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Lo stesso dice Scoto: Vult omnes homines salvare, quantum est ex parte sui, et voluntate sua antecedente, pro qua dedit eis dona communia sufficientia ad salutem. Il Concilio di Colonia: Quanquam nemo convertatur nisi tractus per Patrem, attamen nemo excusationem praetexat quod non trahatur; Ille semper stat ante ostium pulsans per internum et externum verbum. Né i Ss. Padri hanno parlato a caso, ma fondati sulle Divine Scritture, poiché il Signore troppo chiaramente in tanti luoghi ci assicura, ch’Egli non lascia d’assisterci colla sua Grazia, se vogliamo avvalercene a perseverare essendo giustificati, o a convertirci se siamo peccatori: Sto ad ostium et pulso, si quis mihi aperuerit, intrabo (Apoc. 3, 20). Ben argomenta su questo testo il Bellarmino, dicendo che il Signore, sapendo già che l’Uomo non può aprire senza la sua Grazia, invano busserebbe alla porta del di Lui cuore, s’Egli non gli avesse già prima conferita la grazia di aprire quando vuole. E ciò appunto insegnò S. Tommaso spiegando lo stesso testo; disse che Iddio a ciascuno dà la grazia necessaria alla salute, per corrispondere se vuole: Deus voluntate sua liberalissima dat eam (scil. gratiam) omni praeparanti se (Apoc. 3. Ecce sto ad ostium, et pulso). Et ideo gratia Dei nulli deest, sed omnibus, quantum in se est, se communicat. Soggiungendo in altro luogo: Hoc ad Divinam providentiam pertinet, ut cuilibet provideat de necessariis ad salutem. Sicché, come scrisse S. Ambrogio, il Signore bussa alla porta, perché vuol veramente entrare; ma intanto non entra, o pure non resta nelle Anime nostre, perché noi gl’impediamo l’entrata, oppure entrato ne lo discacciamo: Quia enim venit, et januam pulsat, vult semper intrare; sed in nobis est quod non semper ingreditur, non semper manet. Quid est quod debui ultra facere vineae meae, et non feci? An expectavi ut faceret uvas, et fecit labruscas? (Is. 5, 4). Dice il Bellarmino su questo passo: Si non dedisset facultatem ad faciendas uvas, quorsum diceret Dominus, Expectavi? E se Dio non desse a tutti la grazia necessaria per salvarsi, non avrebbe potuto dire agli Ebrei: Quid debui ultra facere? perché avrebbero potuto quelli rispondere, che intanto non hanno dato frutto, perché è mancato loro l’aiuto a ciò necessario. Lo stesso dice il Bellarmino nel luogo citato su quelle parole di Gesù Cristo: Quoties volui congregare filios tuos... et noluisti? (Matt. 23, 38). Quomodo voluit (domanda il suddetto S. Cardinale) ut quaeratur a nolentibus, si eos non juvit ut possint velle? Suscepimus Deus misericordiam tuam in medio templi tui (Psal. 47, 10). Commenta S. Bernardo: In medio enim Templi misericordia est, non in angulo aut diversorio, quia non est personarum acceptio apud Deum; in communi posita est, offertur omnibus, et nemo illius expers, nisi qui renuit. An divitias bonitatis ejus... contemnis? ignoras quia benignitas Dei ad poenitentiam te adducit? (Rom. 2, 4). Ecco che il peccatore per sua malizia non si converte, disprezzando le ricchezze della Divina Bontà che lo chiama, e non lascia di muoverlo colla sua grazia a convertirsi. Dio odia il peccato, ma nello stesso tempo non lascia di amare l’Anima peccatrice, mentr’ella vive su questa Terra, con darle l’aiuto necessario a salvarsi. Parcis autem omnibus, quoniam tua sunt, Domine, qui amas animas (Sap. 11, 28). Dal che si vede, dice il Bellarmino, che Dio non nega la grazia di resistere alle tentazioni a qualunque peccatore ostinato ed accecato che sia: Auxilium ad novum peccatum vitandum semper omnibus adest vel immediate, vel mediate (cioè per mezzo dell’Orazione), quo possint a Deo majora praesidia impetrare, quibus adjuti peccata vitabunt. A ciò fa ancora quel che dice il Signore per Ezechiele: Vigo ego, dicit Dominus Deus, nolo mortem impii, sed ut convertatur impius a via sua, et vivat (Ez. 33, 11). Lo stesso dice S. Pietro: Patienter agit propter vos, nolens aliquos perire, sed omnes ad poenitentiam reverti (Petr. 3, 9). Se dunque Iddio vuole che tutti attualmente si convertano, necessariamente deve supporsi, che a tutti dia la grazia che loro bisogna per attualmente convertirsi. Prosegue ...

Giacché a Giansenio non soddisfano i Padri Greci, vediamo che ne dicono i Latini. Ma questi niente dai Greci discordano. San Girolamo dice: Nihil boni operis (Homo) agere potest absque Eo, qui ita concessit liberum arbitrium, ut suam per singula opera gratiam non negaret. Si noti, per singula opera gratiam non negaret. Sant’Ambrogio: Quia enim venit, et januam pulsat, vult semper intrare, sed in nobis est quod non semper ingreditur. San Leone: Juste instat praecepto, qui praecurrit auxilio. Sant’Ilario: Nunc per unum in omnes donum justificationis gratia abundavit. Innocenzo I: Quotidiana praestat (Homini) remedia, quibus nisi freti nitamur, nequaquam humanos vincere poterimus errores. Sant’Agostino: Non tibi deputatur ad culpam quod invitus ignoras, sed quod negligis quaerere quod ignoras. Neque illud quod vulnerata membra non colligis, sed quod (nota) volentem sanare contemnis, ista tua propria peccata sunt: nulli enim homini ablatum est scire utiliter quaerere. In altro luogo: Quod ergo ignorat (Anima) quid sibi agendum sit, ex eo est quod nondum accepit, sed hoc quoque accipiet, si hoc quod accepit bene usa fuerit: accepit autem, ut pie ac diligenter quaerat, si volet. Si noti, accepit autem, ut pie ac diligenter quaerat. Sicché ognuno riceve almeno la grazia remota di cercare, della quale se si avvale bene riceverà poi la prossima ad operare quel che prima non poteva fare. E tutto ciò il Santo Dottore lo fonda sul principio, che niuno pecca in ciò che non può evitare; dunque (soggiunge) se l’Uomo pecca in qualche cosa, intanto pecca, in quanto può evitarla colla grazia del Signore, la quale a niuno manca: Neminem peccare in eo, quod nullo modo caveri potest. Peccatur autem; caveri igitur potest, sed opitulante Illo, qui non potest falli. Ragione evidente, per cui si fa chiaro (come appresso meglio esamineremo, parlando delle colpe degli Ostinati) che se mancasse la grazia necessaria ad osservare i precetti, non vi sarebbe peccato. Lo stesso insegna san Tommaso in più luoghi. In un luogo spiegando il testo dell’Apostolo, Qui vult omnes homines salvos fieri, dice: Et ideo gratia nulli deest, sed omnibus (quantum in se est) se communicat, sicut nec sol deest oculis caecis. Sicché, siccome il sole diffonde a tutti la sua luce, e di quella solamente ne son privi quei che volontariamente si acciecano; così Iddio comunica la grazia a tutti per osservare la legge, e gli uomini intanto si perdono, perché non vogliono avvalersene. In altro luogo: Hoc ad Divinam providentiam pertinet, ut cuilibet provideat de necessariis ad salutem, dummodo ex parte ejus (scilicet hominis) non impediatur. Se dunque a tutti Iddio dà le grazie necessarie a salvarsi, posto che la grazia attuale è necessaria a vincere le tentazioni, e ad osservare i Precetti, deve necessariamente concludersi che a tutti dà Egli la grazia attuale ad operare il bene, o immediatamente, oppure mediatamente, ma senza bisogno d’altra grazia per mettere in esecuzione il mezzo (quale sarebbe la Preghiera), affin di ottenere la grazia prossima attuale. In altro luogo su quelle parole di san Giovanni, Nemo venit ad me etc. dice: Si non elevatur (cor humanum), non est defectus ex parte Trahentis, qui quantum in Se est non deficit, sed est propter impedimentum ejus qui trahitur. Prosegue ...

Dio dona comunemente la grazia necessaria a tutti i Giusti per osservare i precetti, ed a tutt’i peccatori per convertirsi. Se Iddio dunque vuol tutti salvi, per conseguenza a tutti dà la grazia e gli aiuti necessari per conseguire la salute; altrimenti non potrebbe dirsi, ch’Egli abbia vera volontà di salvare tutti. Antecedentis voluntatis, dice san Tommaso, qua Deus vult omnium salutem, effectus est ordo naturae in finem salutis, et promoventia in finem omnibus communiter proposita, tam naturalia, quam gratuita. E certo, contro quel che hanno bestemmiato Lutero e Calvino, poiché Dio non impone una legge impossibile ad osservarsi. Anzi è certo, che senza l’aiuto della Grazia è impossibile l’osservanza della legge, come dichiarò contro i Pelagiani Innocenzo I dicendo: Necesse est ut quo (scil. Deo) auxiliante vincimus, Eo non adjuvante vincamur. E lo stesso dichiarò Celestino Papa. Dunque se il Signore dà a tutti una legge possibile, per conseguenza dà anche a tutti la Grazia necessaria ad osservarla, o immediatamente o mediatamente per mezzo della Preghiera, come troppo chiaramente ha dichiarato il Sacro Concilio di Trento: Deus impossibilia non jubet sed jubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adjuvat ut possis  (Sess. 6. cap. 13). Altrimenti, se Dio ci negasse la Grazia, sia prossima che remota, per adempire la legge, o la legge in vano sarebbe stata data, o il peccato sarebbe necessario, ed essendo necessario, non sarebbe più peccato, come appresso a lungo dimostreremo. È questo è il sentimento comune dei Padri. Vediamolo. san Cirillo Alessandrino dice: Quod si (quis) perinde, atque alii, et ex aequo, cum ipsis Divinae gratiae opibus praeditus propria voluntate delapsus est; quomodo non eum servasse dicitur Christus, qui, quantum ad cavendi peccati auxila concessa pertinet, hominem liberavit? Come (dice il Santo) quel peccatore, che ha ricevuto egualmente cogli altri che sono stati fedeli, gli aiuti della Grazia, ed ha voluto spontaneamente peccare, può lagnarsi poi di Gesù Cristo, il quale in quanto a Sé già l’ha liberato per mezzo degli aiuti concessigli? San Giovanni Grisostomo  domanda: Unde nam alii vasa irae, alii misericordiae sunt? E risponde: Ex libera sua utique voluntate; nam Deus cum sit valde bonus in utrisque parem benignitatem ostendit. Quindi parlando di Faraone, chiamato nella Scrittura indurato di cuore, soggiunge: Si salutem Pharao non est adeptus, totum id illius voluntati tribuendum est, cum nihil minus, quam qui salutem assecuti sunt, concessum illi fuerit. Ed in altro luogo, parlando della domanda della Madre dei Figli di Zebedeo sulle parole, Non est meum dare vobis etc. dice così: Hoc Illum (sc. Christum) significare voluisse, non suum esse tantummodo dare, sed et certantium esse capere; nam si istud ex Se uno penderet, omnes utique salvi essent Homines. Sant’Isidoro Pelusiota: Etenim serto, et modis omnibus (Deus) vult eos adjuvare, qui in vitio volutantur, ut excusationem eripiat. San Cirillo Gerosolimitano: Ad aeternae vitae januam (Dominus) aperuit, ut omnes ea, quantum in ipso est, nullo impediente potiantur. Ma la dottrina di questi Padri Greci non piace a Giansenio, il quale ha la temerità di dire, che i Padri Greci imperfettissimamente hanno parlato della Grazia: Nulli imperfectius de Gratia quam Graeci locuti sunt. Dunque - secondo lui - circa la materia della Grazia non dobbiamo noi seguire gl’insegnamenti dei Padri Greci, che sono stati i primi Maestri, e Colonne della Chiesa? Forse la Dottrina dei (Padri) Greci, specialmente in questa materia così importante, era diversa dalla Chiesa Latina? Anzi è certo, che dalla Chiesa Greca è passata alla Latina la vera Dottrina della Fede; Come scrisse sant’Agostino contro Giuliano. Prosegue ...

Quindi nel citato luogo (San Tommaso d’Aquino, cit. lib. Contra Gentes cap. 160) dice così: Cum enim mens hominis a statu rectitudinis declinaverit, manifestum est quod recessit ab ordine debiti finis... Quandocunque igitur aliquid occurrerit conveniens inordinato fini, repugnans fini debito, eligetur, nisi reducatur ad debitum ordinem ut finem debitum omnibus praeferat, quod est gratiae effectus. Dum autem eligitur aliquid quod repugnat ultimo fini, impedimentum praestat gratiae quae dirigit in finem: unde ab omni peccato, antequam pergratiam ad debitum ordinem manifestum est quod post peccatum non potest homo abstinere reducatur... Unde apparet stulta Pelagianorum opinio, qui dicebant, hominem in peccato existentem sine gratia posse vitare peccatum. Ed appresso poi scrive le parole di sopra già rapportate, Quamvis autem illi etc. di cui si servono i contrari. Sicché per prima l’intento di san Tommaso non è di provare che alcuni peccatori sono privi d’ogni grazia attuale, e con tutto ciò non potendo evitare ogni peccato, pure pecchino, e siano degni di pena, ma l’intento è di provare contro i Pelagiani, che l’Uomo stando senza la Grazia santificante non può astenersi di peccare. E già si vede che qui certamente parla il Santo della Grazia santificante, poiché questa è quella che solamente riduce l’Anima nell’ordine retto. Ora di questa medesima Grazia santificante intende parlare, dicendo appresso, Nisi auxilio gratiae praeveniantur; volendo dire che se il peccatore non è prevenuto, cioè non è prima informato dalla Grazia, e ridotto nell’ordine retto di tenere Dio per ultimo fine, non può evitare di commettere nuovi peccati. E così l’intendono i Tomisti, come il Ferrariese in detto luogo, e il Gonet dichiarando questo medesimo luogo. Ma senza ricorrere ad altri, ciò si fa evidente da quello che dice lo stesso san Tommaso nella Somma, dove parla dello stesso punto, e porta identiche le stesse ragioni, colle stesse parole che scrisse nel libro Contra Gentes nel citato Capo 160, ed ivi espressamente non parla che della sola Grazia abituale o sia santificante. E non poteva essere che il Santo Dottore l’intendesse altrimenti, mentre Egli altrove da una parte insegna che a nessuno manca mai la Divina Grazia, come dice commentando san  Giovanni: Sed ne credas effectum ipsum esse ex remotione verae lucis, hoc excludens Evangelista subdit: Erat lux vera, quae illuminat omnem hominem. Illuminat scilicet Verbum, quantum de se est, quia ex parte sua nulli deest, imo vult omnes homines salvos fieri Quod si aliquis non illuminatur, ex parte hominis est avertentis se a lumine illuminante. E dall’altra parte insegna non esservi peccatore così perduto ed abbandonato dalla grazia, che non possa deporre la sua ostinazione, e unirsi colla Divina Volontà, il che non può fare certamente senza l’aiuto della Grazia: In statu viae nullus est qui mentis obstinationem non possit reponere, et sic Divinae voluntati conformari. In altro luogo dice: Quandiu manet homini usus liberi arbitrii in hac vita... potest se praeparare ad gratiam de peccatis dolendo. Il pentirsi dei peccati non può farsi senza la grazia. In altro luogo dice: Aliquis homo in statu viae non potest esse ita obstinatus in malo, quin ad suam liberationem cooperari possit. Il cooperare importa necessariamente che vi sia l’aiuto della grazia. In altro luogo sulle parole di san Paolo, Vult omnes salvos fieri, dice: Ideo gratia Dei nulli deest, sed omnibus quantum in se est se communicatao. In altro sulle stesse parole dell’Apostolo, Vult omnes etc. dice: Deus quantum in se est, paratus est omnibus dare gratiam. Illi ergo soli gratia privantur, qui in seipsis gratiae impedimentum praestant; et ideo excusari non possunt, si peccent. E dicendo il Santo, Paratus est omnibus dare gratiam, non intende già parlare della grazia attuale, come di sopra abbiam veduto, ma della sola santificante. Onde giustamente il Cardinal Gotti confuta alcuni, i quali dicono che Dio tiene apparecchiati appresso di sé gli aiuti sufficienti alla salute, ma in fatti non li dà a tutti. Che servirebbe all’infermo (dice questo dotto Autore), se il Medico solamente tenesse appresso di sé preparati i rimedi ma poi non volesse applicarglieli? Quindi parlando a proposito del nostro punto, conclude doversi necessariamente dire: Deus nedum offerre, sed etiam conferre singulis hominibus, et infidelibus, et induratis auxilia sufficientia, vel proxima, vel saltem remota, ad observanda praecepta. Del resto dice san Tommaso che i soli peccati dei Demoni, e dei Dannati non possono cancellarsi per la penitenza, ma all’incontro: Dicere quod aliquod peccatum sit in hac vita, de quo quis poenitere non possit, erroneum est... quia per hoc derogaretur virtuti Gratiae. Se ad alcuno mancasse la Grazia, certamente non potrebbe pentirsi. Oltreché, come abbiam già veduto di sopra, lo stesso san Tommaso insegna espressamente in più luoghi, specialmente nel commento al capo 12, di san Paolo ad Hebr. che Dio a nessuno nega in quanto a sé la grazia necessaria a convertirsi, dicendo: Gratia Dei nulli deest, sed omnibus quantum in se est, se communicat. Onde con ragione asserisce il dotto Autore della Teologia ad uso del Seminario Petrocorense: Non nisi ergo calumniose S. Thomae inputari potest quod peccatores aliquos a Deo totaliter deseri docuerit. Parlando di tal punto il Cardinal Bellarmino, saviamente distingue, e dice che in quanto all’evitare i nuovi peccati, ogni peccatore, ed in ogni tempo ha l’aiuto almeno mediato: Auxilium sufficiens ac necessarium ad vitanda peccata omnibus, et omni tempore, vel immediate vel mediate, a Divina benignitate praestatur...Dicimus veldiate, quoniam certum est aliquos non habere auxilium, quo possint a Deo majora praesidia impetrare, quibus adjuti peccata vitabuntat. In quanto poi alla grazia di convertirsi, dice che questa non è data in ogni tempo al peccatore, ma che nessuno resterà mai abbandonato in tal modo, ut certo et absolute per omnem vitam destituatur auxilio Dei, ut de salute desperare possit. E lo stesso dicono i Teologi Tomisti suoi Discepoli. Dice il dottissimo P. Domenico Soto: Certo certior sum, quin vero et certissimos credo semper fuisse sanctos Doctores, qui fuerint hoc nomine digni, neminem unquam a Deo fuisse derelictum, in hac mortali vita. E la ragione è chiara, perché se il peccatore fosse affatto abbandonato dalla Grazia, o non potrebbero essergli più imputati a colpa i suoi peccati, seguendo egli a peccare, oppure resterebbe obbligato a ciò che non può adempire; ma è regola indubitata di sant’Agostino, che non si pecca mai in ciò che non può evitarsi: Neminem peccare in eo quod nullo modo caveri potest. E ciò è secondo quel che dice l’Apostolo: Fidelis autem Deus est, qui non patietur vos tentari supra id quod potestis, sed faciet etiam cum tentatione proventum, ut possitis sustinere (1. Cor. 10. 13). Quel proventum s’intende l’aiuto Divino, che il Signore dà sempre ai Tentati per resistere alla tentazione, come spiega san Cipriano: Faciet cum tentatione facultatem evadendi. E più chiaramente Primasio: Illud faciet provenire, quod poterimus sustinere; id est in tentatione roborabit gratiae praesidio, quo possitis eam sustinere. Giungono a dire sant’Agostino, e san Tommaso, che Dio sarebbe iniquo e crudele, se obbligasse alcuno ad un precetto che non può osservare. Sant’Agostino dice: Peccati reum tenere quenquam, quia non fecit quod facere non potuit, summae iniquitatis est. E san Tommaso poi dice: Deus non est magis crudelis quam homo; sed homini imputatur ad crudelitatem, si obliget aliquem per praeceptum ad id quod implere non possit; ergo de Deo nullatenus est aestimandumba. Altrimenti poi dice il Santo è, quando ex ejus negligentia est, quod gratiam non habet, per quam potest servare mandata. Il che propriamente s’intende, quando l’Uomo trascura d’avvalersi della grazia remota della Preghiera, con cui ben può ottenere la prossima ad osservare il precetto secondo quel che insegna il Tridentino: Deus impossibilia non jubet, sed jubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adjuvat ut possis (Sess. 6. cap. 13). Quel che poi ha detto sant’Agostino nel luogo citato, cioè che non v’è peccato in ciò che non può evitarsi, egli lo conferma in molti altri luoghi. In un luogo dice:  Sive autem iniquitas, sive justitia, si in potestate non esset, nullum praemium, nulla poena justa esset. In altro dice: Si denique his abstinendi ab opere suo potestas nulla conceditur, nullum peccatum eorum tenere possumus. In altro dice: Dat quidem ille (Daemon) consilium, sed Deo auxiliante nostrum est eligere vel repudiare quod suggerit; et ideo cum per Dei adjutorium in potestate tua sit, quare non magis Deo, quam ipsi obtemperare deliberas? In altro luogo dice: Ex eo igitur quod o non accepit, nullus reus est. In altro: Nemo vituperatione dignus, qui id non facit, quod facere non potest. Lo stesso dicono san Girolamo: Nec ad virtutes, nec ad vitia necessitate trahimur; alioquin ubi necessitas est, nec damnatio, nec corona estbh. Tertulliano: Non enim poneretur lex ei, qui, non habet obsequium debitum legi in sua potestate. Marco Eremita: Occulta nobis opitulatur gratia;. verum in nobis situm est agere, vel non agere bonum pro potestate. Lo stesso dicono sant’Ireneo, san Cirillo Alessandrino, san Giovanni Grisostomo, ed altri. ...

