Comunicato numero 212. Perché dobbiamo soffrire? Perché il dolore?Stimati Associati e gentili Sostenitori, in questo lungo comunicato affronteremo i seguenti argomenti: — 1. Non si muove foglia, che Dio non voglia. — 2. Il dolore, compagno assiduo dell’uomo. — 3. Perché soffrire? Mistero! — 4. Vani conforti umani. — 5. Dio è saggio, buono e giusto. — 6. Quanta forza di espiazione! — 7. Fucina delle virtù evangeliche. — 8. Uno strappo all’incanto del mondo. — 9. Gesù, l’uomo dei dolori. — 10. La corona della vita eterna. La nostra principale fonte sarà, come di consueto, un ottimo opuscolo apologetico dell’estinta collana S.O.S.: «Il dolore», del P. Antonio Oldrà, Serie 1, n° 10, imprimatur 1942. Preghiamo per le anime di questi dimenticati autori, molti dei quali si distinsero per la loro risoluta lotta al modernismo: «Sintesi di tutte le eresie».

• Quanti pagani tra i cristiani! Quanti atei e naturalisti, non in teoria, ma in pratica, quando si tratta del come giudicare o agire, di fronte agli avvenimenti che ci circondano! I più infatti delle persone del mondo, anche nominalmente cristiane, giudicano e vedono, approvano o condannano, prescindendo da Dio e dalla Sua Provvidenza, e non vedono negli avvenimenti (passati, presenti o futuri), se non le cause seconde o create, il gioco del caso, la buona o la cattiva fortuna, la malizia o la bontà degli uomini. Di qui infiniti errori, seguiti quasi sempre da altrettante colpe; innumerevoli illusioni, anche queste seguite sovente da un ugual numero di delusioni; di qui sogni fantastici, pieni di pericoli e di amarezze, provvedimenti imprudenti, sofferenze irragionevoli. Difetti tanto frequenti quanto deplorevoli, i quali hanno origine dalla mancanza di spirito di fede; difetti che perciò scompaiono e si correggono col dolce e rassicurante dogma cristiano della Divina Provvidenza, messoci dinanzi dalla santa fede, secondo il quale «non muove foglia, che Dio non voglia», come ben dice un proverbio nostro, eminentemente cristiano, sia che si tratti dell’ordine fisico e naturale, sia ancora che entrino in gioco le passioni degli uomini, la loro malizia, la loro bontà od ignoranza. Giacché, tanto sopra gli elementi e le forze della materia bruta, come sopra le volontà degli uomini, si sovrappone sempre l’azione di Dio, come causa prima e suprema, che, senza violentare le cause seconde e senza cambiarne la natura, tutto guida, tutto muove ed indirizza a un disegno paterno di sapienza e d’amore, di gloria Sua e di bene nostro, come ha diretto un giorno l’odio dei nemici di Cristo, la viltà di Pilato, la congiura dei Farisei, il tradimento di Giuda — tutte cause umane, libere e anche malvage — al compimento della grande opera della redenzione del genere umano, già voluta da Dio e decretata fin dal principio del mondo. Se noi non dimentichiamo questa consolante, e solenne verità, dell’intervento di Dio buono e sapiente in tutti gli avvenimenti umani, grandi e piccoli, se noi non dimentichiamo quello che la fede ci insegna, che nulla avviene, sia nel mondo in generale, sia ad un uomo in particolare, senza o l’ordine positivo o almeno la permissione del Signore, e sempre per un fine di bene, noi non saremo più tentati, come troppe volte ci è accaduto in passato, di avventarci, come fa il cane contro la pietra che lo ha colpito, senza pensare alla mano che l’ha lanciata; noi non saremo più tentati di credere ciecamente al mondo ed ai ciarlieri suoi portavoce, che tutto e sempre vedono e giudicano dai tetti in giù, cioè secondo i loro criteri del tutto terreni, d’interesse, di politica, di odii o di simpatie personali. Ma sollevando lo sguardo più in alto, in ogni cosa, anche nei fatti più contrari, sapremo sempre vedere qualche lato buono, almeno nell’ultimo termine, in cui l’avvenimento andrà a risolversi o tardi o tosto, guidato dalla mano di Dio. Sennonché, fra tutti gli avvenimenti ve n’è uno, così brutto ed antipatico, per spiegare il quale con calma e con sapienza, e ancora più per accettarlo virtuosamente, senza subirne troppo le scosse violente e i danni gravissimi, lo spirito di fede è non soltanto necessario, ma assolutamente indispensabile; perché di fronte a questo fatto tutte le altre voci o sono mute, o sono insufficienti, o (peggio ancora) sono cattive consigliere. Questo è l’avvenimento della sofferenza e il fatto del dolore, che tanto spesso ci si presenta dinanzi, come un fato ineluttabile. Guai a noi, se in questo incontro non ci assiste lo spirito di fede! Allora sono ruggiti di rabbia e di ribellione, che vomita il cuore, insorgendo contro il nemico; o, se glie ne manca la forza, sono progetti folli e disperati contro noi stessi, per sfuggire con una morte violenta all’assalto del dolore. Due follie e due colpe enormi, a cui ci provoca l’avvenimento del dolore, se lo spirito di fede non ci illumina colla sua luce, se Dio non ci fortifica colla Sua grazia. Interroghiamo dunque questo prezioso ausiliare e preghiamolo a prestarci la Sua efficace assistenza, la sua difesa, il Suo conforto, di fronte all’ineluttabile e terribile conflitto col dolore, pel quale riesce vana e insufficiente ogni altra forza o luce di natura e di umanità.

