Princìpi dottrinari. - La terapia è quella parte della medicina che tratta dei mezzi da impiegarsi per prevenire e vincere le malattie; essa sopra tutto ha guidato costantemente il pensiero medico attraverso i tempi. A seconda degli scopi che si propone, la terapia è stata distinta in profilattica, eziologica e sintomatica; a seconda dei mezzi impiegati si distingue in chirurgica e medica: quest’ultima, a sua volta, ripartita in farmacoterapia, immunoterapia, dieteticoterapia, fisioterapia e psicoterapia. Tramontato il concetto diagnostico e curativo che si basava sull’anatomismo clinico, molto in auge alla fine del secolo scorso, oggi è l’epoca della patologia e della terapia funzionale, giacché la clinica moderna, per merito del neo-ippocratismo si fonda essenzialmente non già sulla valutazione morfologica dei singoli organi, sibbene sulla valutazione funzionale complessiva dell’organismo malato. Questa valutazione, naturalmente, non trascura l’indagine dei diversi apparati organici, ma la integra con indagini globali — bichiomiche, biotipologiche e neuropsichiche — le quali solo consentono l’esatta diagnosi e l’adozione di un trattamento che curi ogni infermo secondo le sue particolari esigenze individuali, secondo il suo modo particolare di reagire alle cause morbose, per la particolare costituzione dei suoi vari organi, del suo corpo e del suo spirito, del suo temperamento e del suo carattere. Il Pende, insigne studioso della medicina costituzionalista, sostiene, «come non possa oggi del tutto meritare il nome quasi sacro di medico, chi con ricette o strumenti taglienti crede d’aver compreso e curato decisamente un malato, agendo od operando sopra un singolo organo, sopra una piccola ruota di quel meraviglioso ingranaggio di parti e di funzioni solidali che è l’organismo del malato».

Terapie moderne. - Non è questo il luogo per illustrare i numerosi presidi terapeutici attuati dalla medicina in questi ultimi anni. Ci limiteremo a ricordare i grandi progressi effettuati dalla terapia chirurgica nel campo delle affezioni cardiache e polmonari, conseguiti anche grazie all’ibernazione artificiale (v. Narcoterapia). In àmbito fisioterapeutico rammenteremo gli ultrasuoni, il cui prudente impiego si è rivelato utilissimo soprattutto nella terapia del

dolore; e l’incremento della terapia radiante mercé l’uso dei radioisotopi e della cosiddetta radioterapia di movimento. Accenneremo, infine, all’uso delle gamma- globuline nella profilassi e nella cura di molte forme virali; alla scoperta di sempre nuovi antibiotici, dallo spettro d’azione sempre più ampio e penetrante; all’introduzione dei ganglioplegici (v. Narcoterapia) in terapia neuropsichiatrica; all’impiego dei farmaci curarizzanti.

Princìpi morali. - Strette e molteplici sono le relazioni fra la morale e la terapia. Va precisato, prima d’ogni altra cosa, che il medico ha sempre e sopra tutto il dovere di curare con la massima diligenza, al fine di ottenere i massimi risultati con l’impiego di mezzi più innocui e — a pari condizioni — meno dispendiosi. Da ciò scaturiscono diversi corollari normativi: nei casi comuni vanno impiegati rimedi di conosciuta efficacia ed innocuità; nei casi resistenti alle cure abituali si dovrà ricorrere a rimedi speciali e, di fronte a malattie pericolose o particolarmente gravi, potranno anche impiegarsi mezzi curativi rischiosi, purché — beninteso — si ottenga in proposito il consenso del malato o (qualora costui per l’età o le condizioni mentali non sia in grado di darlo) quello dei parenti; fra due rimedi aventi composizione chimica identica, od eguale efficacia, si scelga quello meno costoso, anche se tale scelta richiederà da parte del medico un tempo alquanto più lungo nella redazione della ricetta; trattasi, infatti, abitualmente di medicinali brevettati, dal nome facile a ricordarsi, le cosiddette specialità e del prodotto pari, avente uguale formula strutturale e che va prescritto indicandone con esattezza la lunga formula chimica e l’esatto dosaggio. Fra specialità e prodotto pari il medico prescrive abitualmente la prima, indottovi da una poco encomiabile pigrizia mentale, mentre egli potrà essere autorizzato dalla propria coscienza ad agire in tal modo solo quando gli risulti che la specialità è realmente migliore, per purezza di ingredienti od altro, al prodotto pari che può fornirgli il farmacista, o quando la specialità stessa costituisca una indovinata amalgama di sostanze che un comune laboratorio farmaceutico non è in grado di preparare, o — come non di rado accade — quando il medico ha a che fare con un infermo sfiduciato dei prodotti pari che da tempo gli sono stati prescritti senza vantaggio: in quest’ultimo caso la scelta di una specialità nuova, poco conosciuta, presentata con arte e, magari, assai più costosa del prodotto pari, potrà rappresentare per il medico esperto un’arma più efficace la quale — agendo anche in senso psicoterapico — sarà in grado di debellare più facilmente una forma morbosa (per lo più funzionale, nervosa) che si era dimostrata ribelle alle cure abituali.