Né i Ss. Padri hanno parlato a caso, ma fondati sulle Divine Scritture, poiché il Signore troppo chiaramente in tanti luoghi ci assicura, ch’Egli non lascia d’assisterci colla sua Grazia, se vogliamo avvalercene a perseverare essendo giustificati, o a convertirci se siamo peccatori: Sto ad ostium et pulso, si quis mihi aperuerit, intrabo (Apoc. 3. 20). Ben argomenta su questo testo il Bellarmino, dicendo che il Signore, sapendo già che l’Uomo non può aprire senza la sua Grazia, invano busserebbe alla porta del di Lui cuore, s’Egli non gli avesse già prima conferita la grazia di aprire quando vuole. E ciò appunto insegnò san Tommaso spiegando lo stesso testo; disse che Iddio a ciascuno dà la grazia necessaria alla salute, per corrispondere se vuole: Deus voluntate sua liberalissima dat eam (scil. gratiam) omni praeparanti se (Apoc. 3. Ecce sto ad ostium, et pulso). Et ideo gratia Dei nulli deest, sed omnibus, quantum in se est, se communicat. Soggiungendo in altro luogo: Hoc ad Divinam providentiam pertinet, ut cuilibet provideat de necessariis ad salutem. Sicché, come scrisse sant’Ambrogio, il Signore bussa alla porta, perché vuol veramente entrare; ma intanto non entra, o pure non resta nelle Anime nostre, perché noi gl’impediamo l’entrata, o pure entrato ne lo discacciamo: Quia enim venit, et januam pulsat, vult semper intrare; sed in nobis est quod non semper ingreditur, non semper manet. Quid est quod debui ultra facere vineae meae, et non feci? An expectavi ut faceret uvas, et fecit labruscas? (Is. 5. 4). Dice il Bellarmino su questo passo: Si non dedisset facultatem ad faciendas uvas, quorsum diceret Dominus, Expectavi? E se Dio non desse a tutti la grazia necessaria per salvarsi, non avrebbe potuto dire agli Ebrei: Quid debui ultra facere? perché avrebbero potuto quelli rispondere, che in tanto non han dato frutto, perché è mancato loro l’aiuto a ciò necessario. Lo stesso dice il Bellarmino nel luogo citato su quelle parole di Gesù Cristo: Quoties volui congregare filios tuos... et noluisti? (Matt. 23. 38). Quomodo voluit (domanda il suddetto Cardinale) ut quaeratur a nolentibus, si eos non juvit ut possint velle? Suscepimus Deus misericordiam tuam in medio templi tui (Psal. 47. 10). Commenta san Bernardo: In medio enim Templi misericordia est, non in angulo aut diversorio, quia non est personarum acceptio apud Deum; in communi posita est, offertur omnibus, et nemo illius expers, nisi qui renuit. An divitias bonitatis ejus... contemnis? ignoras quia benignitas Dei ad poenitentiam te adducit? (Rom. 2. 4). Ecco che il peccatore per sua malizia non si converte, disprezzando le ricchezze della Divina Bontà che lo chiama, e non lascia di muoverlo colla sua grazia a convertirsi. Dio odia il peccato, ma nello stesso tempo non smette di amare l’Anima peccatrice, mentre ella vive su questa Terra, con darle l’aiuto necessario a salvarsi. Parcis autem omnibus, quoniam tua sunt, Domine, qui amas animas (Sap. 11. 28). Dal che si vede, dice il Bellarmino, che Dio non nega la grazia di resistere alle tentazioni a qualunque peccatore ostinato ed accecato che sia: Auxilium ad novum peccatum vitandum semper omnibus adest vel immediate, vel mediate (cioè per mezzo dell’Orazione), quo possint a Deo majora praesidia impetrare, quibus adjuti peccata vitabunt. A ciò fa ancora quel che dice il Signore per Ezechiele: Vigo ego, dicit Dominus Deus, nolo mortem impii, sed ut convertatur impius a via sua, et vivat (Ez. 33. 11). Lo stesso dice san Pietro: Patienter agit propter vos, nolens aliquos perire, sed omnes ad poenitentiam reverti (Petr. 3. 9). Se dunque Iddio vuole che tutti attualmente si convertano, necessariamente deve supporsi, che a tutti dia la grazia che loro bisogna per attualmente convertirsi. So bene esservi Teologi, i quali sostengono, che Iddio a certi peccatori ostinati neghi anche la grazia sufficiente; e tra l’altre si avvalgono d’una dottrina di san Tommaso, il quale dice: Quamvis autem illi, qui in peccato sunt, vitare non possint per propriam potestatem, quin impedimentum gratiae praestent vel ponant, ut ostensum est, nisi auxilio gratiae praeveniantur, nihilominus tamen hoc eis imputatur ad culpam, quia hic defectus ex culpa praecedente in eis relinquitur, sicut ebrius ab homicidio non excusatur, quod per ebrietatem committit, quam sua culpa incurrit. Praeterea, licet ille qui est in peccato, non habeat hoc in propria potestate, quod omnino vitet peccatum, habet tamen potestatem nunc vitare hoc vel illud peccatum, ut dictum est; unde quodcunque committit, voluntarie committit, et ita non immerito sibi imputatur ad culpam. Da ciò vogliono, che il Santo intenda dire, che alcuni peccatori possono bensì evitare i peccati in particolare, ma non tutti i peccati, perché in pena dei peccati prima commessi sono privati d’ogni grazia attuale. Ma rispondiamo che in questo luogo san Tommaso non parla della grazia attuale, ma dell’abituale, o sia santificante, mancando la quale il peccatore non può mantenersi per lungo tempo senza cadere in nuovi peccati, secondo quanto insegna in più luoghi. E che lo stesso intenda nel passo di sopra riferito, si vede chiaramente dal contesto delle parole che ivi premette, e che bisogna più distesamente registrare per intendere vero sentimento del Santo. Primieramente il titolo del citato Capo 160 è questo: Quod homo in peccato exsistens sine gratia peccatum vitare non potest. Ecco che il titolo medesimo spiega non intendere altro il santo Dottore, se non che il medesimo che ha detto negli altri luoghi riferiti. ...

Dio dona comunemente la grazia necessaria a tutti i Giusti per osservare i precetti, ed a tutt’i peccatori per convertirsi. Se Iddio dunque vuole tutti salvi, per conseguenza a tutti dà la grazia e gli aiuti necessari per conseguire la salute; altrimenti non potrebbe dirsi ch’Egli abbia vera volontà di salvare tutti. Antecedentis voluntatis, dice san Tommaso, qua Deus vult omnium salutem, effectus est ordo naturae in finem salutis, et promoventia in finem omnibus communiter proposita, tam naturalia, quam gratuita. è certo, contro quello che hanno bestemmiato Lutero e Calvino, che Dio non impone una legge impossibile ad osservarsi. Al contrario è certo, che senza l’aiuto della Grazia è impossibile l’osservanza della legge, come dichiarò contro i Pelagiani Innocenzo I dicendo: Necesse est ut quo (scil. Deo) auxiliante vincimus, Eo non adjuvante vincamur. E lo stesso dichiarò Celestino Papa. Dunque se il Signore dà a tutti una legge possibile, per conseguenza dà anche a tutti la Grazia necessaria ad osservarla, o immediatamente o mediatamente per mezzo della Preghiera, come troppo chiaramente ha dichiarato il Sacro Concilio di Trento: Deus impossibilia non jubet sed jubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adjuvat ut possis (Sess. 6. cap. 13). Altrimenti, se Dio ci negasse la Grazia e prossima, e remota per adempire la legge, o la legge in vano sarebbe stata data, o il peccato sarebbe necessario, ed essendo necessario, non sarebbe più peccato, come appresso a lungo dimostreremo. È questo è il sentimento comune dei Padri. Vediamolo. San Cirillo Alessandrino dice: Quod si (quis) perinde, atque alii, et ex aequo, cum ipsis Divinae gratiae opibus praeditus propria voluntate delapsus est; quomodo non eum servasse dicitur Christus, qui, quantum ad cavendi peccati auxila concessa pertinet, hominem liberavit? Come (dice il Santo) quel peccatore, che ha ricevuti egualmente cogli altri che sono stati fedeli, gli aiuti della Grazia, ed ha voluto spontaneamente peccare, può lagnarsi poi di Gesù Cristo, il quale in quanto a Sé già l’ha liberato per mezzo degli aiuti concessigli? San Giovanni Grisostomo domanda: Unde nam alii vasa irae, alii misericordiae sunt? E risponde: Ex libera sua utique voluntate; nam Deus cum sit valde bonus in utrisque parem benignitatem ostendit. Quindi parlando di Faraone, chiamato nella Scrittura indurito di cuore, soggiunge: Si salutem Pharao non est adeptus, totum id illius voluntati tribuendum est, cum nihil minus, quam qui salutem assecuti sunt, concessum illi fuerit. Ed in altro luogo parlando della domanda della Madre dei Figli di Zebedeo sulle parole, Non est meum dare vobis etc. dice cosi: Hoc Illum (sc. Christum) significare voluisse, non suum esse tantummodo dare, sed et certantium esse capere; nam si istud ex Se uno penderet, omnes utique salvi essent Homines. Sant’Isidoro Pelusiota: Etenim serto, et modis omnibus (Deus) vult eos adjuvare, qui in vitio volutantur, ut excusationem eripiat. San Cirillo Gerosolimitano: Ad aeternae vitae januam (Dominus) aperuit, ut omnes ea, quantum in ipso est, nullo impediente potiantur. Ma la dottrina di questi Padri Greci non piace a Giansenio, il quale ha la temerità di dire, che i Padri Greci imperfettissimamente hanno parlato della Grazia: Nulli imperfectius de Gratia quam Graeci locuti sunth. Dunque circa la materia della Grazia non dovremmo noi seguire gl’insegnamenti dei Padri Greci, che sono stati i primi Maestri, e Colonne della Chiesa? Forse la Dottrina dei Greci, specialmente in questa materia così importante, era diversa dalla Chiesa Latina? Quandoché al contrario è certo, che dalla Chiesa Greca è passata alla Latina la vera Dottrina della Fede; onde, come scrisse sant’Agostino contro Giuliano che opponeva l’autorità dei Padri Greci, non può dubitarsi essere la stessa Fede quella dei Latini, che quella dei Greci. E chi forse dobbiamo seguitare? Forse i suoi errori (di Giansenio, ndR) già condannati come eretici dalla Chiesa, avendo avuto egli l’audacia di dire, che anche ai Giusti manca la Grazia la quale renda possibili loro alcuni precetti; e che merita e demerita l’Uomo, ancorché operi per necessità, sempre che non è forzato dalla violenza? Nascendo questi e gli altri suoi errori dal suo falsissimo Sistema della dilettazione relativamente vittrice, del quale si parlerà a lungo nel confutarlo nel Capo III. Ma giacché a Giansenio non soddisfano i Padri Greci, vediamo che ne dicono i Latini. Ma questi in niente dai Greci discordano. San Girolamo dice: Nihil boni operis (Homo) agere potest absque Eo, qui ita concessit liberum arbitrium, ut suam per singula opera gratiam non negaret. Si noti, per singula opera gratiam non negaret. Sant’Ambrogio: Quia enim venit, et januam pulsat, vult semper intrare, sed in nobis est quod non semper ingreditur. San Leone: Juste instat praecepto, qui praecurrit auxilio. Sant’Ilario: Nunc per unum in omnes donum justificationis gratia abundavit. Innocenzo I: Quotidiana praestat (Homini) remedia, quibus nisi freti nitamur, nequaquam humanos vincere poterimus errores. Sant’Agostinop: Non tibi deputatur ad culpam quod invitus ignoras, sed quod negligis quaerere quod ignoras. Neque illud quod vulnerata membra non colligis, sed quod (nota) volentem sanare contemnis, ista tua propria peccata sunt: nulli enim homini ablatum est scire utiliter quaerere. In altro luogo: Quod ergo ignorat (Anima) quid sibi agendum sit, ex eo est quod nondum accepit, sed hoc quoque accipiet, si hoc quod accepit bene usa fuerit: accepit autem, ut pie ac diligenter quaerat, si volet. Si noti, accepit autem, ut pie ac diligenter quaerat. Sicché ognuno riceve almeno la grazia remota di cercare, della quale se si avvale bene riceverà poi la prossima ad operare quel che prima non poteva fare. E tutto ciò il Santo Dottore lo fonda sul principio, che nessuno pecca in ciò che non può evitare; dunque (soggiunge) se l’Uomo pecca in qualche cosa, intanto pecca, in quanto può evitarla colla grazia del Signore, la quale a nessuno manca: Neminem peccare in eo, quod nullo modo caveri potest. Peccatur autem; caveri igitur potest, sed opitulante Illo, qui non potest falli. Ragione evidente, per cui si fa chiaro (come appresso meglio esamineremo, parlando delle colpe degli Ostinati) che se mancasse la grazia necessaria ad osservare i precetti, non vi sarebbe peccato. Lo stesso insegna san Tommaso in più luoghi. In un luogo spiegando il testo dell’Apostolo, Qui vult omnes homines salvos fieri, dice: Et ideo gratia nulli deest, sed omnibus (quantum in se est) se communicat, sicut nec sol deest oculis caecis. Sicché, siccome il sole diffonde a tutti la sua luce, e di quella solamente ne son privi coloro che volontariamente si acciecano; così Iddio comunica la grazia a tutti per osservare la legge, e gli Uomini in tanto si perdono, perché non vogliono avvalersene. In altro luogo: Hoc ad Divinam providentiam pertinet, ut cuilibet provideat de necessariis ad salutem, dummodo ex parte ejus (scilicet hominis) non impediatur. Se dunque a tutti Iddio dà le grazie necessarie a salvarsi, posto che la grazia attuale è necessaria a vincere le tentazioni, e ad osservare i Precetti, deve necessariamente concludersi che a tutti dà Egli la grazia attuale ad operare il bene, o immediatamente, o pure mediatamente, ma senza bisogno d’altra grazia per mettere in esecuzione il mezzo (quale sarebbe la Preghiera), al fine di ottenere la grazia prossima attuale. In altro luogo su quelle parole di san Giovanni, Nemo venit ad me etc. dice: Si non elevatur (cor humanum), non est defectus ex parte Trahentis, qui quantum in Se est non deficit, sed est propter impedimentum ejus qui trahitur. Lo stesso dice Scoto: Vult omnes homines salvare, quantum est ex parte sui, et voluntate sua antecedente, pro qua dedit eis dona communia sufficientia ad salutem. Il Concilio di Coloniau: Quanquam nemo convertatur nisi tractus per Patrem, attamen nemo excusationem praetexat quod non trahatur; Ille semper stat ante ostium pulsans per internum et externum verbum. ...