• Chi di noi non ha assistito, almeno qualche volta, allo spettacolo di un grande dolore? Quei genitori erano attorniati da una bella corona di figliuoletti, che formavano tutto il loro amore. Ed ecco, in capo a poco tempo, il vuoto desolante intorno a quella tavola, divenuta muta e silenziosa. Quella madre aveva un tesoro di figlio già grandicello, che era tutto il suo orgoglio e tutta la sua speranza; l’avvenire sembrava impaziente di possederlo, per averne valido appoggio e titolo d’onore. Ma ecco un male subitaneo e misterioso, che in pochi giorni lo rapisce alla madre e alla società. Miratene la salma gelida e scolorata, chiusa in quella angusta bara. Quegli sposi cristiani trovavano nel loro mutuo amore la più dolce ed insieme la più buona esistenza. Ma ahimè! il fiore della loro unione appena sbocciato è stato svelto violentemente dalla morte, e del sogno ridente di tanta felicità non rimane più che una povera, vedova, che piange sopra una tomba. E così per infiniti altri casi, che si riproducono ogni giorno in questa valle di lagrime. Quanti rosei disegni di avvenire spezzati in un colpo da una disgrazia inaspettata! Quante esistenze segretamente torturate per insuccessi, per sventure, per dispiaceri intimi di famiglia! Quanti cuori straziati, quanti martirii occulti per dolori e pene, che nessuno saprà mai ! Talora la sventura diventa veramente implacabile. Come una fiera furibonda, entra in una famiglia, graffia, uccide, devasta, semina lo sterminio, l’infermità, la morte, la miseria in ogni angolo di quella povera casa. Ecco là le sue vittime, in quella stanza, vicine a quel capezzale funebre, davanti al crollo ed alla rovina di tutta la famiglia. Esse sono immobili, pallide, meste, senza parola, come schiacciate sotto un peso opprimente, simili (direbbe il Salmista) a un ferito disteso in un sepolcro. Ma ciò che aggrava enormemente questo spettro del dolore, è che esso non è un avvenimento eccezionale e raro nell’umana famiglia, che colpisce solo di tempo in tempo, e solo alcuni pochi disgraziati, presi specialmente di mira dalle sue frecce acuminate e velenose. Se il suo furore non ascende sempre al colmo, sì può però dire con ogni verità, che la sua presenza è la regola ordinaria della vita umana, o prima o poi, in maggiore o minore misura. Non sono parecchi o più uomini, non è la schiera di alcuni colpevoli e indegni che ne è colpita; ma è l’umanità intera, che è condannata a questa legge fatale, da tanti secoli quanti ne conta di vita; è la umanità intera, che copre coi suoi resti sanguinosi il suolo, che è costretta a traversare. Ora qual effetto questo terribile avvenimento produce sul cuore e sulla  vita morale dell’uomo, se egli non è illuminato e sostenuto dalla fede? Quale è l’atteggiamento, che l’uomo prende di fronte a questo crudele visitatore e compagno della vita, se la luce dei principii cristiani non viene a guidarlo e ad appoggiarlo a tempo? Ahimè ! Tutti lo vediamo. L’uomo, che col suo genio ha domato la natura, l’uomo, che ogni giorno le strappa dal seno qualche nuovo segreto, l’uomo, che incatena, la folgore e percorre i cieli sulle ali gigantesche dei suoi velivoli, non sa poi sottrarsi alle strette del dolore che lo colpisce, lo afferra, lo lega come uno schiavo, lo trascina seco e lo sbatte al suolo, come un giocattolo. Egli, che può tutto in ogni altro campo, egli, che si crede invincibile davanti a qualunque altro ostacolo o nemico, è poi del tutto impotente in faccia a questo avversario, il dolore, che, quando è suonata la sua ora, come una valanga impetuosa ed irrefrenabile, lo travolge, lo schianta, lo precipita nei suoi abissi.

• E gli abissi, in cui il dolore travolge l’uomo, se non lo salva la fede, sono ordinariamente, o la furente ribellione contro il fato avverso, o la disperazione altrettanto furibonda, per sottrarsi ai suoi assalti. Così il dolore, dopo aver seminato nel cuore dell’uomo l’agitazione, l’oscurità, la mestizia, la debolezza, alla fine con un colpo mortale l’uccide moralmente, in un parossismo di rabbiosa pazzia. Egli infatti — contro quanto affermano i liberi pensatori e gli uomini senza fede — sente benissimo, che il dolore non è, per legge di natura, un debito necessario dell’esistenza, né un effetto, che esca fatalmente dalla nostra stessa natura, come un frutto del suo germe. Egli sente, che esso non è che un male contro natura, un ospite intruso ed ingrato della terra, un forestiero sinistro e malaugurato, un cancro doloroso, introdotto sull’albero dell’umana famiglia da qualche suo nemico giurato. No, grida egli, io non sono nato per soffrire, ma per godere. Tutto me lo dice in me. Me lo dice, in modo infallibile, l’aspirazione più irrefrenabile e profonda del mio essere verso la felicità. Me lo dice l’orrore istintivo, anch’esso invincibile, di tutta la mia natura per la sofferenza e il dolore. Perché dunque debbo io soffrire? Chi mi insegna, chi mi aiuta a liberarmi dalle strette di questo ingiusto assalitore? Ed allora escogita tutti i mezzi più ingegnosi, invoca tutti i sistemi più arditi inventati dagli uomini, compie gli sforzi più disperati per riuscire nel suo intento — tanto ragionevole del resto, tanto umano e naturale! — di uscire dal dolore, o almeno di renderne più rari gli assalti e di mitigarne le ferite. Ma tutto è vano, se voi non credete in Dio. Se voi non sapete, che noi siamo creati per Lui e siamo qui in via per raggiungerLo; se voi guardate questo vasto mondo come un campo chiuso ove lottano forze fatali, oh! Allora il dolore non ha più alcun senso per voi. Nel vostro scoramento, nello strazio della vostra anima, che volete che vi dica? Non vi resta che soffrire in silenzio il vostro dolore, senza importunare coi vostri lamenti un cielo vuoto e persone che non possono nulla per voi. Chè tale è appunto la punizione di chi vive senza Dio: soffrire senza conforto. Il dolore, finché non si assurge a principii più alti, quali sono quelli della fede, rimane un fato tanto misterioso e inesplicato, quanto inevitabile. Esso è un carnefice che ci strazia, ci fa gemere e piangere, ma non ci fa dire il segreto delle lacrime che ci strappa dagli occhi; non sa destare coi nostri gemiti una voce liberatrice. Come il naufrago, abbandonato in un’isola deserta, in mezzo all’immensità dell’oceano, getta invano su quelle profondità silenziose il suo sguardo disperato, senza nulla vedere attorno a sé che acqua e cielo; così l’uomo interroga invano la notte cupa e senza stelle del suo dolore, e nel gran vuoto implora soccorso con grida disperate, che non hanno né eco, né risposta. Tutto è buio, tutto è silenzioso intorno a lui.

