Il Sillabario del Cristianesimo, mons. F. Olgiati, Vita e Pensiero, Milano, 1942. Gesù Cristo e gli antichi popoli. Tutto questo è evidente e sarà ammesso da tutti. Ma - si obbietterà - dov’è Gesù Cristo nella storia degli altri popoli? Si trova forse Egli fra le superstizioni dell’idolatria, fra le oscenità dei costumi pervertiti, fra gli orrori della schiavitù, fra il sorgere ed il decadere degli antichi imperi? Senza nessun dubbio, risponde il Fornari. Tutti i popoli delle età antiche sono stati gli operai della civiltà. Attraverso errori ed orrori, essi hanno lavorato intorno allo stesso edificio e ciascuno continuò il lavoro dell’altro. Perivano i popoli, ma l’opera loro restava e preparava l’avvenire. Babilonia e Ninive; l’Egitto e la Cina; l’India e la Persia rappresentano giornate laboriose e feconde della civiltà. La Grecia, poi, segna uno dei progressi più grandi; il gruppo dei suoi filosofi, specialmente con Socrate, Platone ed Aristotele, - la schiera dei suoi storici, quali Erodoto, Tucidide, Senofonte, - la gloria dei suoi artisti e la bellezza del suo Partenone, - la moltitudine dei suoi poeti, da Omero e da Pindaro a Sofocle, Aristofane ed Eschilo, affermano nei secoli il primato del pensiero. E Roma, la dominatrice del mondo e l’affermatrice possente del primato dell’azione, tutto sintetizza. Dall’apologo di Menenio Agrippa alla scrittura delle Dodici Tavole, dalle leggi licinie all’estensione del giure romano a tutta Italia, dalle sue origini al suo sviluppo grandioso ed al trionfo delle sue aquile e dei suoi Cesari che potevano dire di dominare il mondo, Roma presenta questo carattere organico ed unitario. Orazio che nel Carmen saeculare si rivolgeva al sole e si augurava che esso nulla potesse vedere di più grande della sua Roma; e Virgilio che esclamava con immortale fierezza: «Tu regere imperio populos, Romane, memento - ricordati, o Romano, che tu sei nato per comandare alle genti», non fanno altro che esprimere in forma poetica la missione di Roma, dove tutte le civiltà storiche sboccano insieme, potenziandosi in una sintesi superiore. Fu allora che Giulio Cesare riformò il calendario, quasi gli anni si dovessero contare daccapo; Augusto ordinò il censo dell’impero, come si fa dei beni d’un morto la cui eredità deve passare ad altri; e frattanto, a Betlemme di Giuda, nasceva Gesù. Passeranno pochi anni e Roma sarà la città «onde Cristo è Romano», sarà la sede del Vicario di Cristo ed il centro della religione nuova. Le aquile saranno sostituite da una Croce e la forza dall’amore; una nuova sintesi sarà operata secondo il programma di San Paolo: «Esaminate tutto; ciò che v’è di bene, tenetelo»; il naturale sarà non distrutto, ma elevato dal soprannaturale; tutto ciò che le antiche civiltà avevano prodotto, servirà come pietra per la basilica novella, dedicata a Cristo. Cos’hanno prodotto gli antichi popoli? Essi ci hanno dato le arti, le industrie, gli agi, il linguaggio letterario, l’arte, la bellezza, la filosofia, la letteratura, la poesia, il diritto. Hanno ‘sviluppato’ la natura. Purtroppo l’hanno anche deformata. Erigendo questi beni finiti a beni infiniti, considerando come eterno ciò che è caduco, non solo sono precipitati nell’idolatria (che altro non è se non una falsa divinizzazione di ciò che è umano), ma anche negli eccessi dell’immoralità. Gli stessi eccessi, però, erano un grido implicito a Cristo, che avrebbe sollevato l’umanità caduta tanto in basso; la stessa idolatria era un’espressione di un disperato desiderio del divino; lo stesso svolgersi dei valori umani era la preparazione di ciò che poi sarebbe stato sublimato e divinizzato dall’Uomo-Dio, che come in sé univa le due nature - l’umana e la divina nell’unità di persona, - così doveva unire la civiltà e la religione, l’uomo e Dio, il naturale e il soprannaturale. Il vero significato, perciò, delle antiche civiltà non può essere colto se non da chi le considera in funzione del Cristianesimo, come le prime pagine d’un poema non sono comprese nella completezza del loro senso, se non da chi le rilegge e le pone in connessione con le ultime pagine del poema stesso. L’uomo agiva e non sapeva di esser condotto da Dio; i pensatori dell’Ellade disputavano e non avevano coscienza di lavorare le pietre per la futura basilica del pensiero cristiano; le aquile romane procedevano di trionfo in trionfo e la Grecia sottomessa permeava con la sua coltura il vincitore: «Graecia capta ferum victorem cepit, et artes intulit agresti Latio», e quella sintesi gloriosa che ne risultava non era illuminata dalla consapevolezza del suo valore e della sua destinazione finale. Ma mentre i carri dei trionfatori ascendevano verso il Campidoglio, fra imprecazioni di vinti e urla di folle, il Cristo si avanzava nella storia. Delle umiliazioni degli uni e dell’orgoglio degli altri Egli si serviva, per preparare le Sue vie, - vie di pace, di giustizia , di amore. E nella pienezza dei tempi - pienezza fissata da Dio - entrò nella storia, come centro del passato e dell’avvenire e come novella vita dell’umanità.