Comunicato numero 136. Lo scopo delle parabole di GesùStimati Associati e gentili Sostenitori, segnaliamo la nostra recente pubblicazione «Racconti miracolosi» (ISBN 978-8890074714) del Padre Giacinto da Belmonte. Miracolo vuol dire opera meravigliosa e straordinaria che non può essere l’effetto di una causa naturale. Il miracolo è una derogazione alle leggi di natura: esso vince di molto le forze dell’uomo; Dio solo può farlo e gli uomini non possono operarne che per mezzo di Dio. Il miracolo è una prova sicura della verità. Dobbiamo distinguere il vero dal falso miracolo, chiamato prodigio ed operato da imbroglioni o da maliardi in combutta col demonio. Il vero miracolo è la più autentica ed incontestabile testimonianza che si possa avere della verità di una dottrina. Dio non può permettere miracoli in favore dell’errore; altrimenti si burlerebbe degli uomini e sarebbe Egli stesso autore dell’inganno. Gli iniqui fanno cose che sembrano miracoli, studiando alla gloria propria; i Santi fanno dei veri miracoli, mirando alla gloria di Dio. Con saggio introduttivo sui veri e sui falsi miracoli. Sursum Corda non ha scopo di lucro e l’intero ricavato delle donazioni viene utilizzato per le opere di misericordia spirituale e corporale, soprattutto per la divulgazione gratuita della «buona novella». Per richiedere il libro «Racconti miracolosi» e per fare una piccola donazione a Sursum Corda si può utilizzare il link: CLICCARE QUI

• Oggi proveremo ad imparare qualcosa in più - grazie ai preziosi studi che ci ha lasciato l’Abate Ricciotti - sullo scopo delle parabole di Nostro Signore Gesù Cristo. § 362. Le parabole di Gesù mirano a presentare il regno di Dio, ossia dei cieli. Nel Discorso della montagna Gesù aveva parlato dei requisiti morali necessari per entrare in quel regno; ma adesso, essendo trascorso altro tempo, era necessario fare un ulteriore passo in avanti e parlare di quel regno in sé, della sua indole e natura, dei membri che lo costituivano, del modo come si sarebbe attuato e stabilito. Anche sotto questo riguardo, infatti, la predicazione di Gesù seguì un metodo essenzialmente graduale. La ragione di questa gradualità è nella importantissima circostanza storica che già accennammo (§§ 300-301), vera chiave di volta del contegno di Gesù nei confronti della sua vita sociale, cioè nell’ansiosissima aspettativa da parte dei Giudei di un regno messianico-politico. Parlare a quelle turbe di un regno di Dio senza schiarimenti e spiegazioni, significava far balenare alle loro fantasie la visione di un celestiale re onnipotente, circondato da falangi di uomini armati e meglio ancora da legioni di angeli combattenti, il quale avrebbe portato Israele di vittoria in vittoria fino alla signoria di tutta la terra, rendendo «maestro e donno»  delle nazioni pagane quel popolo fino allora calpestato da tutti i pagani, e riducendo invece costoro a sgabello dei piedi di lui (§ 83). Eppure, precisamente a quelle turbe così deliranti Gesù doveva parlare dell’oggetto del loro delirio, e parlare in maniera tale da attirarle e insieme da disingannarle: il regno di Dio indubbiamente doveva venire, si, anzi già aveva cominciato ad attuarsi, ma non era il “regno” loro, bensì quello di Gesù, totalmente diverso. Perciò la predicazione di Gesù doveva insieme mostrare e non mostrare, aprire gli occhi alla verità e chiuderli ai sogni fantastici; era, dunque, necessaria una prudenza estrema, perché Gesù a questo punto s’inoltrava su un terreno vulcanico che poteva scoppiare da un momento all’altro. Questa amorevole prudenza fece sì che Gesù si servisse della parabola. La parabola, infatti, è chiara ma anche oscura, è eloquente ma anche reticente. Per chi la contempli con animo sereno e non preoccupato, è chiara ed eloquente; a chi la scruti con occhio torbidoso e con animo prevenuto essa non dice nulla, seppur non dice il contrario di ciò che in realtà vuol dire. È, dunque, non già tenebra, ma luce, e luce misericordiosamente adatta per occhi che si trovino in condizioni speciali; tuttavia quegli occhi devono essere puri, non già malati, mentre - come più tardi Sant’Agostino esperimenterà in se stesso - aegris oculis odiosa est lux, quae puris est amabilis [Che la luce è odiosa a chi ha gli occhi infermi, mentre è amabile a chi ha gli occhi sani, ndR]. Ma anche nel caso che la parabola non fosse subito compresa, rimaneva ancora un rimedio. Le parabole di Gesù erano recitate in pubblico, davanti a gente ben disposta e a gente mal disposta, affinché per tutti fosse aperta la porta del regno. Il velame della parabola era imperiosamente richiesto da misericordia e prudenza; ma rimaneva sempre la possibilità di squarciare quel velame, sottraendosi dal dominio pubblico e rivolgendosi in privato all’autore delle parabole. Gesù, se voleva veramente diffondere il suo regno, non avrebbe rifiutato di parlare fuori parabola, qualora fosse stato consultato in privato: in privato le ragioni prudenziali che moderavano la predicazione pubblica non esistevano, e quindi il velame poteva essere abolito. • § 363. Così in realtà avvenne. Un giorno imprecisato i discepoli gli si avvicinarono e gli chiesero: «Perché parli ad essi in parabole?» (Matteo, 13, 10). Questa domanda, e la risposta datale da Gesù, sono importantissime; ma per ben valutarle bisogna avere  presente che domanda e risposta avvennero certamente non già nella giornata delle parabole, ma ben più tardi, quando cioè Gesù aveva recitato numerose parabole e i discepoli avevano riscontrato ch’esse producevano scarso effetto sulle turbe; inoltre, già prima di quella domanda, i discepoli si erano rivolti in privato a Gesù per chiedere spiegazioni di parabole udite in pubblico (Matteo, 13, 36; 15, 15) o anche spontaneamente Gesù le aveva spiegate in privato ad essi (Marco, 4, 34).