Ma resta qui a rispondere all’opposizione, che si fa dei Bambini che si perdono, morendo prima del Battesimo, e prima dell’uso della ragione. Se Dio vuol salvi tutti (si oppone), come mai poi questi Fanciulli periscono senza loro colpa, giacché sono essi privi d’ogni aiuto Divino a conseguire la salute eterna? Sono due le risposte, l’una più giusta dell’altra. Le restringo in breve. Per prima si risponde che Dio colla volontà antecedente vuol tutti salvi, e perciò ha dato già i mezzi universali per salvarsi tutti; questi mezzi poi alle volte non hanno il loro effetto,  o per ragione della propria volontà di coloro che non vogliono avvalersene, o per ragione che altri non possono avvalersene a riguardo delle cause seconde (come sono le morti naturali dei Bambini), il corso delle quali cause non è tenuto Iddio ad impedire, avendo il tutto disposto secondo i giusti giudizi della sua generale Providenza; tutto ciò si raccoglie da quel che dice san Tommaso. Gesù Cristo ha offerto i suoi Meriti per tutti, e per tutti ha istituito il Battesimo. L’applicazione poi di questo rimedio della salute, in quanto ai Bambini che muoiono prima che siano capaci di ragione, non viene già impedita per volontà diretta di Dio, ma per volontà meramente permissiva; poiché essendo Egli Provisore generale di tutte le cose, non deve disturbare l’ordine generale per provvedere al particolare. La seconda risposta è, che non è lo stesso il non esser beato, che il perire: mentre la Beatitudine eterna è un dono tutto gratuito, onde la privazione di quella non ha ragion di pena. Molto giusta poi è la sentenza di san  Tommaso, che i Bambini morti nella loro infanzia (prima del Battesimo, ndR) non hanno né pena di senso, né di danno: non di senso, dice il Santo Dottore, Quia poena sensus respondet conversioni ad creaturam, et in peccato originali non est conversio ad creaturam (non essendovi colpa propria), et ideo peccato originali non debetur poena sensus, poiché il peccato originale non importa atto. Oppongono a ciò i contrari la dottrina di sant’Agostino, il quale in nessun luogo dimostra sentire che i Bambini siano condannati anche alla pena di senso. Ma in altro luogo si dichiara il Santo, che in questo punto egli stava molto confuso; ecco le sue parole: Cum ad poenam ventum est Parvulorum, magnis (mihi crede) angustiis arctor, nec quidquid respondendum penitus invenio. Ed in altro luogo scrive, ben potersi dire che tali Bambini non ricevano né premio né pena: Non essim timendum est, ne non potuerit esse sententia media inter praemium et supplicium cum sit vita media inter peccatum et recte factum. E ciò assertivamente poi lo scrisse san Gregorio Nazianzeno: Parvuli nec caelesti Gloria, nec suppliciis a justo Judice afficientur. E della stessa sentenza fu san Gregorio Nisseno: Immatura mors Infantium demonstrat neque in doloribus et maestitia futuros eos, qui sic vivere desierunt. In quanto poi alla pena di danno, quantunque i Bambini sieno esclusi dalla Gloria, nulladimeno insegna il Maestro Angelico, il quale su questo punto ha meglio riflettuto, che nessuno si affligge della privazione di quel bene di cui non è capace; onde siccome nessun Uomo Si duole di non poter volare, o di non essere Imperatore essendo persona privata, così i Bambini non si affliggono d’esser privati della Gloria di cui non sono stati mai capaci, giacché non potevano pretenderla né per i principi della Natura, né per li propri meriti. Aggiunge san Tommaso in altro luogo un’altra ragione di ciò, dicendo che la cognizione sovrannaturale della Gloria si ha solamente per mezzo della Fede attuale, la quale sopravanza ogni naturale cognizione; ond’è poi, che i Bambini non possono aver pena della privazione della Gloria, dato che di quella non hanno mai avuta alcuna cognizione sovrannaturale. Inoltre dice nel luogo prima citato, che tali Bambini, non solo non si doleranno d’essere privi della Beatitudine eterna, ma di più che godranno dei loro beni naturali, e godranno in qualche modo anche di Dio, per ciò ch’importa la naturale cognizione, e l’amor naturale: Immo magis gaudebunt de hoc quod participabunt multum de Divina Bonitate, et perfectionibus naturalibus. Ed appresso soggiunge, che benché tali Bambini siano separati da Dio per l’unione della Gloria, non però illi conjunguntur per participationem naturalium bonorum, et ita etiam de Ipso gaudere poterunt naturali cognitione, et dilectione. ...

Ora, che poi il nostro Salvatore, come dissi, per tutti sia morto, e che per la salute di ciascun Uomo abbia offerto all’Eterno Padre l’opera della sua Redenzione, ce ne assicurano le Divine Scritture: Venit Filius hominis salvare quod perierat (Matth. 18. 11). Qui dedit redemptionem semet ipsum pro omnibus (1. Tim. 2. 6). Pro omnibus mortuus est Christus, ut et qui vivunt, non jam sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est (2. Cor. 5. 15). In hoc enim laboramus, et maledicimur, quia speramus in Deum vivum, qui est Salvator omnium hominum, maxime fidelium (1. Tim. 4. 10). Et ipse est propitiatio pro peccatis nostris; non pro nostris autem tantum, sed etiam pro totius mundi (1. Jo.). Caritas enim Christi urget nos, existimantes hoc, quoniam si unus pro omnibus mortuus est, ergo omnes mortui sunt (2. Cor. 5. 14). E parlando solamente di questo ultimo passo, domando come mai l’Apostolo dalla ragione, perché Gesù Cristo è morto per tutti, potrebbe dedurre che tutti erano morti, se non avesse per certo che Gesù Cristo veramente per tutti è morto? Tanto più che san Paolo dalla stessa ragione ne deduce l’amore, che questa verità accende in noi verso il nostro Salvatore. Ma soprattutto, a spiegare il desiderio e volontà che ha Dio di salvare tutti, vale quel che dice lo stesso Apostolo (Rom. 8 32): Qui etiam proprio Filio suo non perpecit, sed pro nobis omnibus tradidit illum. E fanno maggior forza le parole che seguono: Quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit? Se Dio ci ha donato tutto come poi dobbiamo temere, che ci abbia negato l’elezione alla Gloria, colla condizione non però della nostra corrispondenza? E se ci ha donato il Figlio, dice il dotto Cardinale Sfondrati, come ci negherà la grazia a salvarci? Hic diserte nos instruit (dice il suddetto Autore, parlando di san Paolo) Deum nos certos facere, non negaturum minus, qui dedit majus, non negaturum gratiam ad salvandum, qui dedit Filium ut salvaremurad. Ed in verità, come san Paolo poteva dire, che Iddio donandoci il Figlio ci ha donato tutto, se avesse creduto l’Apostolo, che il Signore ha esclusi molti dalla Gloria, ch’è l’unico bene, e l’unico fine per cui ci ha creati? A questi stessi molti dunque il Signore ha donato tutto, e poi ha loro negato il meglio, ch’è la Beatitudine eterna, senza la quale (giacché non v’è via di mezzo) non possono essere che eternamente infelici? Se pure non vogliamo dire un’altra cosa più disconvenevole, come ben riflette un altro dotto Autore, che Dio doni a tutti la grazia a conseguire la Gloria, ma neghi poi a molti l’entrata a goderla: doni il mezzo ma neghi il fine. Del resto tutti i santi Padri concordano nel dire, che Gesù Cristo è morto per ottenere a tutti la salute eterna. San Girolamo: Christus pro omnibus mortuus est: solus inventus est, qui pro omnibus, qui erant in peccatis mortui, offerretur. Sant’Ambrogio: Venit (Christus) ut vulnera nostra curaret; sed quia non omnes medicinam expetunt... ideo volentes curat, non adstringit invitos. In altro luogo: Omnibus opem sanitatis detulit, ut quicumque perierit, mortis suae causas sibi adscribat, qui curari noluit, cum remedium haberet. Christi autem manifesta in omnes praedicetur misericordia, qui omnes homines vult salvos fieri. Ed in altro luogo più chiaramente: Non ad unum quidem, non ad paucos, sed ad omnes testamentum suum scripsit Jesus, omnes scripti haeredes sumus; testamentum commune est, et jus omnium; haereditas universorum, et soliditas singulorum. Si noti, omnes scripti haeredes sumus; sicché il Redentore tutti ci ha scritti suoi eredi del Cielo. San Leone: Sicut Christus nullum a reatu liberum reperit, ita liberandis omnibus venit. Sant’Agostino su quelle parole di san Giovanni (cap. 3. v. 17) Non enim misit Deus Filium suum, ut judicet mundum, sed ut salvetur mundus per ipsum, dice il Santo: Ergo, quantum in Medico est, sanare venit aegrotum. Si noti, quantum in Medico est; dunque efficacemente in quanto a Sé vuole Iddio la salute di tutti, ma non può guarire (come soggiunge sant’Agostino) chi non vuol esser guarito: Sanat omnino Ille, sed non sanat invitum. Quid enim in te beatius, quam ut tanquam in manu tua vitam, sic in voluntate tua sanitatem habeas? Dicendo dunque il Santo, sanat, parla dei peccatori che sono infermi, ed inabili a procurare colle loro forze la salute: dicendo omnino, dichiara che niente manca per parte di Dio, acciocché i peccatori si sanino, e si salvino: dicendo poi, in manu tua vitam, sic in voluntate tua sanitatem habeas, dichiara che Dio con vera volontà ci vuol salvi per parte sua tutti, altrimenti non sarebbe in mano nostra l’acquistare la sanità, e la vita eterna. In altro luogo: Qui nos tanto pretio redemit, non vult perire, nec enim emit quos perdat, sed emit quos vivificet. Ci ha redenti tutti, per salvarci tutti. E quindi anima tutti a sperare la Beatitudine eterna con quella celebre sentenza: Erigat se humana fragilitas; non dicat, non ero beatus... Plus est quod (Christus) fecit, quam quod promisit. Quid fecit? Mortuus est pro te. Quid promisit? quod vives cum Illo. Alcuni han voluto dire, che Gesù Cristo ha offerto il Sangue per tutti, al fine di ottenere loro la grazia, ma non la salute. Ma il Petrocorense, parlando contro di costoro, non può soffrire questa opinione, ed esclama: O contentiosam nugacitatem! Quomodo Dei Sapientia medium salutis voluit, et non finem salutis?. Sant’Agostino inoltre, parlando contro i Giudei, dice: Agnoscitis latus quod pupugistis, quoniam et per vos, et propter vos apertum est. Se Gesù Cristo non avesse veramente dato il Sangue per tutti, avrebbero potuto rispondere i Giudei a sant’Agostino, essere ben vero ch’essi hanno aperto il Costato del Signore, ma non già che per essi è stato aperto. San Tommaso similmente non dubita, che Gesù Cristo sia morto per tutti, e da ciò ne deduce ch’Egli vuol salvi tutti: Christus Jesus est mediator Dei et hominum, non quorumdam, sed inter Deum et omnes homines, et hoc non esset, nisi vellet omnes salvare. Ciò si conferma (come già di sopra si è detto) dalla dannazione della quinta Proposizione di Giansenio, che diceva: Semipelagianum est dicere, Christum pro omnibus hominibus mortuum esse, aut sanguinem fudisse. Il senso di questa Proposizione, secondo il contesto delle altre Proposizioni dannate e secondo i principi di Giansenio, è questo: “Gesù Cristo non è morto per meritare a tutti le grazie sufficienti alla salute, ma solamente ai Predestinati”, com’esso Giansenio l’espresse chiaramente in un luogo dove scrisse così: Nullo modo ejus (scil. Augustini) principiis consentaneum est, ut Christus Dominus vel pro Infidelium in infidelitate morientium, vel pro Justorum non perseverantium aeterna salute mortuum esse, et Sanguinem fudisse sentiatur. Il contrario senso dunque Cattolico è questo: Non è semipelagiano, ma è giusto il dire, che Gesù Cristo è morto per meritare, non solo a’ Predestinati, ma a tutti ed anche ai Reprobi le grazie per conseguire secondo la presente providenza la salute eterna. Inoltre, che Dio veramente dalla parte sua voglia salvi tutti, e che Gesù Cristo per la salute di tutti è morto, ce ne assicura il precetto della Speranza, che a tutti il Signore c’impone. La ragione è chiara. San Paolo chiama la Speranza Cristiana Ancora dell’Anima, sicura e ferma: Qui confugimus ad tenendam propositam spem, quam sicut anchoram habemus animae tutam ac firmam (Heb. 6. 18). Ora, dove avremmo noi quest’ancora sicura e ferma della nostra Speranza, se non sulla verità che Dio vuol tutti salvi? Qua fiducia (dice il Petrocorense) Divinam Misericordiam sperare poterunt homines, si certum non sit quod Deus salutem omnium eorum velit? Qua fiducia Christi mortem Deo offerre, ut indulgentiam consequantur si incertum est, an pro ipsis oblata sit? E il Cardinal Sfondrati dice, che se mai Dio altri avesse eletti alla Vita eterna, ed altri esclusi, noi avremmo maggior motivo di disperare, che di sperare, vedendo già infatti, che sono molto meno gli Eletti che i Dannati. Nemo firmiter (dice il suddetto Autore) sperare posset, dum ei plura desperandi quam sperandi fundamenta suppetunt; nam multo plures sunt Reprobi, quam Electi. E se Gesù Cristo non fosse morto per la salute di tutti, come noi potremmo aver certo fondamento di sperare la salute per i Meriti di Gesù Cristo, senza una special rivelazione? Ma sant’Agostino di ciò non dubitò dicendo: Omnis namque spes, et Fidei certitudo mihi est in pretioso Sanguine Christi, qui effusus est propter nos et propter nostram salutem. Sicché il Santo perciò metteva tutta la sua speranza nel Sangue di Gesù Cristo, perché la Fede l’assicurava che Gesù Cristo era morto per tutti. Ma ci toccherà a meglio esaminare questa ragione della Speranza nel Capo IV quando parleremo del Punto principale, cioè che la grazia della Preghiera è data a tutti. ...

San Girolamo (dice a tal proprosito, ndR): Vult (Deus) salvare omnes, sed quia nullus absque propria voluntate salvatur, vult nos bonum velle, ut cum voluerimus, velit in nobis et Ipse suum implere consilium. Ed in altro luogo: Voluit itaque Deus salvare cupientes; et provocavit ad salutem, ut voluntas haberet praemium sed illi credere noluerunt. Sant’Ilario: Omnes homines Deus salvos fieri velit, et non eos tantum qui ad Sanctorum numerum pertinebunt, sed omnes omnino, ut nullas habeat exceptiones. San Paolino: Omnibus dicit Christus venite ad me etc. omnem enim (quantum in Ipso est) hominem salvum fieri vult, qui fecit omnes. Sant’Ambrogio: Etiam circa impios suam ostendere debuit voluntatem, et ideo nec proditurum debuit praeterire, ut adverterent omnes, quod in electionem etiam proditoris sui salvandorum omnium insigne praetendit... et, quod in Deo fuit, ostendit omnibus, quod omnes voluit liberare. L’Autore dell’Opera, che porta il titolo di commenti di sant’Ambrogio (e si crede essere d’Ilario Diacono come scrive Petavio), parlando sul testo di san Paolo, Qui vult omnes homines etc. domanda così: Ma giacché Dio vuol salvi tutti, essendo Egli onnipotente, perché tanti non si salvano? E risponde: Vult illos salvari, si et ipsi velint, nam utique qui legem dedit, neminem exclusit a salute... haec medicina non proficit invitis. Dice che il Signore non ha per altro escluso alcuno dalla Gloria, e dona la grazia a tutti per salvarli, ma con condizione se vogliono corrispondere, poiché la sua grazia non giova a chi la rifiuta. San Grisostomo similmente domanda: Cur igitur non omnes salvi fiunt, si vult (Deus) omnes salvos esse? E risponde: Quoniam non omnium voluntas illius voluntatem sequitur, porro ipse neminem cogit. Sant’Agostino: Vult Deus omnes homines salvos fieri, non sic tamen ut eis liberum adimat arbitrium. E lo stesso sente sant’Agostino in più altri luoghi, che appresso tra poco riferiremo. Che Gesù Cristo poi sia morto per tutti, e per ciascuno degli Uomini, anch’è chiaro, così dalle Scritture, come da quel che ne dicono i Ss. Padri. Grande certamente fu la rovina, che cagionò il peccato di Adamo a tutto il Genere umano: ma Gesù Cristo colla grazia della Redenzione riparò tutti i danni apportati a noi da Adamo. Onde ci dichiarò il Tridentino (Sess. 5. in Decr. de pecc. orig. cap. 5.) che il battesimo rende le Anime pure ed immacolate; e che il fomite che in esse rimane, non resta per loro danno, ma per far loro acquistare una corona più grande, se resistono a non consentirvi: In Renatis enim nihil odit Deus... innocentes, immaculati, puri, ac Deo dilecti effecti sunt etc. Manere autem in Baptizatis concupiscentiam vel fomitem, haec Sancta Synodus fatetur et sentit: quae cum ad agonem relicta sit, nocere non consentientibus non valet quinimo, qui legitime certaverit, coronabitur. Anzi, come dice san Leone, Ampliora adepti (sumus) per Christi gratiam, quam per Diaboli amiseramus invidiam. È stato più grande il guadagno che noi abbiam fatto per la Redenzione di Gesù Cristo, che non è stato il danno che abbiam patito per il peccato di Adamo. E ben ciò lo dichiarò l’Apostolo dicendo: Non sicut delictum, ita et donum. Ubi autem abundavit delictum superabundavit gratia (Rom. 5. 15 et 20). E lo dichiarò lo stesso nostro salvatore: Ego veni, ut vitam habeant, et abundantius habeant (Jo. 10. 10). E prima bene lo predissero Davide, ed Isaia. Davide disse: Et copiosa apud eum redemptio (Ps. 129. 7). Ed Isaia: Suscepit de manu Domini duplicia pro omnibus peccatis suis (Is. 40. 2). Sulle quali parole scrisse l’interprete: Deus ita dimisit Ecclesiae iniquitates per Christum, ut duplicia (id est multiplicia bona) susceperit pro poenis peccatorum quas merebatur. ...