• No, io m’inganno. Egli sente di tempo in tempo, da punti diversi dello spazio, suoni deboli, incerti, simili ai balbettamenti di un bambino. Sono i timidi tentativi della sapienza umana per spiegare questo triste fatto del dolore, e per aiutare l’uomo a liberarsene. Egli tende l’orecchio; ma, o nulla comprende di tali voci, fuorché rumori vani di parole inconcludenti, o non sente che delle follie, fatte solo per inasprire le sue piaghe e peggiorare il suo stato dolorante. Nulla che lo illumini, che lo sollevi almeno e lo conforti, come un opportuno calmante, se proprio non è possibile ottenere la completa liberazione. Chi gli dice coi Manichei, che è una divinità crudele, il principio sussistente del male, che lo fa soffrire così, perché questo è il suo piacere, torturare gli uomini. Ed ecco: la bestemmia e l’imprecazione spuntare sul suo labbro, contro questo preteso barbaro dio del male. Chi gli sussurra all’orecchio che si dia pace, e si adagi al suo destino, né cerchi nemmeno di liberarsi e sollevarsi dal dolore; perché tutto è frutto del caso nel mondo, tutti siamo lo zimbello d’una fatalità cieca. Ed ecco il baratro della disperazione affacciarsi al suo sguardo, ed invitarlo a lanciarsi dentro. Altri per sollevarlo dalle sue pene, lo vuol “far ragionare”, e pretende di fargli credere che il dolore non esiste, non è una realtà, ma una parola per il vero sapiente e filosofo. Ed allora egli si adira, contro il sarcasmo beffardo dello stoico, che alle sue sofferenze aggiunge ancora il disprezzo, trattandolo da pazzo o allucinato. Altri ancora lo consigliano a vendicarsi del suo crudele destino, gettandosi a capofitto e a corpo perduto nel fango dei godimenti materiali, per ubriacarsi e dimenticare così se stesso e la sua triste sorte. Sennonché, sia che egli segua stoltamente il bestiale consiglio, sia che non lo possa seguire per i suoi stessi mali, egli diventa ancora più infelice, sentendo il vuoto, la nausea, la sazietà, ed anche la vergogna, che sogliono lasciare siffatti piaceri, dopo che sono passati (e passano tanto presto!); e se è cristiano, diventa infelice anche perché prevede con sicurezza un non lontano domani d’oltre tomba, nel quale egli dovrà rendere conto e del suo stesso dolore e della sua pazza gioia. E freme e si adira, e si strugge nella sua impotenza, unita all’assenza di ogni vero conforto. Finalmente, egli sente ancora una voce dolce e mite, che cerca di consolarlo nelle sue afflizioni. È una visita di condoglianza. E come rifiutare tali visite di umanità? Come non essere commossi da tanta gentilezza? Ma che audacia è mai la vostra, o mondani visitatori non cercati, di osare provarvi a compiere l’ufficio di consolatori — nei grandi dolori della vita specialmente — senza l’aiuto della religione, senza un principio di fede? Che altro potete dire a chi soffre, se non delle formule convenzionali, delle banalità sonore (come i miasmi che abitualmente escono dalla bocca dei modernisti, ndr.), delle frasi frivole e delle vere scempiaggini da far pietà e muovere la nausea di chi vi ascolta? Ah! tacete, tacete, consolatori onerosi ed importuni. Abbiate il pudore del silenzio; rispettata il carattere sacro del dolore; non provocate all’impazienza i poveri sofferenti ed i loro testimoni; non aggravate, colla vostra compassione da teatro, la pena di chi soffre. Che cosa può fare o dire, per consolare un afflitto, chi non crede a Dio, a Gesù Cristo, a una vita futura? Potrà prendere parte al suo dolore e mostrarglielo colle parole e colle lagrime. È certamente un conforto questo per chi soffre, il vedere che altri si rattristano, soffrono e piangono con lui; è segno che qualcuno gli vuol bene. Ma se questo compatimento dura un poco a lungo, il conforto si cambia in aumento di dolore, perché è cosa penosa il far soffrire altri per cagione nostra. Potrà sollevarlo materialmente dalle sue sofferenze, con qualche farmaco o aiuto esterno? Sì, se si tratta di sofferenze fisiche, e se queste ammettono rimedio. Ma quando il rimedio non esiste? E quando si tratta di sofferenze morali, intime, del cuore, dell’anima? Potrà promettere o fare speranze al sofferente, che il suo male presto o tardi avrà termine? È ben questo il conforto che aspetta chi soffre; e il conforto ha un valore se la speranza è ben fondata, ma se speranza fondata non v’è, se non v’è neppure una lontana probabilità di cessazione del male, e il sofferente lo sa al pari di voi, non gli potrete dire una bugia pietosa per illuderlo vanamente sulla realtà delle sue condizioni. E allora, che rimane per confortare quel meschino? La morfina, se il suo male è un dolore fisico, ed è quella a cui ricorrono i medici. Ma la morfina dell’anima, il calmante del cuore dove esiste, fuori della fede? In conclusione, qual conforto o sollievo può mai trovare l’uomo, in tutte queste voci della sapienza o bontà umana, che risuonano al suo orecchio, quando egli è oppresso dal dolore? Qual effetto producono sul suo cuore? Poiché l’insensibilità artificiale o l’apatia stoica gli è impossibile (essendo un vero assurdo contro natura), da tutte queste voci egli non trae, se non nuova ragione di irritarsi e piangere, di prendersela contro la sua sorte o di abbattersi fino all’avvilimento, di adirarsi contro la Provvidenza, di disperare di se stesso, dell’avvenire, della vita, di Dio, di tutto; fino al momento in cui, perduto ogni ritegno e misura, si abbandona all’impeto della furia ribelle e disperata, e ruggendo, come una fiera ferita, maledice il giorno in cui è nato, impreca alla vita e a chi glie l’ha data, invoca sul suo capo la morte, come la sola liberatrice. E Dio non voglia, che, in un accesso di più grande esasperazione, con un gesto folle, tenti egli stesso di porre violentemente fine ai proprii giorni, per piombarsi così in un altro abisso di mali peggiori e per colmo di sventura eterni ed irrimediabili (l’Inferno).