Non è, generalmente, lecito ad un infermo od ai suoi familiari, specie nei casi gravi, attendere la guarigione da un diretto intervento di Dio, rinunciando agli ordinari presidi terapeutici; difatti una simile attesa potrebbe non già significare una devota rassegnazione, ma trasformarsi in tentazione di Dio. Avvertono, in proposito, giustamente i teologi — sulle orme di Sant’Alfonso — che, quando sussista pericolo di morte, non è mai lecito rifiutare le cure medico-chirurgiche, mentre, se la malattia è tale che spesso giunge spontaneamente a guarigione, allora si può, senza peccato, prescindere dai rimedi umani.

Non sembra nemmeno lecito l’eccesso opposto, consistente nell’abuso di medicamenti, fatto, per giunta, prescindendo da prescrizioni mediche. Trattasi, comunque, di un abuso nocivo alla salute, essendo risaputo l’effetto a lungo andare deleterio, che hanno quasi tutti i farmaci presi troppo a lungo e indiscriminatamente. Nei Paesi di più dinamica civiltà (Nord-Europa, Nord-America) si rileva una sempre più elevata morbilità e mortalità per le forme neoplastiche cardiocircolatorie; in questi stessi Paesi si abusa di antibiotici, sulfamidici, sedativi, antinevralgici, ecc. (in Danimarca si è registrato, nel 1953-54, un consumo annuo di ben 38 compresse di aspirina per abitante!): non è improbabile che esista un rapporto fra i due gruppi di fenomeni.

Nell’esercizio della propria professione stia attento il medico a non prescrivere quei rimedi o dare quei consigli che potrebbero avere nocive ripercussioni morali. Citiamo, a titolo d’esempio, l’uso intempestivo o eccessivo di ormoni, l’incauta prescrizione di stupefacenti, il praticare un intervento di chirurgia estetica quando si presuma fondatamente che il soggetto lo richiede per fini riprovevoli: tanto meno il consigliare pratiche neomalthusiane o altri metodi peccaminosi.

Finalmente il medico non trascuri l’importanza curativa della sua parola, quando venga saggiamente impiegata per risolvere quei conflitti intrapsichici che hanno tanta importanza nel determinarsi e nel persistere delle psiconevrosi e di altre svariate malattie. Rammenti il medico che tali conflitti derivano sempre dalla più o meno cosciente e persistente violazione dei princìpi della morale cattolica: ossia dalla disonestà, dalla lussuria e — soprattutto — da uno smodato egoismo, fonte di preoccupazioni, di ansie e, in definitiva, di gravi turbamenti psicoaffettivi e neurovegetativi; e sappia egli che una sua tempestiva parola, un suo prudente consiglio possono giovare moltissimo per aprire gli occhi al malato e migliorarne non solo le condizioni spirituali ma anche quelle fisiche.