Ma ritorniamo al nostro Punto, che Dio con sincera volontà voglia salvi tutti. Vediamo gli altri testi, che comprovano lo stesso. Dice il Signore per Ezechiele (33. 1l.): Vivo ego, dicit Dominus: Nolo mortem impii, sed ut convertatur a via sua, et vivat. Non solo dice che non vuole la morte, ma che vuole la vita del peccatore: e giura, come osserva Tertulliano, per essere in ciò più facilmente creduto: Jurans etiam, Vivo dicens, cupit sibi credi. Di più dice Davide: Quoniam ira in indignatione ejus, et vita in voluntate ejus (Psalm. 29. 6). Se egli ci castiga, lo fa perché i nostri peccati lo provocano a sdegno, ma in quanto alla sua volontà, Egli non vuole la nostra morte, ma la vita: Et vita in voluntate ejus. San Basilio, spiegando appunto questo testo, dice: Et vita in voluntate ejus. Quid ergo dicit? nimirum quod vult Deus omnes vitae fieri participes. Di più dice lo stesso Profeta: Deus noster, Deus salvos faciendi: et Domini Domini exitus mortis (Ps. 67. 21). Commenta il Bellarmino: Hoc est Illi proprium, haec est ejus natura, Deus noster est Deus salvans, et Dei nostri sunt exitus mortis, id est liberatio a morte. Sicché è proprio, ed è natura di Dio il salvare tutti, e liberare tutti dalla morte eterna. Di più dice il Signore: Venite ad me omnes, qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos (Matth. 11. 28). Se chiama tutti alla salute, dunque ha vera volontà di salvare tutti. Di più dice san Pietro: Nolens aliquos perire, sed omnes ad poenitentiam reverti (Petr. 3. 9). Non vuole la dannazione d’alcuno, ma vuole che tutti (omnes) facciano penitenza, e con o quella si salvino. Di più dice il Signore: Sto ad ostium et pulso, si quis aperuerit, intrabo (Apoc. 3. 20). Quare moriemini domus Israel? revertimini, et vivite (Ez. 18. 31). Quid est quod debui ultra facere vineae meae et non feci? (Isa. 4). Quoties volui congregare filios suos, quemadmodum gallina congregat pullos suos sub alas, et noluisti? (Matth. 23. 38). Come potrebbe dire il Signore, ch’Egli sta a battere i cuori di noi peccatori? Come esortarci tanto a ritornare alle sue braccia? Come rimproverarci, dicendo che cosa io dovevo più fare per salvarvi? Come dire di aver voluto accoglierci come figli, se Egli non avesse vera volontà di salvare tutti? Di più narra san Luca che Gesù Cristo, mirando da lontano Gerusalemme, e considerando la perdita di quel Popolo per cagione del loro peccato, videns civitatem flevit super illam (Luc. 19. 41). Perché mai pianse allora, dice Teofilatto col Grisostomo, nel vedere la pronta rovina degli Ebrei, se non perché veramente desiderava la loro salute? Ora come poi, dopo tante attestazioni del Signore, con cui si palesa la volontà che ha di veder salvi tutti, può mai dirsi che Dio non voglia la salvezza di tutti? Quod si ista (riprende a dire Petavio) Scripturae loca, quibus hanc suam voluntatem, tam illustribus ac saepe repetitis sententiis, imo lacrymis, ac jurejurando testatus est Deus, calumniari licet, et in contrarium detorquere sensum, ut (praeter paucos) Genus humanum omne perdere statuerit, nec eorum servandorum voluntatem habuerit, quid est adeo disertum in Fidei decretis, quod simili ab injuria et cavillatione tutum esse possit? Il dire che Dio non voglia veramente salvi tutti, dice questo grande Autore, è un’ingiuria, e cavillo contro i più chiari Decreti della Fede. E il Cardinal Sfondrati aggiunge: Plane qui aliter sentiant, nescio an ex Deo vero Deum scenicum faciant, quales sint qui Reges in Theatro se fingunt, cum tamen nihil minus quam Reges sint. Questa verità poi, che Dio voglia salvi tutti, viene confermata comunemente dai Ss. Padri. Non si dubita, che in ciò tutti i Padri Greci sono stati uniformi, in dire che Iddio voglia salvi tutti, e ciascuno degli Uomini; così san Giustino, san Basilio, san Gregorio, san Cirillo, san Metodio, san Grisostomo, tutti rapportati da Petavio. Ma vediamo quel che ne dicono anche i Padri Latini. ...

Io non intendo qui di riprovare la sentenza, che vuol la predestinazione alla Gloria avanti la previsione dei meriti; dico solo che non so comprendere, come coloro, i quali vogliono che Dio senza alcun riguardo ai meriti abbia eletti alcuni alla Vita eterna, ed altri esclusi, possano poi persuadersi ch’Esso voglia salvi tutti; se pur non intendano, che questa volontà di Dio non sia vera e sincera, ma più presto una volontà ipotetica, o metaforica. Non intendo, dico, come mai possa asserirsi, che Dio voglia tutti gli Uomini salvi, e partecipi della Gloria, quando da Esso la maggior parte di loro fossero stati già antecedentemente ad ogni loro demerito da questa Gloria esclusi. Dice Petavio in difesa della sua sentenza contraria: A che serviva, dice, l’aver dato Iddio a tutti gli Uomini il desiderio della Beatitudine eterna, quando antecedentemente ad ogni loro demerito da quella ne avesse esclusi la maggior parte? Che serviva a Gesù Cristo, il venire a salvare tutti colla sua Morte, quando già prima ne fossero stati da Dio privati tanti miserabili? A che serviva dar loro i mezzi, se prima già fossero stati esclusi dal conseguimento del fine? Che per ciò aggiunge lo stesso Petavio (e questa è una riflessione di gran peso) e dice, che se mai ciò fosse stato, dovremmo dire che quel Dio il quale ama tutte le cose da lui create, creando poi gli Uomini, non li avrebbe tutti amati, ma per la maggior parte li avrebbe al sommo odiati, escludendoli dalla Gloria, per la quale gli aveva creati. È certo che la felicità della creatura consiste nel conseguire il fine, per cui ella è creata. È certo, al contrario, che Iddio crea tutti gli Uomini per la Vita Eterna. Ora se Iddio avesse creato alcuni Uomini per la Vita eterna, e poi senza riguardo alle loro colpe li avesse esclusi da quella, egli nel crearli li avrebbe gratis sommamente odiati, facendo loro il maggior danno che mai avesse potuto incorrere, qual è l’esser esclusi dal conseguimento del loro fine, cioè dalla Gloria per cui erano stati creati. Non enim (son le parole di Petavio, ma raccorciate) medio quodam modo amorem inter et odium circa creaturas potest affici Deus, maxime circa homines, quos vel amat ad Vitam aeternam, vel odit ad damnationem. Est autem summum hominis malum alienari a Deo, ac reprobari. Quare, si cui Deus sempiternum vult exitium Animae, hunc non amat, sed odit odio illo, quod esse maximum potest in eo genere, quod naturalem ordinem excedit. E per quell’eterna rovina (sempiternum exitium) non intende già l’Autore la positiva dannazione, che Iddio destini ad alcuno, ma l’esclusione della Gloria, poiché infatti, dice Tertulliano, cosa mai gioverebbe a noi il non averci Dio creati per l’Inferno, quando nel crearci ci avesse esclusi dal numero degli Eletti? Giacché l’esser separato dagli Eletti importa necessariamente il perdere la salute, e dannarsi, mentre fra l’uno e l’altro non v’è mezzo. Quis erit enim (scrive Tertulliano) exitus segregatorum? nonne amissio salutis? Quindi conclude Petavio: Quamobrem, si omnem Deus amat hominem eo affectu, qui merita illorum antecedit, non eorum odit Animam, ac proinde non summum vult illis malum. Se dunque Iddio ama tutti gli Uomini, com’è certo, dobbiamo tenere che tutti voglia salvi, e che nessuno mai abbia odiato a tal segno, che gli abbia voluto questo gran male di escluderlo dalla Gloria, prima di prevedere i suoi demeriti. Dico non però, e replico sempre, ch’io non lo so intendere; poiché del resto, essendo questo affare della Predestinazione un arcano sì profondo, che fece dire all’Apostolo: O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae Dei, quam incomprehensibilia sunt judicia ejus, et investigabiles viae ejus! Quis enim cognovit sensum Domini? (Rom. 11. 33). Dobbiamo sottometterci al volere del Signore, che ha voluto lasciare nella Chiesa oscuro questo mistero, acciocché tutti ci umiliamo sotto gli alti giudizi della sua Divina Provvidenza. Tanto più che la Divina Grazia, per cui solamente può acquistarsi dagli Uomini la Vita eterna, questa senza dubbio si dispensa più o meno abbondantemente da Dio affatto gratis, e senza alcun riguardo ai nostri meriti. Ond’è che per salvarci sempre sarà necessario che ci buttiamo nelle braccia della Divina Misericordia, affinché ci assista colla sua Grazia ad acquistare la salute, confidando sempre nelle sue infallibili promesse di esaudire e salvare chi lo prega. ...

Ma, al contrario (dell’errore dei Novatori, ndR) così le Scritture, come tutt’i Ss. Padri ci assicurano, che Dio sinceramente con vera volontà vuol la salute di tutti, e la conversione di tutti i peccatori, mentre vivono in questa Terra. Di ciò abbiamo primieramente il testo espresso in san Paolo (1. im. 2. 4.): Qui omnes homines vult salvos fieri, et ad agnitionem veritatis venire. La sentenza dell’Apostolo è assoluta, e decretoria: Deus vult omnes homines salvos fieri. Queste parole nel loro proprio senso spiegano, che Iddio veramente vuole tutti salvi; ed è regola certa, comunemente da tutti ricevuta, che le parole della Scrittura non si debbano storcere a senso improprio, se non nel solo caso che il senso letterale ripugna alla Fede, od ai buoni costumi (Solo la Chiesa è, difatti, interprete infallibile della Scrittura, ndR). E ciò appunto a nostro proposito volle dire san Bonaventura, quando scrisse: Dicendum quod cum Apostolus dicat, quod Deus vult omnes homines salvos fieri, necesse habemus concedere, quod Deus velitc. È vero che sant’Agostino, e san Tommaso riferiscono diverse interpretazioni, che hanno date alcuni a questo testo, ma ambo questi Ss. Dottori l’hanno inteso della vera volontà, che ha Dio di salvare tutti senza eccezione. E parlando, di sant’Agostino, vedremo appresso che questo è stato il vero sentimento del Santo; onde san Prospero ributta come cosa ingiuriosa al Santo Dottore, il voler dire che sant’Agostino abbia mai supposto, che il Signore non voglia sinceramente salvi tutti, e ciascuno degli Uomini; onde esso, san Prospero, che fu il di lui fedelissimo Discepolo, così scrisse: Sincerissime credendum atque profitendum est, Deum velle omnes homines salvos fieri; siquidem Apostolus (cujus haec sententia est) sollicite praecipit, ut Deo pro omnibus supplicetur. Quest’argomento con cui lo prova il Santo, è chiaro, mentre san Paolo nel luogo citato prima dice così: Obsecro igitur primum omnium. fieri obsecrationes... pro omnibus hominibus. E poi soggiunge: Hoc enim bonum est et acceptum coram Salvatore nostro Deo, qui omnes homines vult salvos fieri. Dunque intanto vuol l’Apostolo che si preghi per tutti, in quanto Iddio vuol salvi tutti. E dello stesso argomento si avvalse san Giovanni Grisostomo: Si omnes ille vult salvos. fieri, merito pro omnibus oportet orare. Si omnes Ipse salvos fieri cupit, Illius et tu concorda voluntati. E se in qualche luogo sant’Agostino, disputando contro i Semipelagiani, par che abbia tenuta diversa interpretazione del citato testo, dicendo che Dio non voglia salvo ciascuno degli Uomini, ma solamente alcuni; ben riflette il dottissimo Petavio, che ivi il Santo ha parlato incidentemente, ma non di proposito; o pure ha parlato della grazia della volontà assoluta e vittrice (vincitrice, ndR), colla quale Dio vuole assolutamente alcuni salvi avendo detto il Santo di ciò parlando: Omnipotentis voluntas semper invicta est. Udiamo per altra via come concilia san Tommaso la sentenza di sant’Agostino con quella di san Giovanni Damasceno, il quale tiene che Dio voglia salvi tutti, e ciascuno degli Uomini colla volontà antecedente: Deus praecedenter vult omnes salvari, ut efficiat nos Bonitatis suae participes ut bonus; peccantes autem puniri vult ut justus. Sant’Agostino all’incontro in alcun luogo (come si è detto) sembra, che non voglia così. Ma san Tommaso concilia le sentenze, e dice che san Damasceno ha parlato della volontà di Dio antecedente, con cui veramente vuol salvi tutti, e sant’Agostino ha parlato della conseguente. Viene a spiegare poi san Tommaso nel luogo citato, quale sia questa volontà antecedente di Dio, e qual la conseguente, e dice: Voluntas antecedens est, qua (Deus) omnes homines salvos fieri vult. Consideratis autem omnibus circumstantiis personae, sic non invenitur de omnibus bonum esse quod salventur; bonum enim est eum qui se praeparat, et consentit salvari, non vero nolentem et resistentem etc. Et haec dicitur voluntas consequens, eo quod praesupponit praescientiam operum, non tanquam causam voluntatis, sed quasi rationem voliti. Sicché dello stesso sentimento, che Dio veramente voglia salvi tutti, e ciascuno degli Uomini, è stato anche san Tommaso; ed Egli lo conferma in più altri luoghi; sulle parole: Eum qui venit ad me, non ejiciam, adducendo l’autorità del Grisostomo, fa dire al Signore: Secundum Chrysostomum: Si ergo pro salute hominum incarnatus sum, quomodo debeo eos eicere? Et hoc est quod dicit: Ideo non ejicio, quia descendi de Caelo ut faciam voluntatem Patris, qui vult omnes salvos fierii. In altro luogo: Deus voluntate sua liberalissima dat (gratiam) omni praeparanti se (I. Tim.). Qui vult omnes homines salvos fieri. Et ideo gratia Dei nulli deest, sed omnibus quantum in se est se communicat. In oltre più espressamente lo dichiara spiegando il testo citato di san Paolo (1 Tim. 2, 4): Qui vult omnes homines salvos fieri; dice il Santo Dottore: In Deo salus omnium hominum secundum se considerata habet rationem ut sit volibilis, et sic ejus voluntas est antecedens; sed si consideretur bonum justitiae, et quod peccata puniantur, sic non vult, et haec est voluntas consequens. E qui si vede che l’Angelico è stato fermo nel dichiarare, che cosa intendeva Egli per volontà antecedente, e che per conseguente; poiché qui conferma lo stesso che disse già sulle Sentenze, come abbiam riferito poc’anzi. Vi aggiunge solo in questo luogo la similitudine del Mercante, che vuole antecedentemente salvare tutte le sue merci; ma sovraggiungendo la tempesta, allora non le vuole più salve, al fine di salvare la sua vita. E così parimenti poi dice il Santo, che Dio considerata l’iniquità di alcuni, li vuol puniti per bene della sua Giustizia, e conseguentemente non li vuole salvi; ma antecedentemente con vera volontà (in sé parlando) vuole la salute di tutti. Sicché, come prima scrisse in altro luogo, la Divina Volontà di salvare tutti da parte sua è assoluta, solamente è condizionata per parte dell’oggetto voluto, cioè se l’uomo vuol corrispondere, come richiede il retto ordine per conseguire la salute: Nec tamen (dice) est imperfectio ex parte Voluntatis Divinae, sed ex parte voliti quod non accipitur cum omnibus circumstantiis, quae exiguntur ad rectum ordinem in salutem. E nella citata questione 19 (art. 6 ad I.) di nuovo e più distintamente dichiara l’Angelico che cosa intende per volontà antecedente, e che cosa per conseguente, dicendo così: Iudex antecedenter vult omnem hominem vivere, sed consequenter vult homicidam suspendi. Similiter Deus antecedenter vult omnem hominem salvari, sed consequenter vult quosdam damnari, secundum exigentiam suae justitiae. ...

Supposta dunque com’è certa, la necessità che abbiamo di pregare per conseguire la salute, così come nella Prima Parte al Capo I. abbiamo provato; dobbiamo conseguentemente supporre anche per certo, che ognuno abbia l’aiuto Divino a potere attualmente pregare, senza bisogno d’altra grazia speciale, e colla Preghiera ad ottenere poi tutte le altre grazie necessarie per osservare perseverantemente i Precetti, e così acquistare la Vita eterna; sicché nessuno che si perde, può aver mai alcuna scusa d’essersi perduto per mancanza degli aiuti necessari a salvarsi. Siccome Iddio nell’ordine naturale ha disposto, che l’Uomo nasca nudo, e bisognoso di più cose per vivere, ma poi gli ha dato mani, e mente, con cui può vestirsi, e provvedere a tutti gli altri suoi bisogni così nell’ordine soprannaturale l’Uomo nasce impotente ad ottenere colle sue forze l’eterna salute, ma il Signore per sua bontà concede ad ognuno la grazia della Preghiera, colla quale può poi impetrare tutte l’altre grazie, che gli bisognano per osservare i Precetti, e salvarsi. Ma prima di venire a dichiarare questo punto, è opportuno premettere due Preliminari. Il Primo, che Dio vuol salvi tutti, e che perciò Gesù Cristo per tutti è morto. Il secondo, che Iddio in quanto alla parte sua dona a tutti le grazie necessarie per salvarsi, colle quali ognuno si salva, se a quelle corrisponde. Preliminare I. Dio vuol tutti salvi, e perciò Gesù Cristo è morto, per salvare tutti. Dio ama tutte le cose che ha creato: Diligis enim omnia, quae sunt, et nihil odisti eorum quae fecisti (Sap. 11. 25). L’amore non può stare ozioso: Habet omnis amor vim suam, dice sant’Agostino, nec potest vacare. Ond’è che l’amore porta seco necessariamente la benevolenza, sicché l’Amante non può lasciare di far bene alla persona amata, sempre se può: Amor, quae bona illi esse credit quem amat, ea studet efficere, scrisse Aristotele (I. Rethor.). Se dunque Dio ama tutti gli Uomini, tutti vuole per conseguenza che acquistino la salute eterna, ch’è il sommo e l’unico bene dell’Uomo, mentre questo è l’unico fine per cui gli ha creati. Habetis fructum vestrum in sanctificationem, finem vero vitam aeternam (Rom. 6. 22). Questa Dottrina che Dio voglia salvi tutti, e che per la salute di tutti sia morto Gesù Cristo, oggidì è Dottrina certa, e Cattolica della Chiesa, come dicono comunemente i Teologi, Petavio, Gonet, Gotti, ed altri con Tournely, il quale aggiunge esser Dottrina prossima alla Fede. Onde con ragione furono condannati i Predestinaziani, che fra gli altri errori, come può vedersi presso il Noris, Petavio, e più distintamente presso Tournely, dicevano, che Dio non vuole salvi tutti siccome attestò Incmaro Arcivescovo di Rems nell’Epistola a Nicola I. dicendo: Veteres Praedestinatiani dixerunt, quoniam non vult Deus omnes salvos fieri, sed tantum eos qui salvantur. Questi furono condannati prima dal Concilio di Arles nel 475 dove si disse: Anathema illi qui dixerit, quod Christus non pro omnibus mortuus sit, nec omnes homines salvos esse velit. E poi dal Concilio di Lione nel 490 dove fu costretto Lucido a ritrattare col dichiarare: Damno eum qui dicit quod Christus non mortem pro omnium salute susceperit. E così parimenti nel secolo nono Odescalco, che rinnovò lo stesso errore, fu condannato dal Concilio di Carisia, in cui nell’art. 3. fu deciso: Deus omnes homines sine exceptione vult salvos fieri, licet non omnes salventur. E nell’art. 4.: Nullus est pro quo (Christus) passus non fuerit, licet non omnes ejus mysterio redimantur. Lo stesso errore fu ultimamente condannato nelle Proposizioni 12 e 30 di Quesnellio. Nell’una dicevasi: Quando Deus vult salvare Animam, effectus indubitabilis sequitur Voluntatem Dei. Nell’altra: Omnes quos Deus vult salvare per Christum, salvantur infallibiliter. Queste proposizioni furono giustamente dannate, appunto perché significavano, che Dio non vuol salvi tutti; poiché dicendosi, che infallibilmente si salvano quelli che Dio vuol salvi, se ne deduceva che Dio non voglia salvi tutti i Fedeli, e tanto meno tutti gli Uomini. E chiaramente ciò fu anche espresso dal Concilio di Trento Sess. 6. cap. 2. dove si disse che Gesù Cristo è morto, Ut omnes adoptionem filiorum reciperent. E nel cap. 3.: Verum, etsi ille pro omnibus mortuus est, non omnes tamen mortis ejus beneficium recipiunt. Dunque suppone per certo il Concilio, che il Redentore non solo è morto per gli Eletti, ma anche per coloro che non ricevono il beneficio della Redenzione per loro colpa. Né vale a dire, che con ciò il Concilio ha voluto solamente dire, che Gesù Cristo ha dato al Mondo un prezzo sufficiente a salvare tutti; poiché in questo senso potrebbe dirsi esser morto anche per li Demoni. Oltreché qui il Tridentino ha voluto riprovare l’errore dei Novatori, i quali non negavano già che il Sangue di Gesù Cristo era sufficiente per salvare tutti, ma dicevano che infatti non era stato sparso e dato per tutti; e questo errore ha voluto condannare il Concilio, dicendo che il Salvatore per tutti è morto. Di più nel cap. 6 dice, che i peccatori si dispongono alla giustificazione colla speranza in Dio per i Meriti di Gesù Cristo: In spem eriguntur, fidentes Deum sibi propter Christum propitium fore. Ora, se Gesù Cristo non avesse applicato per tutti i Meriti della sua Passione, posto che niuno potrebbe esser certo (senza speciale rivelazione) d’esser del numero di coloro ai quali il Redentore avesse voluto applicare il frutto dei suoi Meriti, nessun peccatore potrebbe disporsi con tale speranza, non avendo certo e sicuro fondamento (necessario alla speranza) che Dio voglia salvi tutti, e voglia perdonare tutt’i peccatori disposti (a redimersi, ndR) per i Meriti di Gesù Cristo. E ciò, oltre l’errore già condannato in Baio, che diceva non esser morto Gesù Cristo che per li soli eletti, è condannato anche in Giansenio nella quinta sua Proposizione: Semipelagianum est dicere, Christum pro omnibus omnino hominibus mortuum esse, aut Sanguinem fudisse. Ed Innocenzo X nella sua Costituzione dell’anno 1653 dichiarò espressamente, che il dire non esser morto Cristo che solamente per la salute degli Eletti, è proposizione empia, ed eretica. ...