• Ecco tutto quello che sa produrre la “sapienza” o filantropia umana in colui che soffre (ai nostri giorni basti pensare alla mostruosa misura dell’eutanasia, tanto propagandata da filantropi ed illuminati di ogni sorta, spacciata finanche per «diritto civile», ndr.): dopo la parvenza di un sollievo effimero e passeggero come il lampo, nient’altro che ruggiti di dolore o atti insensati di morte violenta; vale a dire un grave peggioramento del suo male presente e futuro; ma nessun vero conforto, nessuna speranza di liberazione, nessun valore morale di virtù e di merito al dolore. Poiché nulla vale e può la sapienza e la bontà umana davanti al fatto del dolore: venga dunque la religione, venga la fede, entri in questa camera del duolo e del pianto, penetri in questi cuori affranti e morenti, ed io vi prometto, che essa sola ne comprenderà tutta la profonda amarezza ed acerbità, essa sola vi apporterà un poco di verace lenimento e consolazione fin dal presente: mentre saprà offrire il modo di trasformarlo, senza esagerazione, in vero strumento di felicità. Parla dunque, o fede santa, e dì a noi, dì a tutti i sofferenti della terra la tua parola di sollievo, di speranza, di salvezza. Ascoltatela, voi tutti che avete il cuore spezzato e la carne inferma, questa voce soave della fede, che vi dipinge il dolore nella sua divina realtà, bella, feconda, ricca, potente; come un angelo tutelare, come un anello di fidanzamento dell’uomo col Dio umanato. Diamo dunque, dietro il suggerimento della fede, uno sguardo a Dio, un altro al dolore stesso, un terzo al santo Crocifisso, poiché in questi tre “oggetti” si concentra la parola serena, profonda, consolante della fede. Questa è la spiegazione vera e divina del dolore, ed insieme il segreto sicuro per trarne conforto e salute. Dio è provvido, mi ricorda la fede anzitutto; Dio è saggio, buono e giusto; non comunque, ma in misura infinita; senz’ombra, senza vicissitudini o cambiamenti. Dunque tutto ciò  che Egli opera o permette, avviene sotto l’influsso della Sua bontà sovrana. Dunque tutto ciò che accade nel mondo, non è frutto del caso o del disordine: ma un fatto preordinato da Lui con somma sapienza. Dunque tutto ciò che tocca le Sue creature, è l’effetto di una perfetta ed equa sentenza. Orbene, è sotto gli occhi di questo Dio buono, sapiente e giusto, anzi è sulle ginocchia e sul cuore di questo Dio, mio Padre, come vuol essere chiamato, che io soffro, mi agito, tremo e rabbrividisco dal dolore. Sia pure, che io non sappia ancora l’ultimo perché del mio dolore; sia pure, che io non veda ancora chiaro, se il dolore debba essere per me una sterile convulsione o un germe di speranza; che importa ciò? Io so intanto che Dio è buono, giusto, sapiente, e tanto mi basta. Dunque Egli ha un disegno segreto di bene sopra di me, quando mi fa o mi lascia soffrire. Dunque Egli mira, con questa sua Provvidenza afflittiva, ad uno scopo alto, degno della Sua bontà e ordinato alla mia felicità; non ne posso dubitare. Dio onnipotente, che ha organizzato il caos, illuminato i cieli e fecondata la terra; Dio buono, che usa le brine, le nevi e le tempeste a preparare le messi e le raccolte; come non volgerà il Suo occhio pietoso ai solchi scavati nel mio cuore dal dolore? Come non ordinerà tutte le mie sofferenze a un fine misericordioso di mio vero vantaggio e felicità? E se anche, questo fine, io non lo vedo ancora, almeno in forma chiara, precisa e specifica, io però già lo presento, già lo intuisco, con la mia fede incrollabile nella bontà e sapienza di Dio, e lo cerco anche, con la pazienza cristiana, nelle profondità dell’avvenire. La pazienza cristiana! Ecco la parola sublime della fede, ecco il balsamo virtuoso, che la fede sparge sulle nostre ferite, col primo raggio di luce, che fa risplendere nel nostro cuore afflitto e tribolato, ricordandoci la sapienza e bontà di Dio; pazienza, che già rende meno cocente e più sopportabile il dolore e (ciò che più vale) virtuosa e meritoria la nostra sofferenza. La pazienza cristiana! Una seconda effusione di questo dolce e salutare balsamo aggiunge la fede, con un altro benefico raggio di luce, quando, mostrandoci il fatto multiplo e misterioso del dolore, ci fa rilevare i tre grandi valori e beni, che esso racchiude, e che ce lo debbono rendere amabile o almeno tollerabile, dal punto di vista soprannaturale. Essi sono: La forza espiatrice del nostro passato colpevole; La forza educatrice del nostro presente fiacco ed imperfetto; La forza trionfatrice di tutti i nemici e ostacoli futuri.