Singoli problemi morali. - Accanto al dovere di curare esiste anche, indubbiamente, un diritto di curare nel senso che il medico è libero di prescrivere i medicamenti da lui ritenuti più opportuni per la cura degli infermi che gli sono affidati: anzi, il cosciente rifiuto, da parte del malato, di ottemperare alle cure prescrittegli autorizza il medico a disinteressarsi dell’infermo, con le norme e per i motivi illustrati alla voce Abbandono di malato.

Esiste ancora, e più spesso che non sembri, il dovere di non curare (o, come scriveva recentemente il Mozer, «l’urgenza di non intervenire». Ci riferiamo a quei casi nei quali la pressante chiamata del medico è dovuta più alla comprensibile ansia del malato o dei familiari che non alla reale necessità di applicare immediatamente una particolare terapia. In simili casi il medico — somministrato, più che altro, a scopo psicologico, qualche calmante e disposta l’opportuna assistenza — ha il dovere di praticare tutti gli accertamenti necessari per la formulazione di una diagnosi precisa, e solo in secondo tempo interverrà attivamente, con molta maggiore probabilità di successo. Le cure non debbono essere mai motivate dalla «necessità di fare qualcosa», ma debbono essere sempre il frutto di una riflessione.

Il diritto di curare, al quale abbiamo accennato in precedenza, non consente affatto al medico l’adozione di mezzi terapeutici straordinari — siano essi d’ordine farmaceutico o chirurgico — a meno che non si tratti di un caso straordinario o particolarmente grave, nel quale è sempre lecito ricorrere (con l’autorizzazione del malato o dei suoi familiari) a interventi nuovi e anche pericolosi: del che unico arbitro rimane, di fronte alla propria coscienza, il medico curante. Questi, in casi di prognosi sicuramente infausta, potrà anche impiegare rimedi più probabilmente nocivi, ma che abbiano pure qualche probabilità di guarire, sempre col consenso del malato o dei suoi familiari.

Infine, quel medico che abbia ideato o scoperto un nuovo genere di cura (sia esso un nuovo farmaco, un nuovo atto operatorio e simili) potrà provarlo per la prima volta sull’uomo, purché questi sia in pericolo di morte e purché la nuova cura abbia qualche solida probabilità di successo: probabilità desunta da adeguati studi teorici, da esperimenti sugli animali, ecc. Né la sicurezza (quanto mai fallace!) che si tratti di casi assolutamente disperati, né la considerazione che il soggetto sia un demente inguaribile (anche le demenze possono regredire), né — tanto meno! — che l’individuo sia incapace di rifiutarsi e non abbia familiari che ne tutelino i diritti umani, sono ragioni che giustificano l’impiego di rimedi sicuramente dannosi a puro scopo di studio: un simile impiego è moralmente pessimo, sia perché degrada l’umanità sofferente al livello di cavie o di altri animali da laboratorio, sia perché non tiene alcun conto dei diritti della persona umana e dei dettami della carità.

Altre particolari questioni morali. - Ha il medico il dovere di richiamare in vita chi — affetto da malattia incurabile e dolorosa :— sia stato colpito da sincope che sarebbe mortale se il soggetto fosse lasciato a sè? Certamente sì; rimanere inattivi sarebbe una forma di eutanasia: la cosiddetta «eutanasia per omissione» (Palmieri). Compito supremo del medico è lottare fino all’ultimo contro la morte per disputarle i malati che ricorrono al di lui aiuto; senza contare che l’ambito delle infermità veramente incurabili si va sempre più restringendo e che la lotta contro il dolore si arricchisce di sempre nuove armi.

«Curate — così Augusto Murri esortava i suoi allievi —; se non potete curare, lenite; se non potete lenire, consolate, e dimostrate, in ogni caso, di osservare strettamente quel patto tacito e solenne, sempre esistito tra medico e sofferente, per cui, fino all’ultimo istante di vita, si fa tutto il possibile per sottrarlo alla morte».