• [Dalla nota 1 alla pagina 434: Il dialogo è riportato da tutti e tre i Sinottici subito dopo la parabola del seminatore, che è la prima nella giornata delle parabole ; ma, come giustamente ritengono i commentatori moderni, qui si segue l’ordine logico, non quello cronologico. Iniziandosi l’insegnamento in parabole gli Evangelisti opportunamente soggiungono, subito dopo la prima, quel dialogo che getta luce su tutte. Il dialogo però non avvenne né in quella giornata né dopo la prima parabola: sia perché quella giornata Gesù parlò stando in barca e rivolto alle turbe affollate sulla riva, cosicché i discepoli non avrebbero potuto rivolgergli quella domanda delicata e in privato (cfr. Marco, 4, 10), sia perché dopo la sola prima parabola, non si poteva chiedere a Gesù perché parlasse in parabole. È dunque uno dei tanti casi in cui gli Evangelisti distribuiscono la materia indipendentemente dall’ordine degli avvenimenti].

• Alla domanda pertanto dei discepoli Gesù rispose: «Perché a voi è stato dato conoscere i misteri del regno dei cieli, a quelli invece non è stato dato. Chiunque infatti ha, gli sarà dato e sovrabbonderà: chiunque invece non ha, anche ciò che ha gli sarà tolto. Per questo in parabole parlo loro, perché vedendo non vedono, e udendo non odono nè comprendono; e si compie per essi la profezia di Isaia la quale dice: “Udendo udrete, e non comprenderete: vedendo vedrete, ma non scorgerete. Divenne infatti crasso il cuore di questo popolo, e con le orecchie difficilmente udirono, e rinserrarono i loro occhi affinché non mai scorgano con gli occhi, e con le orecchie odano, e col cuore comprendano e si convertano, e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono, e le vostre orecchie perché odono; eccetera...» (Matteo, 13, 11-16). Questa risposta è rivolta non soltanto agli Apostoli, ma anche ad altri volenterosi ch’erano insieme con essi (Marco, 4, 10, greco) e avevano fatto unitamente la domanda. La differenza tra i volenterosi e gli altri uditori consisteva in ciò, che ai primi era concesso di conoscere il regno in maniera perspicua (i suoi misteri), agli altri invece soltanto sotto il velame della parabola; ma questa differenza non era che la conseguenza della volenterosità dei primi, i quali, interrogando privatamente Gesù, ottenevano l’abolizione del velame parabolico, mentre gli altri rimanevano avviluppati in quel velame perché non avevano avuto il desiderio di uscirne: tuttavia la porta del regno era aperta agli uni e agli altri, e la sua soglia era rappresentata dalla parabola. Si poteva anche chiedere perché mai soltanto i volenterosi varcavano quella soglia in virtù della loro volenterosità; ma con ciò si sarebbe entrati in una questione ben differente e di sfera assai più alta, perché si sarebbe chiamato in causa il principio già enunciato a Nicodemo secondo cui chi «non sia nato da... Spirito, non può entrare nel regno d’iddio» (§ 288).