• Il dolore, che Dio poteva imporci anche nello stato d’innocenza, come un crogiuolo di prova e una fucina di virtù virile e di merito, nello stato attuale di decadenza è invece una vera punizione e una conseguenza del peccato, almeno nella sua prima introduzione sulla terra. Noi lo sentiamo nell’intimo della nostra coscienza, e, in certi momenti di sincerità, anche lo confessiamo. Noi sappiamo e sentiamo anche troppo, che una rivoluzione violenta è passata sull’anima nostra e vi ha portato la devastazione, insozzando, rovesciando quanto vi era di bello, di puro, di grande. Noi sentiamo e sappiamo, per esperienza tutti gli effetti dolorosi e miserevoli, che la fiamma devastatrice del peccato ha lasciato nell’interno del nostro essere le tenebre dell’intelligenza, l’impurità della carne, la debolezza della volontà, la malizia del cuore, la difficoltà del male, e sopratutto quell’enorme debito di colpa e di pena, che abbiamo verso di Dio, e che ci tiene lontani da Lui, finché non sia interamente estinto, e ci rende immeritevoli della Sua affettuosa benevolenza paterna. Ebbene il peccato, che è penetrato nella nostra natura, come una macchia di famiglia, il peccato, che noi stessi troppo sovente commettiamo, imbrattandoci l’anima di una macchia e colpa del tutto personale, porta con sé il dolore, come conseguenza necessaria. È legge terribile, implacabile, ma universale, giusta e santa, voluta dalla coscienza umana, come dalla giustizia divina, e professata in tutti i secoli da tutto il genere umano. Noi dunque soffriamo, perché abbiamo peccato. Noi soffriamo, perché abbiamo bisogno e dovere di espiare. Non è forse questa la meravigliosa potenza del dolore rispetto al peccato, l’espiazione? (È naturale, anche per il mondo profano, che il colpevole sia punito dal giudice, ndr.). Ora, poiché non v’è nessuno, che non abbia peccato, in misura più o meno grave, tutti dobbiamo fare buon viso al dolore, divenuto lo strumento fortunato della nostra riabilitazione morale. Se è duro il soffrire, è però dolce e consolante il compiere, con la sofferenza, la più essenziale e importante delle opere buone, la riparazione in noi stessi delle rovine accumulate dal peccato; poiché la prima proprietà della sofferenza, la sua capacità intrinseca ed essenziale è appunto quella di riparare la colpa, di allontanare i fulmini della giustizia divina, di riconciliarci con Dio. Oh quale forza pacificatrice esercita il dolore sul cuore di Dio! Quando noi, novelli prodighi, estenuati dalla sofferenza, curvi sotto il peso delle disgrazie, reduci dalla regione lontana dei nostri traviamenti, con lo sguardo a terra per la vergogna, ci presentiamo a Lui, Dio non sa resistere allo spettacolo del nostro dolore. Intenerito e commosso ci riapre le Sue braccia, e stringendoci al petto, depone il bacio di riconciliazione sulla nostra fronte, che cessa per Lui di essere colpevole, perché è disgraziata. Sì, il dolore intenerisce il cuore di Dio, lo muove a compassione del nostro misero stato; e la compassione la vince sull’indignazione provocata dal nostro peccato; ne disarma la giustizia, e ne ferma la vendetta punitiva. Siamo stati cattivi con Dio. Ma ora siamo infermi, feriti, disgraziati, piangenti; e tanto basta al cuore del nostro Padre, per perdonarci e amarci nuovamente. Lo abbiamo offeso in mille modi, abbiamo cercato il nostro piacere, disprezzando il Suo onore e calpestando i Suoi precetti. Ma ora eccoci abbattuti, schiacciati, umiliati dal dolore. Tanto basta. Siamo divenuti espiatori e supplichevoli al cospetto di Dio, e Dio, commosso sul nostro stato, si riconcilia con noi, riammettendoci nella Sua amicizia. (Obiezione: ma che colpa attuale ha quel bambino morto per disgrazia? Quel bambino, morto innocente e nell’età dell’innocenza, è salvo per l’eternità. Se battezzato, è in Paradiso dove prega per i suoi genitori. Se non battezzato, è al Libo dove in eterno gode di una felicità naturale, ndr.). Vi è forse una potenza più irresistibile per la nostra riconciliazione con Dio, che le- lacrime e i dolori, tollerati con cristiana pazienza, in ispirito di espiazione? Vi è forse una voce più potente che il dolore, per richiamarci al dovere abbandonato? Per farci rientrare in noi stessi, e sentire tutto insieme vergogna e pentimento dei nostri disordini? Beato colui che ascolta questa voce amica, benché rude e aspra, del dolore, e nella confessione lacrimosa dei proprii falli, si lascia dal dolore espiatore ricondurre tra le braccia di Dio placato! O felice vittima del dolore! Il suo nero passato vien cancellato e comincia per lui un’esistenza nuova, pura e immacolata; e tutto questo in virtù del dolore, il quale, come viene oscurato nella sua origine dalle tinte nere del peccato, così, per una felice antitesi, si illumina nei suoi effetti coi riflessi chiari della riparazione. E per contrario infelice l’anima colpevole ed impenitente, che è risparmiata dal dolore, e in mezzo ai suoi disordini, cammina balda e sorridente, sotto un cielo sempre sereno e senza nubi, quasi sfidando la giustizia e la longanimità di Dio! Spaventosa felicità che fa tremare, se si pensa al domani della vita terrena! Poiché infine Deus non irridetur, Dio non lo si burla impunemente. E la pena, che viene differita, non sarà che più grave e più intensa, dovendo riparare a rigore di giustizia ciò che non è riparato prima coll’espiazione volontaria del dolore ben sopportato. No, non vi è al mondo un amico più prezioso e benefico per l’uomo, che il dolore. Perché dunque noi tanto lo abbiamo in odio e lo fuggiamo a tutto potere, come il peggiore dei nemici? Perché non ci assiste lo spirito di fede, ma sempre e solo seguiamo la voce della povera natura (e degli stolti consiglieri del mondo, ndr.). Portiamo rimedio al nostro errore; ascoltiamo il consiglio della fede; riconciliamoci col dolore, per poter riconciliarci con Dio.