Talvolta potrà accadere che al medico si prospetti il quesito se debba o no salvare

la vita di un infermo, incapace di esprimere la propria volontà, a prezzo di un intervento chirurgico enormemente mutilante. Anche in questo caso il medico è tenuto ad intervenire per salvare la vita, sia pure a prezzo di una grave mutilazione.

In tema di chirurgia, massime se demolitrice, occorre, poi, che esista una buona probabilità di guarigione per sottoporre il soggetto ad un rischio operatorio. Non è punto lecito, infatti, far correre al malato rischi pressoché inutili, neanche quando l’individuo vi si prestasse volontariamente.

Vaccinazioni. - Due parole, infine, a proposito delle vaccinazioni. Nonostante i loro inconvenienti, per lo più modestissimi (gli autori scrivono negli anni ’50, ndr.), nonostante qualche sporadico danno più grave (ci riferiamo, p. es., ai casi di encefalite che possono, eccezionalmente, esplodere in seguito alla vaccinazione antivaiolosa) è risaputo come le statistiche sanitarie ne abbiano chiaramente dimostrato l’utilità. Hanno torto, quindi, quei medici che asseriscono di non credere all’utilità delle vaccinazioni e, con tale loro contegno, vi gettano un discredito che facilita le evasioni, e, con ciò, favorisce il ridestarsi di pericolosi focolai epidemici. V anche Deontologia farmaceutica.  

Dalla Teologia Morale, Roberti - Palazzini, imprimatur 1957, pagine 1454-1456

Breve approfondimento tematico. - Dall’Enciclopedia Cattolica, imprimatur 1954, Volume XII, colonne 957-958, voce di Alessandro Marolla: Nel corso dei secoli la vaccinazione ha subito sempre ulteriori modifiche e perfezionamenti dimostrandosi in genere sempre molto utile, pur trovando di tanto in tanto, specie nel mondo anglosassone, accaniti denigratori. Da questa prima esperienza (del vaiolo, ndr.) si generalizzò ad altre malattie infettive il nuovo mezzo di cura, tutt’ora non detronizzato neppure dalla terapia con antibiotici e il termine di «vaccinazione» assunse più universalmente il valore di produzione in un individuo di uno stato di immunità mediante l’introduzione di antigeni o tossine microbiche dotate della capacità di stimolare nell’individuo la formazione di sostanze di difesa cioè di anticorpi e antitossine (v. Microbiologia).

Essa viene praticata per molte malattie oltre che per il vaiolo (difterite, tifo, paratifi, tetano, pertosse, febbre maltese, peste, febbre gialla, ecc.) sia a scopo preventivo che a fine terapeutico. I risultati curativi, pur essendo spesso assai buoni, non hanno un valore assoluto per ogni malattia infettiva; d’altra parte per alcune di esse ne è stato imposto l’obbligo per legge a larghe masse di individui, profilandosi così problemi di valore sociale e medico-morale.

Ad es. in Italia esistono vaccinazioni obbligatorie della prima infanzia, all’inizio dell’età scolastica o in occasione del servizio militare; le norme di profilassi internazionale obbligano la vaccinazione per alcune malattie negli individui che si rechino da una nazione a un’altra; alcune professioni richiedono preventive vaccinazioni obbligatorie.

Dal punto di vista medico-morale si può discutere sul diritto dello Stato di menomare la libertà dell’individuo, obbligandolo a sottoporsi a una vaccinazione e del dovere da parte sua di subirla o spontaneamente offrirsi a essa. Su tali problemi hanno recentemente discusso anche alcuni congressi di medici cattolici.

Si può parlare di obbligo morale ogni qual volta si tratti di evitare il (reale e concreto, ndr.) pericolo di una grave malattia incombente sullo stesso individuo o sulla società, purché, secondo il concetto attuale della medicina, vi siano serie probabilità di effetto utile e di assenza di grave danno per l’individuo. Ciò in accordo con il dettame della morale, che l’individuo è tenuto a sacrificare parte del suo bene per quello della collettività, purché non si tratti del pericolo della propria vita o di grave menomazione delle sue funzioni essenziali.