• § 364. Tutto ciò è abbastanza chiaro nel testo del dialogo secondo San Matteo, salvo un punto che si vedrà subito. Invece il testo degli altri Sinottici, ambedue più brevi, offre una particolare difficoltà, specialmente quello di San Marco che suona così: «A voi è stato dato (di conoscere) il mistero del regno d’Iddio; per quelli invece (che stanno) fuori (di voi volenterosi) il tutto avviene in parabole, affinché “vedendo vedano e non scorgano, e udendo odano e non com prendano, affinché non mai si convertano e sia rimesso (il peccato) ad essi”» (Marco, 4, 11-12). Si è discusso infinitamente su quel primo «affinché», che introduce l’anonima citazione di Isaia, per definire se abbia o no un valore finale e intenzionale; la questione deve esser risolta mediante il confronto degli altri due Sinottici, e specialmente di Matteo più ampio di tutti. Gesù nella sua risposta, dopo aver distinto fra i volenterosi e gli altri, si appella a ciò che già era avvenuto al ministero del profeta Isaia citandone le parole. Ma la citazione, nel testo odierno di San Matteo, è fatta secondo la versione dei Settanta (certamente dal traduttore greco di Matteo), mentre Gesù citò senza dubbio l’originale ebraico che suona così: «E (Dio mi) disse: “Vai e dirai a questo popolo udendo udite ma non (sia) che comprendiate, e vedendo vedete ma non (sia) che conosciate!”. Rendi crasso il cuor di questo popolo, e indura le sue orecchie e inungi i suoi occhi affinché non (avvenga che) veda con i suoi occhi e oda con le sue orecchie e comprenda col suo cuore, e (così) si converta e (il suo medico) lo guarisca» (Isaia, 6, 9-10). Riguardo al vero senso di queste parole non vi può essere alcun ragionevole dubbio. Dio parla qui come tradizionale e amorevole medico d’Israele, e tenta ancora una volta la guarigione del malato inviando Isaia a curarlo: ma il medico è sdegnato perché il malato si mostra, come sempre, caparbio e di dura cervice, e quindi per scuoterlo e impaurirlo il medico qui parla sarcasticamente e impiega l’ammonizione in forma di minaccia. In sostanza egli dice: «Giammai una volta che tu ascoltassi e ti lasciassi persuadere! Ebbene, respingendo la mia medicina, resta pure con i tuoi mali affinché io non ti guarisca in eterno!». Ora, chi non vede che il medico vuole seriamente ed effettivamente guarire (il malato), e che l’«affinché» è un sarcasmo amorevole ed una salutare minaccia, la cui responsabilità cade esclusivamente sul malato? Tanto è vero che, nel caso storico, Dio inviava Isaia per tentare effettivamente la guarigione spirituale d’Israele. Come, dunque, nel dialogo secondo San Matteo l’intero tratto va interpretato conforme all’originale ebraico di Isaia nominatamente citato, così gli altri due Sinottici vanno interpretati conforme a Matteo e al testo ebraico di Isaia. Questo testo, poi, in Luca e Marco, è citato non solo in maniera anonima, ma anche in forma accorciata e incompiuta: tuttavia siffatta maniera di citare non deve trarre in errore, quasi invitasse a limitarsi alle sole parole allegate. Si citava per summa verba affinché si riconoscesse esattamente il passo alluso, ma fermo restando che il suo vero senso doveva estrarsi dall’originale dell’intero passo alluso: il quale, come facilmente si poteva presupporre, era un passo classico nella polemica antigiudaica e variamente impiegato dalla primitiva catechesi cristiana (Giovanni, 12, 40; Atti, 28, 26-27; Romani, 11, 8). In conclusione, il disputato «affinché» conserva nella citazione di tutti e tre i Sinottici il valore che ha nell’originale ebraico di Isaia, e questo valore non è affatto di finalità e di intenzione; bensì d’accorata ammonizione in forma di minaccia salutare.

• [Dalla nota 1 alla pagina 436: I Padri e gli espositori antichi sono tornati sovente sulla questione dell’ «affinché», e, di conseguenza, sullo scopo delle parabole, prendendone occasione a ricerche sulla grazia, sul libero arbitrio e sulla predestinazione. Ottima fra tutte è la riflessione di San Giovanni Crisostomo il quale, sostenendo che lo scopo delle parabole era di illuminare e non di oscurare le menti, fa notare con perfetto buon senso che se Gesù «non avesse voluto istruirli e salvarli (i Giudei), doveva tacere, non già parlare in parabole; ora invece con ciò stesso li sprona, col parlare di cose avvolte nell’ombra; (...) potevano infatti sia avvicinarsi sia interrogare, come (fecero) i discepoli» - in Matth., hom. 45 (46), 2; in Migne, Patr. Gr., 58, 473.  Lo Jülicher ha preso tutt’altra strada. Per lui il dialogo fra Gesù e i discepoli circa lo scopo delle parabole è una pura invenzione degli Evangelisti i quali, per trovare una spiegazione all’ostinazione dei Giudei nel respingere la predicazione di Gesù, attribuirono alle sue parabole il preciso scopo di accecare e di confondere e perciò inventarono il dialogo presentandolo come dichiarazione di Gesù. Il vero motivo di questa ipotesi è di trovare un pretesto di rincalzo per permettersi di scomporre e anatomizzare le parabole di Gesù secondo teorie preconcette, come già dicemmo (§ 360, nota seconda); e fin qui nulla di strano. Quello invece ch’è strano, e anche irritante, è che lo Jülicher si atteggi ad avvocato e a difensore di Gesù, dicendo che con ciò egli vuol conservare all’imperitura corona di Gesù il diamante più bello, che sarebbe l’intenzione di illuminare e non di accecare mediante le parabole (Gleichnisreden, I, pag. 148). Se si pensa che queste parole sono pronunziate da un critico radicalissimo, demolitore sistematico della tradizionale figura di Gesù, esse fanno l’impressione di una vera beffa ; preoccuparsi del diamante più bello, dopo che si è gettata via la corona e anche tagliata la testa al proprio eroe, non è cosa seria né di buon gusto.].

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.