• Riconciliamoci col dolore, ora soggiungo, per poter compiere ogni giorno la nostra formazione cristiana. Giacché, senza il dolore, praticamente essa è un’impresa quasi impossibile; o almeno, nessun altro mezzo, meglio e più presto che il dolore, la può compiere. La nostra formazione cristiana infatti consiste essenzialmente nel vivere, quanto più si può, uniti a Dio, nella Sua, grazia e nell’attuale amore, superando o infrangendo gli ostacoli, che si frappongono a questa unione con Dio, vale a dire la congenita mollezza e tendenza alla mondanità; l’amore, anch’esso innato, al godimento; e l’attacco alla terra ed alla vita presente. Ebbene, ci dice la fede, senza lo stimolo del dolore, tu, per quanto fatto da Dio e per Dio, troppo facilmente ti distacchi da Lui e Lo abbandoni per tua rovina; perché, o la mollezza e la mondanità ti avvincono a sé e ti distraggono dal grande ideale; o l’amore al godimento ti tarpa le ali e ti rende materiale, egoista, pigro, inerte; o l’attacco alla vita presente spegne in te tutte le vedute alte della virtù e dell’avvenire celeste. Immerso in una grossolana ignoranza o in un disastroso oblio, tu vivi col pensiero lontano da Dio, tutto ingolfato nella cura di te stesso e di mille altre faccenduole ed inezie che ti assorbono. Ed ecco, che Dio chiama in Suo aiuto il dolore, per scuoterti dal tuo letargo spirituale. E questo, con le sue scosse salutari, mette in fuga o fa tacere tutte le voci estranee e aliene da Dio, ristabilisce nell’anima un certo silenzio sacro, una specie di solitudine claustrale, e apre la porta dell’anima al Signore perché incominci l’opera della tua trasformazione interiore. Intanto apre anche l’orecchio dell’anima alla voce di Dio, affinché tu non faccia il sordo alla divina chiamata e comprenda davvero la preziosità della Sua grazia, le delizie della Sua conversazione, il bene immenso di vivere in unione intima col Signore. Il prodigo del Vangelo, finché nuotava nell’abbondanza, finché tutto andava prosperamente per lui, dimentico completamente di suo padre e della casa paterna, non pensava che a stravizi, a bagordi, a donne, a compagni di disordine, e a godere allegramente la vita. Ma quando si è visto piombato nella miseria e abbandonato da tutti, allora finalmente si è destato dalla cieca ubriacatura del piacere, ha aperto gli occhi, è rientrato in se stesso, in se reversus, e si è ricordato di avere ancora un padre, una famiglia, una casa sempre aperta, ed ha fatto la risoluzione del ritorno: Ibo ad patrem. Oh quanti altri prodighi vanno debitori alle disgrazie, dalle quali furono colpiti a tempo, se hanno avuto la somma ventura di tornare a Dio e alla via del bene, male abbandonato nel tempo della prosperità! Vexatio dat intellectum. Tale è la missione che Dio affida ai grandi e piccoli dolori della vita, di ricondurre a Lui i miseri traviati. Così è compiuto il primo passo nell’educazione spirituale del nostro cuore. Ma purtroppo quest’opera di Dio trova contro di sé l’ostacolo dell’enorme debolezza della nostra volontà e la viltà del nostro animo, che mandano a vuoto le Sue pressanti esortazioni e sante ispirazioni, e rendono vane le Sue grazie più forti e più grandi. Allora che fa Dio, per temprare la nostra anima a generosità e fortezza? Per dare consistenza e vigore alla nostra fiacca volontà? Chiama un’altra volta in Suo aiuto il dolore. Questo viene prontamente e comincia il suo lavoro: ci lima, ci pialla, ci stropiccia, ci punge. Per tal modo Dio ci mette (talora un po’ per forza e a nostro dispetto, ma sempre per nostro bene) nel noviziato o nella prima scuola della virtù, e, non dando retta ai nostri strilli puerili di impazienza, ci tiene ben fissi in quel crogiuolo acceso, dal quale uscirà, radioso e puro, l’oro delle virtù della fortezza, dell’umiltà, della generosità, della pazienza cristiana. Il dolore allora, divenuto stimolo al bene, aprirà alla calda preghiera le nostre labbra, finora mute, pigre e silenziose; il dolore raffermerà e renderà invincibile il nostro cuore nei combattimenti contro le passioni; il dolore abituerà la nostra volontà alla costanza nel bene ed alla tolleranza coraggiosa e nobile del male. Senza il pungiglione del dolore, noi saremmo sempre rimasti dei fanciulli capricciosi ed indolenti; laddove, grazie ad esso, siamo diventati uomini seri, volenterosi e forti, prodi soldati del dovere; ci siamo allenati alla fatica, alla virtù rude e senza compenso umano; abbiamo acquistato qualche cosa di robusto e di resistente, che prima non avevamo, quella forza magnanima, senza di cui è vano pensare all’acquisto delle virtù cristiane (almeno ordinariamente, ndr.). Siamo dunque grati al dolore di questo prezioso servizio, che ci ha reso in nome di Dio, per la nostra santificazione.

• E siamogli pur grati, come ci esorta la fede, perché esso solo è quello, che, con le sue angosce, con le sue lacerazioni e coi suoi strazi di cuore, con le sue delusioni dolorose, ci strappa a viva forza da quel letto di rose e di comodità, ove ci  tiene legati l’amore del dolce vivere e del godimento e l’egoismo inerte della nostra anima, indolente e sensuale; ci strappa a viva forza dalla contemplazione, dall’incanto affascinante, che esercita sulla nostra anima debole il miraggio dei fiori della terra, e la scena variopinta del mondo, con le sue musiche, serate, gale e passatempi, più o meno vani e pericolosi. «Che ti stai trastullando così, come un fanciullino, con balocchi o giocattoli indegni di te e del tuo alto destino?», ci dice al cuore il Signore, tanto ostinato a salvarci, quanto noi lo siamo a perderci. Ma a che serve la Sua voce, finché dura in noi l’incanto della terra? Essa va perduta negli spazi, soffocata e coperta dal frastuono di altre voci più potenti e vicine, senza che noi neppur l’avvertiamo. E allora per rendere più efficace il Suo rimprovero paterno, che fa Egli per il nostro bene? Invoca di nuovo la spada rozza del Suo ausiliare, il dolore, e gli ordina di spazzare via tutti quel fiori incantatori, di farli impallidire, spegnendo per poco il sole che dà loro quelle tinte vaghe e seducenti, di devastare, a colpi di folgore, il campo perfido, ove essi germogliano. Ed ecco, sotto la spada di questo barbaro servo del grande Padrone dell’universo, scomparire davanti al nostro sguardo l’incanto della terra e distendersi un velo di tristezza sulla nostra esistenza; ecco la nostra dimora terrestre diventare solitudine, il nostro cuore un Calvario. Deh! Non vi lagnate! Non accusate Dio, non maledite la Provvidenza! Ringraziate il dolore. Solamente ora, voi comprendete la vanità e la caducità dei beni della terra; solamente ora, voi vi convincerete che non è sulla terra la vostra felicità, ma altrove; solamente ora, grazie al dolore, come già il prodigo divenuto affamato, voi vi ricordate della casa paterna del Cielo, che vi attende tra poco e per la quale siete fatto; solamente ora voi pensate ai beni superiori e imperituri dello spirito, che sono la virtù, il distacco, il sacrificio, le opere sante, e fra le altre, la più santa di tutte, la pazienza cristiana. Ringraziate dunque il dolore, che vi ha rimesso in senno e sulla via della felicità eterna, mentre stavate correndo allegramente per la strada larga della perdizione. Ecco i beni inestimabili, i valori sommi del dolore, svelatici dalla fede, per riconciliarci con Lui, e farcelo accettare con dolce rassegnazione, se non con gioia ed amore.

