro che ne implorano il soccorso nelle calamità, così gli negano il dovuto onore coloro che non ne invocano l’aiuto. David li redarguisce: Non invocarono il Signore, e tremarono di paura quando non v’era ragione di temere (Ps. 13,5). Ma di ben più detestabile scelleratezza si rendono rei coloro che osano, con labbra vergognosamente impure, bestemmiare e maledire il Nome santo di Dio, che tutte le creature dovrebbero magnificare e benedire; oppure il nome dei Santi che regnano con Dio. Questo peccato è così mostruoso che la Scrittura talora, dovendo parlare della bestemmia, preferisce parlare di benedizione (1R. 21,13).

• Pene per i trasgressori del precetto. Poiché l’orrore per la punizione e il supplizio suole efficacemente comprimere l’inclinazione a peccare, il Parroco che vuole eccitare più vivamente l’animo dei fedeli e stimolarlo al rispetto del comandamento, ne spiegherà convenientemente la seconda parte o appendice: Il Signore non riterrà innocente colui, che abbia invocato vanamente il nome del Signore stesso, suo Dio (Ex. 20,7). Insegni innanzitutto che ragionevolmente sono state unite al precetto le minacce che lumeggiano la gravità della colpa e la misericordia divina verso di noi. Egli non si compiace della dannazione degli uomini e per indurci a evitare la sua ira punitrice, ci atterrisce con salutari minacce, affinché preferiamo sperimentarlo benevolo, anziché irato. Insista dunque il Pastore su questo punto con ogni cura; faccia conoscere al popolo l’orrore della colpa, ne insinui più veemente abominazione, affinché i fedeli siano più diligenti nell’evitarla. Voglia inoltre mostrare come sia sviluppata nell’uomo la tendenza a commetterla, non essendo stato sufficiente promulgare la legge, poiché fu necessario aggiungerle delle minacce. Non si può immaginare quanto tale considerazione sia proficua. Come nulla è più pernicioso della spavalda sicurezza d’animo, così nulla è più giovevole della consapevolezza della propria nullità. Infine, (il Parroco) spieghi come Dio non abbia stabilito alcun determinato supplizio, ma semplicemente dichiarato che chiunque si macchia di questo delitto, non sfuggirà alla vendetta. Per cui devono esserci di monito le nostre pene quotidiane, potendosi plausibilmente congetturare che gli uomini sono colpiti da sventure perché non obbediscono a questo precetto. Ed è probabile che riflettendo a ciò, se ne guarderanno più premurosamente per l’avvenire. In conclusione, ripieni di santo timore, i fedeli fuggano con ogni studio questo peccato. Se nel dì del giudizio ci sarà chiesto conto di ogni parola oziosa (Mt. 12,36), che cosa dire dei peccati più gravi, che implicano una diretta offesa al nome divino?