• Ancora uno sguardo (ci dice la fede, per completare le sue rivelazioni sui vantaggi del dolore), ancora uno sguardo al S. Crocifisso. Miralo, o uomo - Egli è il tuo Dio, ma è pure l’uomo dei dolori, il quale essendosi messo davanti agli occhi il gaudio, sostenne la Croce, non tenendo conto dell’ignominia. È il tuo Dio, che si è fatto l’Uomo dei dolori, per fare del dolore il centro della salute, il perno della Redenzione, la consumazione della santità, il tributo più ricco della Sua gloria, il diamante più scintillante della Sua corona. Egli, il Dio della beatitudine, finché dimorava nel seno glorioso del Padre, non conosceva, né poteva conoscere per esperienza personale il gusto amaro del dolore. Appena ebbe toccata coi suoi pedi questa terra di lagrime, Gesù si assise alla scuola del dolore, né più interruppe o sospese per un’ora sola le sue spaventose lezioni, finché non fu certo che Egli aveva gustato tutte le amarezze, che possono tormentare i figli di Adamo; Tota vita Christi crux fuit et martyrium (De Imit. II, 12). Allora, ma solamente allora, Egli pronunciò compiuto il Suo mandato e ottenuto il fine della Sua missione: Consummatum est! Io non ho più nulla da fare in questo mondo, ora che sono divenuto il vero uomo dei dolori, ora che possiedo tutta la scienza delle infermità umane. Oh partite pure, Salvatore divino, da questa terra, ora che vi siete satollato al banchetto della sofferenza e inebriato della voluttà del dolore. Ora potete morire, quando vi piaccia, poiché il calice dell’amarezza l’avete bevuto fino all’ultima goccia. Ed Egli infatti abbassò il capo e spirò, misurando la durata della Sua vita mortale con la pienezza delle Sue sofferenze. Ma fu appunto con la catena dei suoi dolori, che Cristo svincolò l’umanità dai ceppi della sua schiavitù, e con l’eroismo del Suo sanguinoso sacrificio, che diede al Padre la più grande gloria che potesse mai ricevere. Mai Dio fu più adorato, obbedito, servito , e glorificato, mai più fortemente fu proclamato grande, giusto, santo, terribile, come dall’Uomo dei dolori. Mai Cristo stesso fu più vittorioso e trionfante del mondo e dell’Inferno, che per mezzo del Suo supplizio, quando appunto divenne in realtà l’Uomo dei dolori. La Croce è diventata il Suo trono di Re, dopo essere stata il Suo altare di Pontefice. Il Sangue, onde era coperto, è divenuto la Sua porpora regale, e di lassù Egli proclama con eloquenza invincibile la virtù, il valore, la forza del dolore; di quel dolore, che Egli ha fatto Suo, ed ha (per così dire) divinizzato, rendendolo strumento del nostro riscatto, e l’oggetto delle nostre adorazioni, con la Croce benedetta, che ci ha salvati. Ora Cristo è il nostro capostipite, il tipo ed il modello della nuova umanità da Lui redenta. Poiché il mistero dell’Incarnazione consiste appunto in questo, che un Dio ha voluto rassomigliarsi agli uomini, nella loro natura, per imporre agli uomini il dovere di rassomigliarsi a Lui nella santità della vita e sopratutto in ciò che vi è di più sublime e generoso nel campo della virtù, la forza di ben soffrire. Pertanto il destino del dolore, in Lui avveratosi, deve compirsi pure in noi, perché ci vengano applicati i meriti a noi acquistati con le Sue sofferenze. La Croce di Cristo deve diventare nostra, non per forza, ma per libera elezione o almeno accettazione virtuosa; dev’essere da noi amata e sopportata per amore di Cristo e come complemento della Sua Croce. Come Cristo ha salvato il mondo col dolore, così ha disposto di associare ai Suoi dolori tutti quelli, che per Lui si salveranno (La Passione di Cristo è più che completa e sufficiente per la salute del mondo: non le manca altro, affinché produca il suo effetto, se non che i Suoi seguaci sappiano soffrire anch’essi a Sua imitazione e portare bene la propria croce. Così si compie la Passione di Cristo, che soffre nei Suoi membri sino alla fine del mondo). E sarà appunto questo, il segno unico di riconoscimento, per appartenere al numero degli eletti, cioè la rassomiglianza con Cristo nella sofferenza virtuosa e paziente dei dolori. Quel che Egli riconosce per Suoi, quelli che ama e stringe a sé e fa riposare sul Suo petto, sono solamente coloro, che Egli vede come Lui colpiti dai flagelli, inchiodati come Lui alla Croce, torturati come Lui sul Calvario, coloro insomma, che il dolore ha fatto Suoi fratelli e compagni. O doloranti pellegrini della terra, ci ripete la fede, guardate ancora una volta il divin Crocifisso, e se mirandolo non avete peranco il coraggio di amare il dolore, pur reso così amabile e caro da Gesù, che lo ha fatto Suo, se non avete ancora la forza di dire con San Paolo, mirando la Croce: «Io sovrabbondo di gaudio in ogni nostra tribolazione», ovvero ancora: «Io non so gloriarmi, se non nella Croce del Signor Nostro Gesù Cristo», abbiate almeno il buon senso di accettare il dolore con umiltà, e di sopportarlo con rassegnazione e pazienza, per tutti i beni immensi, di cui è apportatore alle anime vostre: Primo, perché mandatovi da Dio buono, per un fine santo di vostro bene. Secondo, perché è il principale mezzo di espiazione del vostro passato colpevole. Terzo, perché è il principale strumento della vostra virtù e perfezione morale. Quarto, perché è stretto obbligo di ogni cristiano di imitare Cristo in tutto, e battere le sue orme fin sul Calvario, essendo Egli il modello unico ed universale di tutti gli uomini. Quinto finalmente, perché il dolore è il più sicuro ed efficace tramite per giungere alla vita eterna. Commenta Sant’Agostino le parole di San Paolo: «Avrebbe potuto l’Apostolo gloriarsi della sapienza di Cristo, della sua maestà e potenza e ne avrebbe avuto ogni ragione; ma egli disse: Mi glorio solo della Croce di Cristo. Dove il filosofo mondano trovò la vergogna, ivi l’Apostolo trovò il suo tesoro (...)».

• Per giungere alla vita eterna ! Ecco l’ultimo conforto, che apporta la fede a chi soffre, mostrandogli ancora il divin Crocifisso. Poiché, se ci fosse stato qualche cosa di meglio e di più utile alla salvezza degli uomini, che il patire, Gesù Cristo ce l’avrebbe fatto conoscere con la parola e con l’esempio. Ma ecco che la medesima tragedia del Calvario, mentre ci incoraggia alla forza del patire, sull’esempio del Martire divino, ci allarga pure il cuore alla più dolce speranza, ricordandoci il trionfo della vicina risurrezione. Infatti, se Gesù in croce muore coperto di piaghe e affogato nel mare del dolore e dell’ignominia, tutto questo dramma di sangue e di disonore anche per l’uomo Dio ha avuto un termine, e in un secondo tempo è stato seguito da un trionfo di gioia, di gloria, di felicità. Non più che tre giorni dopo, tutto fu cambiato per Gesù, e l’Uomo dei dolori, com’è stato il nostro capostipite e modello nel patire, ora è divenuto il nostro esemplare nella felicità della Risurrezione e nella Vita della gloria. Tutto troviamo in Lui, attraverso la fede. Vi troviamo prima la tolleranza eroica del dolore sulla Sua grande Croce, per puro amore dell’umanità; tolleranza che ci domanda il ricambio dell’amore paziente nelle nostre piccole o grandi croci di tutti i giorni. Ma vi troviamo pure il passaggio, non lontano dalla tragedia, al gaudio: dalla croce al tripudio eterno. Anche di questo consolante passaggio Egli è il modello a tutti gli eletti, che per molte tribolazioni debbono entrare nel regno di Dio (Act. XIV, 22). E di questo passaggio Egli ha voluto darci una consolantissima prova di fatto, sul Calvario stesso, prima di spirare sul patibolo. Poco prima di spirare infatti, dal Trono insanguinato della Croce Gesù Cristo ha rivolto una promessa di felicità eterna all’infelice giustiziato, che agonizzava al Suo fianco, e lo ha rinfrancato a sopportare da forte sino alla fine il suo atroce supplizio, col pensiero del Paradiso, che Egli gli prometteva per quel medesimo giorno, sul Suo onore di Dio, sulla Sua parola di Redentore: «Amen dico tibi, hodie mecum eris in paradiso» (Luc. XXIII, 43). Così il Calvario ci trasporta con lo sguardo al cielo, per dirci ancora una volta, quando il peso del dolore sembra opprimerci e schiaccarci, e noi ci sentiamo cadere di animo : Coraggio e pazienza! Pazienza ancora per poco; il giorno della liberazione è vicino. Il vostro patire, se tollerato virtuosamente (con preghiera, Sacramenti, etc...), tra non molto si cangerà nella gloria del cielo. Oggi, ossia fra breve, forse domani, tra poche ore, riceverete il premio dei vostri dolori: Hodie mecum eris in paradiso. Oh la dolce speranza! Oh parola confortante e suggestiva per le nostre povere anime affrante dal dolore! La momentanea e leggera tribolazione nostra produce in noi uno smisurato peso di gloria, che supera ogni immaginazione (II Cor. IV, 17). Sì, è lassù nell’alto dei cieli, che dobbiamo fissare l’occhio, per trovare un po’ di riposo, quando la terra ci appare troppo brutta. Lassù, al possesso beatifico di Dio, dobbiamo mirare ed aspirare con tutto l’ardore, per animarci a compiere il dovere faticoso di portare la croce, quando questa ci pare divenuta troppo pesante e oramai intollerabile. La luce della seconda vita, intravista fin d’ora con l’occhio dalla fede, compenserà le tenebre  in cui è avvolta l’ora oscura del dolore, e non ci lascerà smarrire il sentiero scosceso, che a quella mèta ne conduce. L’eterna pace di quel beato soggiorno, già pregustata fin d’ora sulle ali della speranza, ci farà sembrare leggera, in confronto del premio, la fatica della lotta e finanche dolce il sacrificio della vita.  Ecco il conforto ultimo, che ci dà la fede mostrandoci il Crocifisso, il conforto cioè della speranza cristiana, che, dopo il Calvario della vita che passa, ci fa contemplare fin dal presente il Tabor della gioia, che non passa più, a somiglianza di quella di Cristo. Spera dunque in Dio, o anima tribolata, e ti basti la Sua grazia, ci dice la fede. La vita talvolta è triste e brutta, è vero; ma passa, come è passata la Passione di Gesù, ben più triste e terribile. Passa la vita con le sue croci e passa presto, perché il tempo non è che un lampo fuggevole in confronto dell’eternità che ci aspetta. Passa la vita coi suoi dolori e finisce, ma finisce bene, come quella di Cristo nella gioia e nella felicità, per chi lo vuole. Coraggio dunque e avanti ancora un poco, finché venga l’ora della liberazione e della piena ricompensa.

• E che cos’è una breve sofferenza per una eternità di gaudio? Che c’importeranno allora le pene, le afflizioni, le tristezze, le miserie della terra? Quanti al presente, per conquistare un bene terreno, una vittoria, una corona, un guadagno, si sacrificano giorno e notte, senza badare a incomodi e pene! E tu, figlio della luce, erede dell’eternità, tu non saprai sopportare le lotte del martirio quotidiano, per conquistare la palma del cristiano vittorioso, che ti farà godere una felicità eterna? Guarda il Sepolcro glorioso di Gesù, e starai da forte con Lui sul tuo Calvario! Guarda il cielo che ti aspetta domani, e saprai tollerare in pace le spine della giornata di oggi che passa! Raccomandiamo instancabilmente la nostra anima alla Vergine Maria ed alle centinaia di migliaia di santi Martiri che hanno patito sofferenze inenarrabili per Nostro Signore Gesù Cristo e per la Sua unica e vera Santa Chiesa. Preghiamo incessantemente con ardimento e fiducia.       

Per Antonio Oldrà e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +

A cura di CdP