Ma sino a quando s’ha da pregare? Sempre, risponde il medesimo Santo (San Giovanni Grisostomo), sino che riceviamo la sentenza favorevole della salute eterna, viene a dire sino alla morte: Non desistas (dice il Santo) donec accipias. E soggiunge che colui il quale dice: Io non lascerò di pregare fintanto che non mi salvo quegli certamente si salverà: Si dixeris, Nisi accepero non recedam, prorsus accipies. Scrive l’Apostolo, che molti corrono al pallio, ma quell’uno solamente lo riceve, che giunge a prenderlo: Nescitis quod ii qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium? Sic currite, ut comprehendatis (1. Cor. 9. 24). Non basta dunque il pregare per salvarci, bisogna che preghiamo sempre, finché arriviamo a ricevere la corona che Dio promette, ma promette solamente a coloro che sono costanti a pregarlo sino alla fine. Sicché se vogliamo salvarci, dobbiamo fare come faceva Davide, che teneva sempre rivolti gli occhi al Signore, per implorare il Suo soccorso, e non restare vinto dai suoi Nemici. Oculi mei semper ad Dominum, quia ipse evellet de laqueo pedes meos (Psal. 24. 15). Siccome il Demonio non lascia di tenderci continue insidie per divorarci, secondo quanto scrive san Pietro: Adversarius vester diabolus, sicut leo rugiens, circuit quaerens quem devoret (l. Petr. 5. 8), così dobbiamo noi continuamente stare colle armi alla mano, per difenderci da un tale nemico, e dire col Profeta Regale: Persequar inimicos meos, et non convertar, donec deficiant (Psalm. 17. 4). Io non lascerò di combattere, finché non vedrò sconfitti i miei Avversari. Ma come potremo noi ottenere questa vittoria, così per noi importante, e così difficile? Perseverantissimis precibus, ci risponde sant’Agostino, solo colle preghiere, ma preghiere perseverantissime. E sino a quando? Sino a che durerà il combattimento. Sicut nunquam deficit pugna, dice san Bonaventura, sic nunquam cessemus petere misericordiam (Serm. 27. de Conf.). Siccome di continuo dobbiamo combattere, così di continuo dobbiamo cercare a Dio l’aiuto per non esser vinti. Guai, dice il Savio, a chi in questa battaglia lascia di pregare: Vae his qui perdiderunt sustinentiam (Eccli. 2. 16). Noi ci salveremo, ci avvisa l’Apostolo, ma con questa condizione: Si fiduciam, et gloriam spei usque ad finem retineamus (Hebr. 3. 6). Se saremo costanti a pregare con confidenza sino alla morte. Diciamo dunque collo stesso Apostolo, animati dalla Misericordia di Dio, e dalle sue Promesse: Quis ergo separabit nos a caritate Christi? tribulatio? an angustia?... an periculum? an persecutio? an gladius? (Rom. 8. 35). Chi avrà da dividerci dall’Amore di Gesù Cristo? Forse la tribolazione? Il pericolo di perdere i beni di questa Terra? Le persecuzioni dei Demoni, o degli Uomini? I tormenti dei Tiranni? In his omnibus superamus (ci fa animo san Paolo) propter eum qui dilexit nos (Ibid. v. 37). No (egli diceva) niuna tribolazione, niuna angustia, pericolo, persecuzione, o tormento potrà mai separarci dall’Amore di Gesù Cristo; perché vinceremo tutto col Divino aiuto, e combattendo per Amore di quel Signore che ha dato la vita per noi. Il P. Ippolito Durazzo in quel giorno in cui risolse di lasciar la Prelatura di Roma, e di darsi tutto a Dio, con entrare (come poi già fece) nella Compagnia di Gesù temendo della sua infedeltà per cagione della sua debolezza, diceva a Dio: Non me deseras; Signore, ora che mi son dato tutto a Voi, per pietà non mi abbandonate. Ma sentì dirsi da Dio nel suo cuore: tu non me deseras; più presto (gli diceva Iddio), Io dico a te che non mi lasci. E così finalmente il Servo di Dio confidato nella Divina Bontà, e nel suo aiuto, concluse dicendo: Dunque mio Dio, Voi non lascerete me, ed io non lascerò Voi. Se vogliamo in conclusione che Dio non ci lasci, non dobbiamo lasciar noi di pregarlo sempre a non abbandonarci. Facendo così, certamente Egli sempre ci assisterà, e non permetterà mai che lo perdiamo, e ci separiamo dal suo Amore. Ed a questo fine non solamente procuriamo di chiedere sempre la Perseveranza finale, e le grazie necessarie per ottenerla; ma cerchiamo nello stesso tempo anticipatamente sempre al Signore la grazia di seguire a pregare: che fu appunto quel gran dono, ch’Egli prometté ai suoi Eletti per bocca del Profeta: Et effundam super Domum David, et super habitatores Jerusalem spiritum gratiæ, et precum (Zach. 12. 10). Oh che grazia grande è lo Spirito delle Preci [delle Preghiere, ndR], cioè la grazia che Dio concede ad un’Anima di sempre pregare. Non lasciamo dunque di chiedere sempre a Dio questa grazia, e questo Spirito di sempre pregare; perché se pregheremo sempre, otterremo certamente dal Signore la Perseveranza, ed ogni altro dono che desideriamo, mentre non può mancare la Sua promessa di esaudire chi lo prega. Spe enim salvi facti sumus (Rom. 8. 24). Con questa speranza di sempre pregare, possiamo tenerci per salvi. Hujus nobis Urbis fducia latum praebebit ingressum. Questa speranza, diceva il venerabile Beda, ci darà l’entrata sicura nella Città del Paradiso.

Sicché per ottenere la Perseveranza, bisogna che sempre ci raccomandiamo a Dio, la mattina, la sera, nella Meditazione, nella Messa, nella Comunione, e sempre: specialmente in tempo di tentazioni, con dire sempre allora, e replicare: Signore aiutatemi, Signore assistetemi, tenetemi le mani sopra, non mi abbandonate, abbiate pietà di me. V’è cosa più facile di questa, che dire: Signore aiutatemi, assistetemi? Sulle parole del Salmista: Apud me oratio Deo vitae meae (Ps. 41. 10), dice la Glossa: Dicet quis non possum jejunare, dare eleemosynas; si dicitur ei, ora, non potest hoc dicere. Perché non v’è cosa più facile che il pregare. Ma bisogna che non lasciamo mai di pregare, bisogna che continuamente facciamo (per così dire) forza a Dio affinché ci soccorra sempre, ma forza che Gli è cara, e gradita. Haec vis grata Deo, scrisse Tertulliano; e san Girolamo disse, che le nostre preghiere, quanto sono più perseveranti ed importune, tanto più sono accette a Dio: Oratio quandiu importuna est, plus amica est. Beatus vir qui audit me, et vigilat ad fores meas quotidie (Prov. 8. 34). Beato quell’Uomo, dice Dio, che mi ascolta, e vigila continuamente colle sante preghiere alle porte della mia Misericordia. Ed Isaia dice: Beati omnes qui expectant eum (Isa. 30. 18). Beati coloro che sino alla fine aspettano (pregando) la loro salute dal Signore. Perciò nel Vangelo ci esorta Gesù Cristo a pregare, ma in qual modo? Petite, et accipietis; quaerite, et invenietis: pulsate, et aperietur vobis (Luc. 11. 9). Bastava l’aver detto petite, che serviva aggiungere quel quaerite, e pulsate? Ma no, che non fu superfluo l’aggiungerli; con ciò ha voluto il Redentore insinuarci, che noi dobbiamo fare, come fanno i Poveri che vanno mendicando: questi se non ricevono la limosina che chiedono, e sono licenziati, non lasciano di domandarla, e di tornarla a chiedere, e se più non comparisce il Padrone della Casa, si mettono a bussare le porte, sino a rendersi molto importuni e molesti. Ciò vuole Dio, che facciamo noi: che preghiamo, e torniamo a pregare, e non lasciamo mai di pregare, che ci assista, che ci soccorra, che ci dia luce, ci dia forza, e non permetta che mai abbiamo a perdere la Sua Grazia. Dice il dotto Lessio, che non può essere scusato da colpa grave, chi non prega stando in peccato o in pericolo di morte; o pure chi per notabile tempo trascura di pregare, cioè (come dice) per uno o due mesi; ma ciò s’intende fuori del tempo di tentazioni, poiché chi si ritrova combattuto da qualche grave tentazione, egli senza dubbio pecca gravemente, se non ricorre a Dio coll’Orazione, chiedendo l’aiuto per resistere a quella, vedendo che altrimenti si mette a prossimo, anzi certo pericolo di cadere. Ma dirà taluno: Giacché il Signore può e vuole darmi la santa Perseveranza perché non me la concede tutta in una volta, quando gliela domando? Son molte le ragioni, che ne assegnano i Ss. Padri. Iddio non la concede in una volta, e la differisce, primieramente per meglio provare la nostra confidenza. In oltre, dice sant’Agostino, acciocché maggiormente noi la sospiriamo; scrive il Santo, che i doni grandi richiedono gran desiderio, giacché i beni presto ricevuti non si tengono poi in quel pregio, che si tengono quelli che per lungo tempo sono stati desiderati: Non vult (Deus) cito dare, ut discas magna magne desiderare; diu desiderata dulcius obtinentur; cito autem data vilescunt. Inoltre lo fa, acciocché noi non ci scordiamo di Lui; se noi stessimo sicuri già della perseveranza, e della nostra salute, e non avessimo continuo bisogno dell’aiuto di Dio per conservarci nella sua Grazia, e salvarci, facilmente ci scorderemmo di Dio. Il bisogno fa, che i Poveri frequentino le case dei Ricchi. Onde il Signore, per tirarci a Sé (come dice san Giovanni Grisostomo), e per vederci spesso ai piedi Suoi, affinché possa così maggiormente beneficarci, a questo fine trattiene di darci la grazia compita della salute sino al tempo della nostra morte: Neque renuens nostras preces differt, sed hac arte, sedulos nos efficiens, ad Semet ipsum attrahere vult. Inoltre lo fa, acciocché noi col proseguire a pregare ci stringiamo con Esso lui maggiormente con dolci legami d’amore: Oratio (dice lo stesso Grisostomo) non parvum vinculum est dilectionis in Deum, quae cum Eo colloqui assuefacit. Quel continuo nostro ricorrere a Dio colle preghiere, e quell’aspettare con confidenza da Esso le grazie, che desideriamo, oh che grande incentivo e vincolo d’amore egli è, per infiammarci, e legarci più strettamente con Dio! ... (prosegue) ...

Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Napoli, varie ed., 1759 - 1776. Della perseveranza richiesta nel pregare, parte 1. E’ necessario, dunque, che le nostre Preghiere siano umili, e confidenti, ma ciò non basta per conseguire la Perseveranza finale, e con quella la salute eterna. Le preghiere particolari otterranno sì bene le particolari grazie che a Dio si chiederanno, ma se non sono perseveranti, non otterranno la finale Perseveranza, la quale, perché contiene il cumulo di molte grazie insieme, richiede moltiplicate preghiere, e continuate fino alla morte. La grazia della salute non è una sola grazia, ma una catena di grazie, le quali tutte poi si uniscono con la grazia della Perseveranza finale; ora a questa catena di grazie deve corrispondere un’altra catena (per così dire) delle nostre preghiere; se noi trascurando di pregare spezziamo la catena delle nostre preghiere, si spezzerà ancora la catena delle grazie, che ci hanno da ottenere la salute, e non ci salveremo. È vero che la Perseveranza finale non si può da noi meritare, come insegna il sacro Concilio di Trento, dicendo: Aliunde haberi non potest, nisi ab eo qui potens est eum qui stat statuere, ut perseveranter stet (Sess. 6. cap. 13). Nulladimeno dice sant’Agostino, che questo gran dono della Perseveranza in qualche modo ben può meritarsi con le preghiere, cioè pregando impetrarsi: Hoc ergo donum (Perseverantiae) suppliciter emereri potest, id est supplicando impetrari potesta. E soggiunge il P. Suarez, che chi prega, infallibilmente l’ottiene. Ma per ottenerlo, e salvarsi, dice san Tommaso, è necessaria una perseverante e continua preghiera: Post Baptismum autem necessaria est homini jugis oratio, ad hoc quod Caelum introeat. E prima lo disse più volte il nostro medesimo Salvatore: Oportet semper orare, et non deficere (Luc. 18. 1). Vigilate itaque omni tempore orantes, ut digni habeamini fugere ista omnia quae futura sunt, et stare ante Filium hominis (Luc. 21. 36). Lo stesso sta detto prima nel Vecchio Testamento: Non impediaris orare semper (Eccli. 18. 22). Omni tempore benedic Deum, et pete ab eo, ut vias tuas dirigat (Tob. 4. 20). Quindi l’Apostolo inculcava ai suoi Discepoli, che non lasciassero mai di pregare: Sine intermissione orate (1. Thess. 5. 17). Orationi instate vigilantes in ea (Coloss. 4. 2). Volo ergo viros orare omni loco (l. Tim. 2. 8). Il Signore ben vuole darci la Perseveranza, e la Vita eterna, ma dice san Nilo, non vuol concederla se non a chi perseverantemente ce la domanda: Vult beneficio afficere in oratione perseverantes. Molti peccatori coll’aiuto della Grazia giungono a convertirsi a Dio, ed a ricevere il perdono; ma poi perché lasciano di cercare la Perseveranza, tornano a cadere, e perdono tutto. Né basta, dice il Bellarmino, chiedere la grazia della Perseveranza una volta, o poche volte; dobbiamo cercarla sempre, in ogni giorno sino alla morte, se vogliamo ottenerla: Quotidie petenda est, ut quotidie obtineatur. Chi la cerca in un giorno, per quel giorno l’otterrà; ma se non la cerca nel domani, domani cadrà. E ciò è quel che volle darci ad intendere il Signore nella Parabola di quell’Amico, che non volle dare i pani a colui che glieli domandava, se non dopo molte ed importune richieste dicendo: Si non dabit illi surgens, eo quod amicus sit, propter improbitatem tamen ejus surget, et dabit illi quotquot habet necessarios (Luc. 11. 8). Ora se un tale amico, dice sant’Agostino, solo per liberarsi dell’importunità di colui, gli darebbe anche contro sua voglia i pani che chiede, quanto magis dabit Deus bonus, qui nos hortatur ut petamus, cui displicet si non petamus? Quanto più Dio, ch’essendo Bontà infinita ha tanto desiderio di comunicarci i suoi beni, ci donerà le sue grazie, quando gliele cerchiamo? tanto più ch’Egli stesso ci esorta a chiederle, e gli dispiace se non le domandiamo. Ben vuole dunque ... ... il Signore concederci la salute, e tutte le grazie per quella, ma vuole che noi non lasciamo di continuamente domandarcele sino all’importunità. Dice Cornelio a Lapide sul citato Evangelio: Vult nos esse Deus perseverantes in oratione usque ad importunitatem. Gli uomini della terra non possono sopportare gl’importuni, ma Dio non solo ci sopporta, ma ci desidera importuni in cercargli le grazie, e specialmente la santa Perseveranza. Dice san Gregorio che Dio vuole che se gli faccia violenza colle preghiere, poiché una tal violenza non già lo sdegna, ma lo placa: Vult Deus vocari, vult cogi, vult quadam importunitate vinci... Bona violentia, qua Deus non offenditur, sed placatur ...

Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Napoli, varie ed., 1759 - 1776. Della confidenza colla quale dobbiamo pregare, parte 4 ed ultima. Ma sopra tutti esamina più minuziosamente questo punto il Dottore Angelico, e non dubita di asserire, che anche il peccatore è esaudito, se prega; dicendo che sebbene la sua Orazione non è meritoria, ha nondimeno la forza d’impetrare; poiché l’impetrazione non si appoggia alla giustizia, ma alla Divina Bontà: Meritum (dice il Santo) innititur justitiae, sed impetratio innititur gratiae. Così appunto pregava Daniele: Inclina, Deus meus, aurem tuam, et audi... Neque enim in justificationibus nostris prosternimus preces ante faciem tuam, sed in miserationibus tuis multis (Dan. 9. 18). Allorché dunque preghiamo, dice san Tommaso, non è necessario l’essere Amici di Dio, per impetrarne le grazie che cerchiamo, la stessa Preghiera ci rende Suoi amici: Ipsa Oratio familiares nos Deo facit. Inoltre aggiunge san Bernardo una bella ragione, dicendo che tal Preghiera del peccatore di uscire dal peccato, nasce dal desiderio di ritornare in Grazia di Dio; ora questo desiderio è un dono, che certamente non gli viene dato da altri, che da Dio medesimo; a che dunque dice poi il Santo, darebbe Iddio al peccatore un tal santo desiderio, se non volesse esaudirlo? Desiderium ad quid daret, nisi vellet exaudire? E ben di ciò ve ne sono tanti esempi nelle stesse Divine Scritture, di peccatori che pregando sono stati liberati dal peccato. Così fu liberato il Re Acab (3. Reg. 2.). Così il Re Manasse (2. Paralip. 33.). Così il Re Nabucco (Dan. 4.). Così il buon Ladrone (Luc. 23. 43.). Gran cosa, e gran valore della Preghiera! Due peccatori muoiono sul Calvario accanto a Gesù Cristo, uno perché prega (memento mei), si salva; l’altro perché non prega, si danna! Insomma dice il Grisostomo: Nullus ab eo beneficia dolenter postulavit, qui non impetravit quod voluit. Nessun peccatore pentito ha pregato il Signore, che non ha ottenuto quanto ha desiderato. Ma che servono più autorità e ragioni a ciò dimostrare, mentre Gesù medesimo dice: Venite ad me omnes, qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos (Matth. 11. 28). Onerati s’intendono, secondo san Girolamo, sant’Agostino ed altri comunemente, i peccatori, che gemono sotto il peso delle loro colpe, i quali ricorrendo a Dio ben saranno da Lui (giusta tal promessa) ristorati, e salvati colla sua Grazia. Ah che non tanto noi, dice san Giovanni Grisostomo, desideriamo d’esser perdonati, quanto anela Dio di perdonarci: Non adeo cupis dimitti peccata tua, sicut ille cupit peccata dimittere. Non vi è grazia (soggiunge il Santo) che non si ottenga colla Preghiera, ancorché questa si faccia da un peccatore il più perduto che sia, s’ella è perseverante: Nihil est, quod non obtineat oratio, etiam si mille peccatis obnoxius sit, sed vehemens, sed assidua. E notiamo quel che dice san Giacomo: Si quis indiget sapientia, postulet a Deo, qui dat omnibus affluenter, et non improperat (Jac. 1. 5). Tutti coloro dunque, che ricorrono coll’Orazione a Dio, Egli non lascia d’esaudirli, e di colmarli di grazie, dat omnibus affluenter. Ma si faccia special riflessione alla parola che segue, et non improperat. Ciò significa, che non fa Iddio come fanno gli Uomini, che quando viene a domandare loro qualche favore taluno, che prima in qualche occasione li ha offesi, subito gli rimproverano l’oltraggio da lui ricevuto. Non fa così il Signore con chi Lo prega; siasi questi il maggior peccatore del Mondo, quando gli domanda qualche grazia utile alla sua eterna salute, non già gli rimprovera i disgusti che gli ha dati, ma come se non mai l’avesse offeso, subito l’accoglie, lo consola, l’esaudisce, e abbondantemente l’arricchisce dei suoi doni. Soprattutto per animarci il Redentore a pregare, dice: Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis (Jo. 16. 23). Come dicesse: Orsù peccatori non vi disanimate, non fate che i vostri peccati vi trattengano di ricorrere al Mio Padre, e di sperare da Esso la vostra salute, se la desiderate; voi non avete già meriti di ottenere le grazie che chiedete, ma solo avete demeriti per ricevere castighi; fate così, andate al Mio Padre in Nome mio, per i Meriti miei cercate le grazie che volete, ed Io vi prometto, e vi giuro (amen, amen dico vobis, dice sant’Agostino esser questa una specie di giuramento) che quanto domanderete, il mio Padre vi concederà. Oh Dio e qual maggior consolazione può avere un peccatore dopo le sue rovine, che sapere con certezza, che quanto chiederà a Dio in nome di Gesù Cristo tutto riceverà? Dico, tutto, circa la salute eterna, perché intorno ai beni temporali già abbiam detto di sopra, che il Signore, anche pregato, alle volte non ce li concede, vedendo che tali beni ci nuocerebbero all’Anima. Ma in quanto ai beni spirituali la Sua promessa di esaudirci non è condizionata, ma assoluta, e perciò esorta sant’Agostino, che quelle cose che Dio assolutamente promette, noi dobbiamo domandarle con sicurezza di riceverle: Quae Deus promittit, securi petite. E come mai (scrive il Santo) può negarci niente il Signore, allorché ne lo preghiamo con confidenza, quando desidera più Esso di dispensarci le Sue grazie, che noi di averle? Plus vult Ille tibi beneficia elargiri, quam tu accipere concupiscas. Dice il Grisostomo che allora solamente si adira con noi il Signore, quando noi trascuriamo di cercargli i Suoi doni: Non nisi quando non postulamus irascitur. E come mai può succedere che Iddio non voglia esaudire un’Anima che gli cerca cose tutte di suo gusto? Quando la anima gli dice: Signore, io non vi cerco beni di questa Terra, ricchezze, piaceri, onori; ma solo vi domando la Grazia vostra, liberatemi dal peccato, datemi una buona morte, datemi il Paradiso, datemi il santo Amor vostro (ch’è quella grazia, come dice san Francesco di Sales, che deve chiedersi a Dio sopra tutte l’altre), datemi rassegnazione nella vostra Volontà; com’è possibile che Dio non voglia esaudirla? E quali domande mai, dice sant’Agostino, esaudirete Voi mio Dio, se non esaudite queste che sono tutte secondo il vostro cuore: Quas preces exaudis si has non exaudis? Ma sopra tutto deve ravvivare la nostra confidenza, allorché chiediamo a Dio grazie spirituali, ciò che disse Gesù Cristo: Si ergo vos, cum sitis mali, nostis bona data dare filiis vestris; quanto magis Pater vester de caelo dabit Spiritum bonum petentibus se? (Luc. 11. 13). Se voi (dice il Redentore) che siete così attaccati ai vostri interessi, perché pieni d’amor proprio, non sapete negare ai vostri Figli ciò che vi domandano; quanto più il vostro Padre celeste, che v’ama più d’ogni Padre terreno, vi concederà i beni spirituali, allorché voi ne lo pregherete?

Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Napoli, varie ed., 1759 - 1776. Della confidenza colla quale dobbiamo pregare, parte 3. Dice san Giovanni, che chi ripone una ferma confidenza in Dio, certamente si fa santo: Et omnis qui habet hanc spem in eo, sanctificat se, sicut et ille sanctus est (1. Jo. 3. 3), perché Iddio fa abbondare le grazie in tutti coloro, che in Lui confidano. Con questa confidenza tanti Martiri, tante Verginelle, tanti Fanciulli, nonostante lo spavento dei tormenti che loro preparavano i Tiranni, hanno superato i tormenti, ed i Tiranni. Talvolta (dico) noi preghiamo, ma ci sembra, che Dio non voglia ascoltarci: deh non lasciamo allora di perseverare a pregare, ed a sperare. Diciamo allora con Giobbe: Etiam si occiderit me, in ipso sperabo (Job. 13. 15). Dio mio, ancorché mi discacciaste dalla vostra faccia, io non lascerò di pregarvi, e di sperare nella vostra Misericordia. Facciamo così, e ne avremo quel che vorremo dal Signore. Così fece la Donna Cananea, ed ottenne tutto ciò che volle da Gesù Cristo. Questa Donna, avendo la sua figlia invasata dal Demonio, pregò il Redentore, che ne la liberasse: Miserere mei, filia mea male vexatur a Daemone (Matth. 15. 22). Il Signore le rispose, ch’Egli non era stato mandato per li Gentili, come ella era, ma per li Giudei. Ma quella non si perdette d’animo, e ritornò a pregare con confidenza: Signore, Voi potete consolarmi, mi avete da consolare: Domine adjuva me. Replicò Gesù Cristo: Ma il pane dei figli, non è bene darlo ai cani: Non est bonum sumere panem filiorum, et dare canibus. Ma, Signor mio, (ella soggiunse) anche ai cagnolini si dispensano le briciole di pane, che cadono dalla mensa: Etiam catelli edunt de micis. Allora il Salvatore, vedendo la gran confidenza di questa Donna, la lodò, e le fece la grazia, dicendo: O mulier, magna est fides tua, fiat tibi sicut vis (Ibid). E chi mai, dice l’Ecclesiastico, ha chiamato Dio in suo aiuto, e Dio l’ha disprezzato, e non l’ha soccorso? Aut quis invocavit eum, et despexit illum? (Eccli. 2. 12). Dice sant’Agostino, che la Preghiera è una chiave, la quale apre il Cielo a nostro bene; nello stesso punto che la nostra Preghiera sale a Dio, discende a noi la grazia, che domandiamo: Oratio Justi clavis est Caeli; ascendit precatio, et descendit Dei miseratio. Scrisse il Profeta regale, che vanno unite insieme le nostre suppliche colla Misericordia di Dio: Benedictus Deus, qui non amovit orationem meam, et misericordiam suam a me (Ps. 65. 20). E quindi dice il medesimo sant’Agostino, che quando noi ci troviamo pregando il Signore, dobbiamo star sicuri, ch’Egli già ci esaudisce: Cum videris a te non amotam deprecationem tuam, securus esto, quod non est a te amota misericordia ejush. Ed io (dico la verità) non mai mi sento più consolato nello spirito, e con maggior confidenza di salvarmi, che quando mi trovo pregando Dio, ed a Lui mi raccomando. E lo stesso penso, che avvenga a tutti gli altri Fedeli, poiché gli altri segni della nostra salvezza son tutti incerti, e fallibili; ma che Dio esaudisca chi lo prega con confidenza, è verità certa ed infallibile, com’è infallibile, che Dio non può mancare alle Sue promesse. Quando ci vediamo deboli, ed impotenti a superare qualche passione, o qualche gran difficoltà, per eseguire ciò che il Signore da noi domanda, diciamo animosi coll’Apostolo: Omnia possum in eo, qui me confortat (Philip. 4. 13). Non diciamo, come dicono alcuni, Non posso, non mi fido. Colle forze nostre certamente che non possiamo niente, ma col Divino aiuto possiamo tutto. Se Dio dicesse ad uno: Prendi questo monte sulle tue spalle, e portalo, perché Io t’aiuto; non sarebbe colui uno sciocco, o un infedele, se rispondesse: Io non voglio prendere, perché non ho forza di portarlo? E così, quando noi ci conosciamo miseri ed infermi quali siamo, e ci troviamo più combattuti dalle tentazioni, non ci perdiamo d’animo, alziamo gli occhi a Dio, e diciamo con Davide: Dominus mihi adjutor, et ego despiciam inimicos meos (Ps. 117. 6). Coll’aiuto del mio Signore io vincerò e disprezzerò tutti gli assalti dei miei Nemici. E quando ci troviamo in qualche pericolo di offendere Dio, o in altro affare di conseguenza, e confusi non sappiamo, che dobbiamo fare, raccomandiamoci a Dio dicendo: Dominus illuminatio mea, et salus mea, quem timebo? (Ps. 26. 1). E stiamo sicuri, che Iddio allora ben c’illuminerà, e ci salverà da ogni danno. Ma io sono peccatore, dice taluno, e nella Scrittura io leggo: Peccatores Deus non audit. Risponde san Tommaso con sant’Agostino che ciò fu detto dal Cieco il quale parlava allorché non era stato illuminato ancora: Illud verbum est Caeci nondum perfecte illuminati, et ideo non est ratum. Per altro soggiunge l’Angelico, che ciò sta ben detto, parlando della domanda che fa il peccatore, in quantum est peccator, cioè quand’egli domanda per desiderio di seguire a peccare: per esempio se chiedesse aiuto per vendicarsi del suo Nemico, o per eseguire altra sua prava intenzione. E lo stesso corre per quel peccatore, che prega Dio a salvarlo, ma senza ch’egli abbia alcun desiderio di uscire dallo stato del peccato. Vi sono alcuni infelici, che amano le catene, colle quali il Demonio gli tiene legati da schiavi. Le Preghiere di costoro non sono esaudite da Dio, perché sono Preghiere temerarie, e abominevoli. E qual maggior temerità, che uno voglia domandare grazie ad un Principe, che non solo ha più volte offeso, ma che pensa di seguitare ad offenderlo? E così s’intende quel che dice lo Spirito Santo, essere detestabile e odiosa a Dio la Preghiera di colui, che volta le orecchie per non ascoltare ciò che Dio comanda: Qui declinat aures suas, ne audiat legem, oratio ejus erit exsecrabilis (Prov. 28. 9). A questi tali dice il Signore: non occorre che voi preghiate, perché io volterò gli occhi da voi, e non vi esaudirò: Cum extenderitis manus vestras, avertam oculos meos a vobis, et cum multiplicaveritis orationem, non exaudiam (Isa. 1. 15). Tal’era appunto l’orazione dell’empio Re Antioco, che pregava Dio, e prometteva gran cose, ma fintamente, e col cuore ostinato nella colpa, pregando solo per sfuggire il castigo che gli sovrastava; e perciò il Signore non diede orecchio alle sue Preghiere, ma lo fece morire roso dai vermi. Orabat hic scelestus Dominum, a quo misericordiam non esset consecuturus (2. Mach. 9. 13). Altri poi che peccano per fragilità, o per empito di qualche gran passione, e gemono sotto il giogo del nemico, e desiderano di rompere quelle catene di morte, ed uscire da quella misera schiavitù, e perciò domandano aiuto a Dio; l’Orazione di costoro, s’ella è costante, ben sarà esaudita dal Signore, il quale dice, che ognuno che domanda, riceve, e chi cerca la grazia, la ritrova: Omnis enim qui petit, accipit: et qui quaerit, invenit (Matth. 7. 8). Omnis (spiega l’Autore dell’Opera imperfetta - s. GIOV. CRISOST., Op. imperf. In Matth., Hom. 18; PG 56, 732), sive justus, sive peccator sit. Ed in san Luca, parlando Gesù Cristo di colui, che diede tutti i pani che aveva all’Amico, non tanto per l’amicizia, quanto per la di lui importunità, disse: Dico vobis, etsi non dabit, quia amicus est, propter improbitatem tamen surget, et dabit illi quotquot habet necessarios. Sicque et ego dico vobis, petite et dabitur vobis (Luc. 11. 8). Sicché la Preghiera perseverante ottiene da Dio la misericordia anche a coloro, che non sono suoi amici. Quel che non si ottiene per l’amicizia, dice il Grisostomo, si ottiene per la Preghiera: Quod non perfecit amicitia, perfectum est ab Orationem. Anzi dice lo stesso Santo, che vale più appresso Dio l’Orazione, che l’amicizia: Non tam valet amicitia apud Deum, quam Oratio; et quod amicitia non perfecit, perfectum est ab Oratione. E san Basilio non dubita, che anche i peccatori ottengono quel che chiedono se sono perseveranti in pregare: Peccatores impetrant, quod petunt, si perseveranter petunt. Lo stesso dice san Gregorio: Clamet et peccator, et ad Deum sua perveniet Oratio. Lo stesso scrive san Girolamo, dicendo che anche il peccatore può chiamare Iddio suo Padre, se lo prega ad accettarlo di nuovo per Figlio, coll’esempio del Figliol Prodigo, che lo chiamava Padre, Pater peccavi, ancorché non fosse stato per anche perdonato. Se Dio non esaudisse i peccatori, dice sant’Agostino, indarno il Publicano avrebbe domandato il perdono: Si enim peccatores Deus non exaudit, frustra ille Publicanus diceret: Deus, propitius esto mihi peccatori. Ma ci attesta il Vangelo, che il Publicano col pregare ben ottenne il perdono: Descendit hic justificatus in domum suam (Luc. 18. 14). ...

Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Napoli, varie ed., 1759 - 1776. Della confidenza colla quale dobbiamo pregare, parte 2. Dice lo stesso Profeta, chi confida in Dio, si troverà sempre circondato dalla Divina Misericordia: Sperantem autem in Domino misericordia circumdabit (Psal. 31. 10). Sicché costui sarà talmente d’ogn’intorno cinto e guardato da Dio, che resterà sicuro dai Nemici, e dal pericolo di perdersi. Perciò l’Apostolo tanto raccomanda a conservare in noi la confidenza in Dio, la quale (ci avvisa) certamente riporta da Lui una gran mercede: Nolite itaque amittere confidentiam vestram, quae magnam habet remunerationem (Hebr. 10. 35). Quale sarà la nostra fiducia, tali saranno le grazie che riceveremo da Dio; se sarà grande la fiducia, grandi saranno ancora le grazie. Magna fides magna meretur. Scrive san Bernardo, che la Divina Misericordia è una fonte immensa, chi vi porta il vaso più grande di confidenza, quegli ne riporta maggior abbondanza di beni: Nec Oleum misericordiae nisi in vasa fiduciae (Domine) ponis. E già prima l’espresse il Profeta dicendo: Fiat misericordia tua, Domine, super nos, quemadmodum speravimus in te (Psal. 32. 22). Ciò ben si avverò nel Centurione, a cui disse il Redentore, lodando la sua confidenza: Vade, et sicut credidisti fiat tibi (Matth. 8. 13). E rivelò il Signore a santa Gertrude, che chi lo prega con confidenza, gli fa in certo modo tanta violenza, ch’Egli non può non esaudirlo, in tutto ciò che egli cerca. Oratio (disse san Giovan. Climaco) pie Deo vim infert. La preghiera fa violenza a Dio, ma violenza che gli è cara e gradita. Adeamus, dunque ci avvisa san Paolo, cum fiducia ad thronum gratiae, ut misericordiam consequamur, et gratiam inveniamus in auxilio opportuno (Hebr. 4. 16). Il Trono della grazia è Gesù Cristo, che al presente siede alla destra del Padre, non in trono di giustizia, ma di grazia, per ottenerci il perdono, se ci ritroviamo in peccato, e l’aiuto a perseverare, se godiamo la Sua Amicizia. A questo Trono bisogna, che ricorriamo sempre con fiducia, cioè con quella confidenza che ci dà la Fede nella Bontà e Fedeltà di Dio, il quale ha promesso di esaudire chi lo prega con confidenza, ma con confidenza stabile e sicura. Chi all’incontro lo prega con esitazione, dice san Giacomo, che costui non pensi di ricevere niente: Qui enim haesitat, similis est fluctui maris, qui a vento movetur et circumfertur; non ergo aestimet homo ille, quod accipiat aliquid a Domino (Jac. 1. 6. 7). Niente riceverà, perché la sua ingiusta diffidenza, da cui viene agitato, impedirà alla Divina Misericordia di esaudire le sue domande. Non recte petisti, quia dubitabundus petisti, dice san Basilio; non hai ricevuta la grazia, perché l’hai domandata senza confidenza. Disse Davide, che la nostra confidenza in Dio deve essere ferma come un monte, che non si smuove a qualunque urto di vento: Qui confidunt in Domino, sicut mons Sion, non commovebitur in aeternum (Psal. 123. 1). E ciò è quello di cui ci ammonì il Redentore, se vogliamo ottenere le grazie che cerchiamo Quaecumque orantes petitis, credite quia accipietis, et evenient vobis (Marc. 11. 24). Qualsivoglia grazia che domandate, state sicuri di averla, e così l’otterrete. Ma dove, dirà taluno, io miserabile debbo fondare questa confidenza certa di ottenere quel che domando? Dove? Sulla promessa fatta da Gesù Cristo: Petite, et accipietis (Jo. 16. 24). Cercate, ed avrete. Quis falli metuet, dum promittit Veritas? dice sant’Agostino, come possiamo dubitare di non essere esauditi, quando Iddio ch’è la stessa Verità promette di concederci ciò, che pregando gli domandiamo? Non hortaretur ut peteremus, dice lo stesso Santo Dottore, nisi dare vellet. Certamente il Signore non ci esorterebbe a chiedergli le grazie, se non ce le volesse concedere. Ma questo è quello, a ch’Egli tanto ci esorta, e tante volte ce lo replica nelle sacre Scritture, pregate, domandate, cercate: Orate, petite, quaerite etc. ed otterrete, quanto desiderate: Quodcumque volueritis, petetis, et fiet vobis (Jo. 15. 7). Ed acciocché noi lo preghiamo con la confidenza dovuta, perciò il Salvatore ci ha insegnato nell’Orazione del Pater noster, che noi ricorrendo a Dio per ricevere le grazie necessarie alla nostra salute (che già nel Pater noster tutte si contengono), lo chiamiamo non Signore, ma Padre, Pater noster; mentre vuole, che noi cerchiamo a Dio le grazie con quella confidenza, colla quale un figlio povero, o infermo cerca il sostentamento, o la medicina al suo proprio Padre. Se un figlio sta per morir di fame, basta che lo palesi al Padre, il Padre subito lo provvederà di cibo; e se ha ricevuto qualche morso di serpe velenoso, basterà che rappresenti al Padre la ferita ricevuta, acciocché il Padre subito v’applichi il rimedio, che già tiene. Fidati dunque alle Divine Promesse domandiamo sempre con confidenza, non vacillante, ma stabile e ferma, come dice l’Apostolo: Teneamus spei nostrae confessionem indeclinabilem; fidelis enim est, qui repromisit (Hebr. 10. 23). Com’è certo intanto, che Dio è fedele nelle sue promesse, così dev’esser certa ancora la nostra confidenza, ch’Egli ci esaudisca, quando lo preghiamo. E benché alle volte, ritrovandoci forse noi in stato di aridità o disturbati da qualche difetto commesso, non proviamo nel pregare quella confidenza sensibile, che vorremmo sentire: con tutto ciò facciamoci forza a pregare, perché Dio non lascerà di esaudirci; anzi allora meglio ci esaudirà, poiché allora pregheremo più diffidati di noi, e solo confidati nella Bontà, e Fedeltà di Dio, il quale ha promesso di esaudire chi lo prega. Oh come piace al Signore in tempo di tribolazioni, di timori, e di tentazioni il nostro sperare, anche contro la speranza, cioè contro quel sentimento di diffidenza, che proviamo allora per causa della nostra desolazione. Di ciò l’Apostolo loda il Patriarca Abramo, dicendo: Qui contra spem in spem credidit (Rom. 4. 18). ...

Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Napoli, varie ed., 1759 - 1776. Della confidenza colla quale dobbiamo pregare, parte 1. L’Avvertimento più principale, che ci fa l’Apostolo san Giacomo se vogliamo colla Preghiera ottenere da Dio le grazie, è che preghiamo con confidenza sicura d’esser esauditi se preghiamo, come si deve, senza esitare: Postulet autem in fide nihil haesitans (Jac. 1, 6). Insegna san Tommaso, che l’Orazione, siccome prende la forza di meritare dalla carità, così all’incontro ha l’efficacia d’impetrare dalla fede, e dalla confidenza: Oratio habet vim merendi a caritate, efficaciam vero impetrandi a fide et fiduciaa. Lo stesso insegna san Bernardo, dicendo che la sola nostra confidenza è quella, che ci ottiene le Divine misericordie: Sola spes apud Te, Domine, miserationis obtinet locum. Troppo si compiace il Signore della nostra confidenza nella Sua Misericordia, perché allora noi veniamo ad onorare ed esaltare quella Sua infinita Bontà, ch’Egli col crearci ha inteso di manifestare al Mondo. Si rallegrino pure, o mio Dio (diceva il Profeta Regale), tutti quelli che sperano in Voi, poich’essi saranno eternamente beati, e Voi sempre in essi abiterete: Laetentur omnes qui sperant in te, in aeternum exultabunt, et habitabis in eis (Ps. 5. 12). Iddio protegge, e salva tutti coloro che in Lui confidano. Protector est omnium sperantium in se  (Ps. 17. 3r.). Qui salvos facis sperantes in te (Ps. 16. 7). Oh le gran promesse, che sono state fatte nelle Divine Scritture a coloro che sperano in Dio! Chi spera in Dio, non cadrà in peccato. Non delinquent omnes qui sperant in eo (Ps. 33. 23). Sì, perché (dice Davide) il Signore tiene gli occhi rivolti a tutti coloro, che confidano nella sua Bontà, per liberarli col Suo aiuto dalla morte del peccato: Ecce oculi Domini super metuentes eum, et in eis qui sperant super misericordia ejus, ut eruat a morte animas eorum (Ps. 32. 18 et 19). Ed in altro luogo dice il medesimo Dio: Quoniam in me speravit, liberabo eum, protegam eum... eripiam eum, et glorificabo eum (Psalm. 90. 14-15). Si noti la parola quoniam; perché costui ha confidato in Me, Io lo proteggerò, lo libererò dai suoi Nemici, e dal pericolo di cadere; e finalmente gli darò la Gloria eterna. Parlando Isaia di coloro, che ripongono la loro speranza in Dio, dice: Qui autem sperant in Deo, mutabunt fortitudinem, assument pennas sicut aquilae; current et non laborabunt, ambulabunt et non deficient (Isa. 40. 31). Questi lasceranno d’esser deboli come sono, ed acquisteranno in Dio una gran fortezza; non mancheranno, anzi neppure proveranno fatica nel camminare la via della salute, ma correranno e voleranno come aquile. In silentio, et in spe erit fortitudo vestra (Isa. 30. 15). Tutta insomma la nostra fortezza, ci avvisa lo stesso Profeta, consiste nel mettere tutta la nostra confidenza in Dio, e nel tacere, cioè nel riposare nelle braccia della Sua Misericordia, senza fidare alle nostre industrie, ed ai mezzi umani. E dove mai s’è dato il caso, che alcuno abbia confidato in Dio, e si sia perduto? Nullus speravit in Domino, et confusus est (Eccli. 2. 11). Questa confidenza era quella, che teneva sicuro Davide di non aversi mai a perdere. In te Domine speravi? non confundar in aeternum (Psalm. 30. 1). E che forse, dice sant’Agostino, Iddio può essere ingannatore, mentr’Egli si offre a sostenerci nei pericoli, se a Lui ci appoggiamo, e poi vorrà da noi sottrarsi, quando ad Esso ricorriamo? Non est illusor Deus, ut ad supportandum se offerat, et nobis innitentibus ei se subtrahatc. Davide chiama beato chi confida nel Signore: Beatus homo, qui sperat in te (Psal. 83. 13). E perché? perché, dice lo stesso Profeta, chi confida in Dio, si troverà sempre circondato dalla Divina Misericordia: Sperantem autem in Domino misericordia circumdabit.

Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Napoli, varie ed., 1759 - 1776. Dell’umiltà con cui si deve pregare, parte 2 e ultima. Onde scrisse saggiamente Sant’Agostino: Multos impedit a firmitate praesumptio firmitatis; nemo erit adeo firmus, nisi qui se sentit infirmum (Serm. 13. de Verb. Dom.). Se taluno dice di non aver timore, è segno che costui fida in se stesso e nei suoi propositi fatti; ma questi, con tale confidenza perniciosa, da se medesimo viene sedotto, perché fidando nelle proprie forze smette di temere, e non temendo lascia di raccomandarsi a Dio, ed allora certamente cadrà. E così parimenti bisogna che ciascuno si guardi di ammirarsi con qualche vanagloria dei peccati degli altri; deve allora più presto ritenersi, in quanto a sé, per peggiore degli altri, e dire: Signore, se Voi non mi aveste aiutato io avrei fatto peggio. Altrimenti permetterà il Signore in castigo della sua superbia, che cada in colpe maggiori e più orrende. Pertanto, ci avvisa l’Apostolo a procurarci l’eterna salute, ma come? Sempre temendo, e tremando: Cum metu, et tremore vestram salutem operamini (Philip. 2. 12). Sì, perché colui che molto teme di cadere, diffida delle sue forze, e perciò riponendo la sua confidenza in Dio, a Lui ricorrerà nei pericoli; Dio lo soccorrerà, e così vincerà le tentazioni, e si salverà. Filippo Neri, camminando un giorno per Roma, andava dicendo: Son disperato; un certo Religioso lo corresse, ma il Santo allora disse: Padre mio, son disperato di me, ma confido in Dio. Così bisogna, che facciamo noi se vogliamo salvarci; bisogna, che viviamo sempre disperati delle nostre forze, poiché così facendo, imiteremo San Filippo, il quale dal primo momento che si svegliava la mattina, diceva a Dio: Signore, tenete oggi le mani sopra Filippo, perché se no, Filippo vi tradisce. Questa, dunque, per concludere è tutta la grande scienza d’un Cristiano, dice Sant’Agostino, il conoscere che niente egli è, e niente può: Hoc est tota magna scientia, scire quia homo nihil est. Perché così non cesserà di procurarsi da Dio con le preghiere quella forza, che non ha, e che gli necessita per resistere alle tentazioni e per fare il bene; ed allora farà tutto col soccorso di quel Signore, che non sa negare niente a chi lo prega con umiltà. Oratio humiliantis se nubes penetrabit, et non discedet, donec Altissimus aspiciat (Eccli, 35. 21). La Preghiera d’un’Anima umile penetra i Cieli, e presentandosi al Divin Trono, di là non parte, senza che Dio la guardi, e l’esaudisca. E, siasi quest’Anima rea di quanti peccati si voglia, Dio non sa disprezzare un Cuore che si umilia: Cor contritum et humiliatum Deus non despicies (Ps. 50. 12). Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Jac. 4. 6). Quanto il Signore è severo con i Superbi, e resiste alle loro domande, altrettanto è benigno e liberale cogli Umili. Questo appunto disse un giorno Gesù Cristo a Santa Caterina da Siena: Sappi, o Figlia, che chi umilmente persevera a chiedermi le grazie, farà acquisto di tutte le virtù: Scito Filia, quod Anima perseverans in humili oratione adipiscitur omnem virtutem. Giova qui addurre un bell’avvertimento, che fa alle Anime spirituali, che desiderano di farsi sante, il dotto e piissimo Mons. Palafox, Vescovo d’Osma, in una Annotazione10 che fa sulla Lettera XVIII di Santa Teresa. Ivi la Santa scrive al suo Confessore e gli dà conto di tutti i gradi d’orazione sovrannaturale con cui il Signore l’aveva favorita. All’incontro il mentovato Prelato scrive, che queste grazie sovrannaturali che Dio si degnò di fare a Santa Teresa, ed ha fatto ad altri Santi, non sono necessarie per giungere alla santità; poiché molte Anime senza di loro vi sono ben giunte; e per contrario molte vi sono giunte, e poi si son dannate. Pertanto dice essere cosa superflua, anzi presuntuosa il desiderare e cercare tali doni sovrannaturali, mentre la vera e l’unica strada per diventare un’Anima santa è l’esercitarsi nelle virtù, e nell’amare Dio; al che si arriva per mezzo dell’Orazione, e col corrispondere ai lumi ed aiuti di Dio, il quale altro non vuole che vederci santi: Haec est enim voluntas Dei sanctificatio vestra (1. Thess. 4. 3). Quindi il suddetto pio Scrittore, parlando dei gradi dell’Orazione sovrannaturale, di cui scriveva la Santa, cioè dell’Orazione di Quiete, del Sonno e Sospensione delle potenze, dell’Unione, dell’Estasi, del Ratto, del Volo, ed Impeto di spirito, e della Ferita spirituale, saggiamente scrive, e dice che in quanto all’Orazione di Quiete, ciò che noi dobbiamo desiderare e domandare a Dio, è che ci liberi dall’attacco e dal desiderio dei beni mondani, che non danno pace, ma apportano inquiete ed afflizione allo spirito. Vanitas vanitatum (ben li chiamò Salomone), et afflictio spiritus (Eccle. 1. 14). Il cuore dell’Uomo non troverà mai vera pace, se non si vuota di tutto ciò che non è Dio, per lasciare tutto il luogo al di lui santo Amore, acciocch’Egli solo tutto lo possieda. Ma ciò l’Anima da sé non può farlo; bisogna che l’ottenga dal Signore con replicate preghiere. In quanto al Sonno, e sospensione delle potenze, dobbiamo chiedere a Dio la grazia di tenerle sopite per tutto il temporale, e solamente svegliate per considerare la divina Bontà, e per ambire l’Amore Divino, ed i beni eterni. In quanto all’Unione delle potenze, preghiamo che ci doni la grazia di non pensare, di non cercare, e di non volere, se non quello che vuole Iddio, poiché tutta la santità, e la perfezione dell’amore consiste nell’unire la nostra volontà colla volontà del Signore. In quanto all’Estasi, e Ratto, preghiamo Dio che ci tragga fuori dell’amore disordinato di noi stessi, e delle creature, per tirarci tutti a Sé. In quanto al Volo di Spirito preghiamolo a darci la grazia di vivere tutti staccati da questo Mondo, e fare come fanno i Rondoni, che anche per alimentarsi non si fermano sulla terra, ma volando prendono il loro alimento; viene a dire, che ci serviamo di questi beni temporali per quanto bisogna, a sostentare la vita, ma sempre volando, senza fermarci sulla terra a cercare i gusti mondani. In quanto all’Impeto di Spirito, preghiamo Dio, che ci doni il coraggio e la forza di farci violenza, quanto necessita per resistere agli assalti dei Nemici, per superare le passioni, e per abbracciare il patire in mezzo alle desolazioni e tedi spirituali. In quanto finalmente alla Ferita d’amore, siccome la ferita col suo dolore rinnova sempre alla persona la memoria del suo male, così dobbiamo pregare Iddio di ferire talmente il cuore col Suo santo Amore, che abbiamo sempre a ricordarci della Sua Bontà, e dell’affetto che ci ha portato, e con ciò viviamo continuamente amandoLo, e compiacendoLo con le nostre opere, ed affetti. Ma tutte queste grazie non si ottengono senza l’Orazione, e coll’Orazione, purch’ella sia umile, confidente, e perseverante, tutto si ottiene.

Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Napoli, varie ed., 1759 - 1776. Dell’umiltà con cui si deve pregare, parte 1. Il Signore ben guarda le preghiere dei suoi Servi, ma dei Servi umili: Respexit in orationem humilium (Ps. 101. 18). Altrimenti non le riguarda, ma le ributta: Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Jac. 4. 6). Dio non sente le orazioni dei Superbi, che confidano nelle loro forze, e perciò li lascia nella loro propria miseria; ed in tale stato essi, privi del Divino soccorso, senza dubbio si perderanno. Ciò piangeva Davide: Priusquam humiliarer, ego deliqui (Ps. 118. 67). Io (diceva) ho peccato, perché non sono stato umile. E lo stesso avvenne a S. Pietro, il quale quantunque fosse stato avvisato da Gesù Cristo, che in quella notte tutti essi Discepoli dovevano abbandonarlo: Omnes vos scandalum patiemini in me in ista nocte (Matth. 26. 31), egli nondimeno, invece di riconoscere la sua debolezza, e di domandare aiuto al Signore per non essergli infedele, troppo fidando alle sue forze, disse che se tutti l’avessero abbandonato, egli non l’avrebbe mai lasciato: Et si omnes scandalizati fuerint in te, ego nunquam scandalizabor (Ibid. 33). E con tutto che il Redentore di nuovo particolarmente gli predisse, che in quella notte prima di cantare il gallo l’avrebbe negato tre volte, pure fidando al suo animo, si vantò dicendo: Etiam si oportuerit me mori tecum non te negabo (Matth. ibid. 35). Ma che avvenne? Appena il miserabile nella casa del Pontefice entrò, e fu rimproverato per discepolo di Gesù Cristo, egli tre volte infatti lo negò con giuramento, dicendo di non averlo mai conosciuto: Et iterum negavit cum juramento: Quia non novi hominem (Matth. 26. 72). Se Pietro si fosse umiliato, e avesse domandato al Signore la grazia della costanza, non l’avrebbe negato. Dobbiamo tutti persuaderci, che noi stiamo come sulla cima d’un monte, sospesi sull’abisso di tutt’i peccati, e sostenuti dal solo filo della Grazia: se questo filo ci lascia, noi certamente cadiamo in tale abisso e commetteremo le scelleraggini più orrende. Nisi quia Dominus adjuvit me, paulo minus habitasset in inferno anima mea (Ps. 93. 17). Se Dio non mi avesse soccorso, io sarei caduto in mille peccati, ed ora starei nell’Inferno; così diceva il Salmista, e così deve dire ognuno di noi. Questo intendeva ancora S. Francesco d’Assisi, quando diceva, ch’esso era il peggior peccatore del Mondo. Ma, Padre mio (gli disse il compagno) questo che dite non è vero; vi sono molti nel mondo, che certamente son peggiori di voi. Sì ch’è troppo vero quel che dico (rispose il Santo), perché se Dio non mi tenesse le mani sopra, io commetterei tutt’i peccati. È di fede, che senza l’aiuto della Grazia non possiamo noi fare alcuna opera buona, e neppure avere un buon pensiero. Sine Gratia nullum prorsus, sive cogitando, sive agendo faciunt homines bonum, diceva S. Agostino. Come l’occhio non può vedere senza la luce, così (diceva il Santo) l’Uomo non può fare alcun bene senza la Grazia. E prima già lo disse l’Apostolo: Non quod sufficientes simus cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis, sed sufficientia nostra ex Deo est (2. Cor. 3. 5). E prima dell’Apostolo lo disse già Davide: Nisi Dominus aedificaverit domum, in vanum laboraverunt, qui aedificant eam (Ps. 126. 1). Invano si affatica l’Uomo a farsi santo, se Dio non vi mette la Sua mano. Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat, qui custodit eam (Ibid.). Se Dio non custodisce l’Anima dai peccati, invano attenderà ella a custodirsi colle sue forze. E perciò si protestava poi il Santo Profeta: Non enim in arcu meo sperabo (Ps. 43. 7). Dunque non voglio sperare nelle mie armi, ma solo in Dio, che può salvarmi. Onde chi ritrovasi fatta qualche cosa di bene, e non si trova caduto in maggiori peccati di quelli, che ha commessi, dica con S. Paolo: Gratia autem Dei sum id, quod sum (1. Cor. 15. 10). E per la stessa ragione non deve smettere di tremare, e deve temere di cadere in ogni occasione. Itaque qui se existimat stare, videat ne cadat (1. Cor. 10. 12). E con ciò l’Apostolo vuole avvertirci, che sta in gran pericolo di caduta, chi si tiene sicuro di non cadere. E ne assegna la ragione in altro luogo, dove dice: Nam si quis existimat se aliquid esse, cum nihil sit, ipse se seducit (Galat. 6. 3). ...

Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Napoli, varie ed., 1759 - 1776. Delle condizioni della preghiera, parte 2 ed ultima. Quindi la santa (santa Maria Maddalena de’ Pazzi), infiammata di santo zelo, cinquanta volte il giorno offeriva a Dio il Sangue del Redentore per li peccatori, e si consumava per desiderio della loro conversione, dicendo: «Oh che pena è, Signore, il vedere di poter giovare alle tue Creature, con metter la vita per esse, e non poterlo fare». Del resto Ella in ogni esercizio raccomandava i peccatori a Dio; e scrivesi nella sua Vita, che quasi non passava ora del giorno, che la Santa non pregasse per essi; frequentemente anche levavasi di mezza notte, ed andava al Ss. Sagramento a pregare per li peccatori; e con tutto ciò una volta fu ritrovata a piangere dirottamente, ed interrogata perché? rispose: «Perché mi pare di non far niente per la salute de’ peccatori». Giungeva ad offerirsi per la loro conversione a patire anche le pene dell’inferno, purché ivi non avesse a odiare Dio; e più volte fu compiaciuta da Dio d’esser afflitta con gravi dolori ed infermità per la salute de’ peccatori. Specialmente pregava per li Sacerdoti, vedendo che la loro buona vita era cagione della salute degli altri, e la mala vita cagione della ruina di molti; e perciò pregava il Signore, che punisse le colpe loro sopra di lei, dicendo: «Signore fammi tante volte morire, e tornare a vivere, sino ch’io soddisfaccia per essi alla tua Giustizia». E narrasi nella sua Vita, che la Santa colle sue Orazioni liberò già in fatti molte Anime dalle mani di Lucifero. Ho voluto dire qualche cosa più particolare del zelo di questa Santa. Del resto tutte l’Anime, che sono veramente innamorate di Dio, non cessano di pregare per li poveri peccatori. E com’è possibile, che una persona che ama Dio, vedendo l’Amore ch’Egli porta all’Anime, e quel che ha fatto e patito Gesù Cristo per la loro salute e ‘l desiderio che ha questo Salvatore, che noi preghiamo per li peccatori; com’è possibile, dico, che possa poi vedere con indifferenza tante povere Anime, che vivono senza Dio schiave dell’inferno, e non muoversi, ed affaticarsi a pregare frequentemente il Signore a dar luce e forza a quelle infelici, per uscire dallo stato miserabile in cui dormono, e vivono perdute? È vero, che Dio non ha promesso di esaudirci quando coloro, per cui preghiamo, mettono positivo impedimento alla loro conversione; ma molte volte il Signore per Sua bontà a riguardo delle Orazioni de’ Suoi Servi con grazie straordinarie si è compiaciuto di ridurre a stato di salute i peccatori più accecati ed ostinati. Per tanto non lasciamo mai nel dire o sentir la Messa, nel far la Comunione, la Meditazione, o la Visita al Ss. Sagramento, di raccomandar sempre a Dio i poveri peccatori. E dice un dotto Autore, che chi prega per gli altri, tanto più presto vedrà esaudite le preghiere, che fa per se stesso. Sia detto ciò di passaggio, ma ritorniamo a vedere l’altre condizioni, che richiede S. Tommaso acciocché abbia effetto la Preghiera. L’altra condizione, che il Santo assegna, è che si domandino quelle grazie che bisognano alla salute, necessaria ad salutem; poiché la promessa alla Preghiera non è fatta per le grazie temporali, che non sono necessarie alla salute dell’Anima. Dice S. Agostino spiegando le parole del Vangelo in nomine meo, riferite di sovra, che non petitur in nomine Salvatoris, quicquid petitur contra rationem salutis. Alle volte noi cerchiamo alcune grazie temporali, e Dio non ci esaudisce, ma non ci esaudisce (dice lo stesso S. Dottore), perché ci ama, e vuol usarci misericordia: Fideliter supplicans Deo pro necessitatibus hujus vitae, et misericorditer auditur, et misericorditer non auditur; quid enim Infirmo sit utile magis novit Medicus, quam Aegrotus. Il Medico che ama l’Infermo, non gli concede quelle cose, le quali vede che gli farebbero nocumento. Oh quanti se fossero infermi, o poveri, non caderebbero ne’ peccati, in cui cadono essendo sani, o ricchi! E perciò il Signore a taluni, che gli cercano la sanità del corpo, o i beni di fortuna, Egli ce li nega, perché l’ama: vedendo che quelli gli sarebbero occasione di perdere la sua Grazia, o almeno d’intepidirsi nella vita spirituale. Del resto con ciò non intendiamo dire, esser difetto il chiedere a Dio le cose necessarie alla vita presente, per quanto convengono alla salute eterna, come chiedeva il Savio: Tribue tantum victui meo necessaria (Prov. 30. 8). Né è difetto, dice S. Tommaso, l’avere per tali beni una sollecitudine ordinata; il difetto sta nel desiderare e cercare questi beni temporali come principali, e l’aver per essi una sollecitudine disordinata, come in essi consistesse tutto il nostro bene. Perciò quando noi domandiamo a Dio queste grazie temporali, dobbiamo domandarle sempre con rassegnazione, e colla condizione, se sono per giovarci all’Anima; e quando vediamo che ‘l Signore non ce le concede, teniamo per certo ch’Esso allora ce le nega per l’amore che ci porta, e perché vede che ci farebbero danno alla salute spirituale. Molte volte noi cerchiamo a Dio che ci liberi da qualche tentazione pericolosa, e Dio neppure ci esaudisce, e permette che la tentazione seguiti a molestarci. Intendiamo, che allora Dio ciò permette anche per nostro maggior bene. Non sono le tentazioni, ed i mali pensieri, che ci allontanano da Dio, ma i mali consensi. Quando l’Anima nella tentazione si raccomanda a Dio, e col suo aiuto resiste, oh com’ella si avanza allora nella perfezione, e viene a più stringersi con Dio! e perciò il Signore non l’esaudisce. Pregava S. Paolo istantemente per esser liberato dalle tentazioni d’impurità: Datus est mihi stimulus carnis meae, Angelus satanae, qui me colaphizet; propter quod ter Dominum rogavi, ut discederet a me (2. Gr. 12. 7). Ma il Signore gli rispose, ti basta di aver la mia Grazia: Sufficit tibi gratia mea. Sicché anche nelle tentazioni dobbiamo pregare Dio con rassegnazione, dicendo: Signore, liberatemi da questa molestia, se è spediente il liberarmene, e se no, almeno datemi l’aiuto per resistere. E qui fa quel che dice S. Bernardo, che quando noi cerchiamo a Dio qualche grazia, Egli o ci dona quella, o qualche cosa più utile di quella. Dio molte volte ci lascia a patire nella tempesta, affin di provare la nostra fedeltà, e per nostro maggior profitto. Sembra che allora Egli sia sordo alle nostre preghiere, ma no, stiamo sicuri, che Dio allora ben ci sente, e ci aiuta di nascosto, fortificandoci colla sua Grazia a resistere ad ogni insulto de’ Nemici. Ecco come Egli stesso ce ne assicura per bocca del Salmista: In tribulatione invocasti me, et liberavi te; exaudivi te in abscondito tempestatis, probavi te apud aquam contradictionis (Ps. 80. 8). L’altre condizioni finalmente, che assegna S. Tommaso alla Preghiera, sono che si preghi pie, et perseveranter. Pie s’intende con umiltà, e confidenza; perseveranter, senza lasciar di pregare sino alla morte. Or di queste condizioni, cioè dell’Umiltà, Confidenza, e Perseveranza, che sono le più necessarie alla Preghiera, bisogna qui di ciascuna distintamente parlarne.

Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis (Jo. 16. 23). E promessa dunque di Gesù Cristo, che quanto in nome Suo domanderemo al Padre, tutto il Padre ci concederà; ma sempre s’intende, quando domanderemo colle dovute condizioni. Molti (dice S. Giacomo) cercano, e non ottengono perché malamente cercano: Petitis, et non accipitis, eo quod male petatis (Jac. 4). Onde S. Basilio seguendo il detto dell’Apostolo dice: Ideo quandoque petis, et non accipis, quia perperam postulasti, vel infideliter, vel leviter, vel non conferentia tibi, vel destitistia. Infideliter, cioè con poca fede, o sia poca confidenza; leviter, con poco desiderio di aver la grazia. Non conferentia tibi, cercando beni non giovevoli alla salute. Vel destitisti, senza perseveranza. Pertanto S. Tommaso riduce a quattro le condizioni richieste nella Preghiera, acciocch’ella ottenga il suo effetto: cioè che l’Uomo domandi Pro se, necessaria ad salutem, pie, et perseveranter. La prima condizione dunque della Preghiera è, che si faccia pro se; poiché l’Angelico tiene che un Uomo non può impetrare agli altri ex condigno la vita eterna, e per conseguenza neppure quelle grazie, che s’appartengono alla loro salute: mentre la promessa (come dice) sta fatta non per gli altri, ma solamente a coloro che pregano: Dabit vobis. Ma ciò non ostante, vi sono molti Dottori che tengono l’opposto, appoggiati sull’autorità di S. Basilio, il quale insegna, che l’Orazione in virtù della Divina promessa ha infallibilmente il suo effetto, anche per gli altri per cui si prega, purché gli altri non vi mettano positivo impedimento. E si fondano sulle Scritture: Et orate pro invicem, ut salvemini; multum enim valet oratio justi assidua (Jac. 5. 16). Orate pro persequentibus, et calumniantibus vos (Matth. 5. 44). È meglio sul testo di S. Giovanni: Qui scit fratrem suum peccare peccatum non ad mortem, petat, et dabitur ei vita peccanti non ad mortem (1 Io. 5. 16). Spiegano, quel Peccanti non ad mortem, S. Agostino, ed altri, purché quel peccatore non sia tale, che intenda di vivere ostinato sino alla morte, poiché per costui si richiederebbe una grazia molto straordinaria. Del resto per gli altri peccatori, non rei di tanta malizia, l’Apostolo promette a chi per essi prega, la loro conversione: Petat, et dabitur ei vita peccanti. Per altro non si mette in dubbio, che le Orazioni degli altri molto giovano a’ peccatori, e sono molto gradite a Dio; e Dio si lamenta de’ Servi suoi, che non gli raccomandano i peccatori, come se ne lamentò con S. Maria Maddalena de’ Pazzi; onde le disse un giorno: Vedi Figlia mia, come i Cristiani stanno nelle mani del demonio; se i miei Eletti colle loro Orazioni non gli liberassero, resterebbero divorati. Ma specialmente ciò lo desidera il Signore da’ Sacerdoti, e da’ Religiosi. Diceva la suddetta Santa alle sue Monache: Sorelle, Iddio non ci ha separate dal Mondo, perché facciamo bene solo per noi ma ancora perché noi lo plachiamo a favore de’ peccatori. E lo stesso Signore un giorno disse alla medesima: Io ho dato a voi elette Spose la Città di rifugio (cioè la Passione di Gesù Cristo), acciocché abbiate dove ricorrere per aiutare le mie Creature; perciò ricorrete ad essa, ed ivi porgete aiuto alle mie Creature, che periscono e mettete la vita per esse. ...

Specialmente esorta S. Lorenzo Giustiniani a sforzarci di fare orazione almeno in principio di qualunque azione: Connitendum est, ut in primordio saltem cujusque operis dirigatur oratio. Attesta Cassiano, che i Padri antichi esortavano sommamente il ricorrere a Dio con brevi ma spesse preghiere. Niuno faccia poco conto (diceva S. Bernardo) della sua orazione, giacché ne fa conto Iddio, il quale o ci dona allora ciò che cerchiamo o ciò ch’è più utile per noi: Nemo parvipendat orationem suam, quia Deus non parvipendit eam... aut dabit quod petimus, aut quod novit utilius. Ed intendiamo, che se non preghiamo, per noi non v’è scusa, perché la grazia di pregare è data ad ognuno; in mano nostra sta l’orare sempre che vogliamo, come di sé parlando diceva Davide: Apud me oratio Deo vitae meae, dicam Deo, susceptor meus es. (Ps. 41. 9-10). Di questo punto se ne parlerà a lungo nella Seconda parte, in cui farò chiaro abbastanza, che Dio dona a tutti la grazia di pregare; acciocché pregando possano poi ottenere tutti gli aiuti, anche abbondanti, per osservare la Divina Legge, e perseverare sino alla morte. Per ora dico solamente, che se non ci salveremo, tutta la colpa sarà la nostra, e solo per noi mancherà, perché non avremo pregato.

E perciò riflette S. Isidoro, che in niun altro tempo il Demonio più s’affatica a distoglierci col pensiero delle cure temporali, che quando si accorge che noi stiamo pregando, e cercando le grazie a Dio: Tunc magis Diabolus cogitationes ingerit, quando orantem aspexerit. E perché? Perché vede il Nemico, che in niun altro tempo noi guadagniamo più tesori di beni celesti, che quando oriamo. Il frutto più grande dell’Orazione mentale questo è, il domandare le grazie a Dio, che ci bisognano per la perseveranza, e per la salute eterna. Per questo principalmente l’Orazione mentale è moralmente necessaria all’Anima per conservarsi in grazia di Dio, perché se la persona non si raccoglie in tempo della Meditazione a domandare gli aiuti, che le son necessari per la perseveranza, non lo farà in altro tempo; poiché senza meditare non penserà al bisogno, che ha di chiederli. All’incontro chi ogni giorno fa la sua Meditazione, ben vedrà i bisogni dell’Anima, i pericoli in cui si trova, la necessità che ha di pregare; e così pregherà, ed otterrà le grazie, che lo faranno poi perseverare e salvarsi. Diceva parlando di sé il P. Segneri, che a principio nella Meditazione egli più si tratteneva in fare affetti che in preghiere, ma conoscendo poi la necessità, e l’immenso utile della Preghiera, indi in poi per lo più, nella molta Orazione mentale ch’egli faceva si applicava a pregare. Sicut pullus hirundinis, sic clamabo, dicea il divoto Re Ezechia (Is. 38. 14). I pulcini delle rondini non fanno altro che gridare, cercando con ciò l’aiuto, e l’alimento alle loro madri. Così dobbiamo far tutti, se vogliamo conservarci la vita della Grazia, dobbiamo sempre gridare, chiedendo a Dio soccorso, per evitare la morte del peccato, e per avanzarci nel suo santo Amore. Riferisce il P. Rodriguez, che i Padri antichi, i quali furono i nostri primi Maestri di spirito, fecero consiglio fra di loro, per vedere qual fosse l’esercizio più utile, e più necessario per la salute eterna, e risolsero esser il replicare spesso la breve Orazione di Davide: Deus in adjutorium meum intende. Lo stesso (scrive Cassiano) deve fare chi vuol salvarsi, dicendo sempre: Dio mio aiutami, Dio mio aiutami. Questo dobbiamo fare dal principio, che ci svegliamo la mattina, e poi seguitarlo a fare in tutti i nostri bisogni, ed in tutte le applicazioni, in cui ci troviamo, così spirituali, come temporali, e più specialmente poi quando ci vediamo molestati da qualche tentazione, o passione. Dice S. Bonaventura, che alle volte più presto si ottiene la grazia con una breve preghiera, che con molte altre opere buone: Quandoque citius brevi oratione aliquis obtinet, quod piis operibus vix obtineret. Soggiunse S. Ambrogio, che chi prega, mentre prega, già ottiene; poiché lo stesso pregare è ricevere: Qui petit a Deo, dum petit, accipit; ipsum namque petere est accipere. Quindi scrisse S. Grisostomo, che non vi è più potente di un uomo che prega, Nihil potentius homine orante; perché costui si rende partecipe della potenza di Dio. Per salire alla perfezione, diceva S. Bernardo, vi bisogna la meditazione, e la Preghiera: colla meditazione vediamo quel che ci manca, colla preghiera riceviamo quel che ci bisogna: Ascendamus meditatione, et oratione; illa docet quid desit, haec ne desit obtinet. Il salvarsi in somma senza pregare è difficilissimo, anzi impossibile (come abbiam veduto) secondo la divina providenza ordinaria; ma pregando, il salvarsi è cosa sicura, e facilissima. Non è necessario per salvarsi andare tra gl’Infedeli a dar la vita; non è necessario ritirarsi ne’ deserti a cibarsi d’erbe. Che ci vuol a dire: Dio mio aiutami, Signore assistimi, abbi pietà di me? vi è cosa più facile di questa? e questo poco basterà a salvarci, se saremo attenti a farlo. ...

Se uno cercasse al Re una vil moneta, un quattrino, costui par che farebbe al Re un disonore. All’incontro noi onoriamo Dio, onoriamo la Sua Misericordia e la Sua Liberalità, allorché vedendoci così miseri come siamo ed indegni d’ogni beneficio, gli cerchiamo nondimeno grazie grandi, fidati alla Bontà di Dio, ed alla Sua Fedeltà, per la promessa fatta di concedere a chi lo prega qualunque grazia che gli domanda: Quodcumque volueritis petetis, et fiet vobis (Jo. 15.7). Diceva santa Maria Maddalena de’ Pazzi, che ‘l Signore si sente così onorato, e tanto si consola quando gli cerchiamo le grazie, che in certo modo Egli ci ringrazia, poiché così allora par che noi gli apriamo la via a beneficarci, ed a contentare il Suo genio, ch’è di far bene a tutti. E persuadiamoci, che quando noi cerchiamo le grazie a Dio, Egli ci dà sempre più di quello, che gli domandiamo. Si quis indiget sapientia, postulet a Deo, qui dat omnibus affluenter, nec improperat (Jac. 1.5). Così dice san Giacomo, per dinotarci che Dio non è come gli Uomini avaro de’ suoi beni; gli Uomini, ancorché ricchi, ancorché pii e liberali, se dispensano limosine, sempre sono stretti di mano, e per lo più donano meno di ciò che loro si domanda, perché la loro ricchezza, per quanto sia grande, sempre è ricchezza finita; onde quanto più danno, tanto più lor viene a mancare. Ma Dio dona i Suoi beni, quando è pregato, affluenter, cioè colla mano larga, dando sempre più di quello che gli si cerca, perché la Sua ricchezza è infinita; quanto più dà, più gli resta che dare. Quoniam tu Domine suavis, et mitis, et multae misericordiae omnibus invocantibus te (Psal. 85.5). Voi, mio Dio, diceva Davide, siete troppo liberale e cortese con chi v’invoca; le misericordie che Voi gli usate, son tutte abbondanti, che superano? le sue dimande. In questo dunque ha da consistere tutta la nostra attenzione, in pregare con confidenza, sicuri che pregando si apriranno a nostro favore tutt’i tesori del cielo. Hoc studeamus (il Grisostomo), et aperiemus nobis Caelum. L’Orazione è un tesoro, chi più prega, più ne riceve. Dice san Bonaventura, che ogni volta che l’Uomo ricorre devotamente a Dio colla Preghiera, guadagna beni, che vagliono più che tutto il Mondo: In quacumque die lucratur homo oratione devota plus, quam valeat totus Mundus. Alcune Anime devote impiegano gran tempo in leggere, e meditare, ma poco attendono a pregare. Non ha dubbio, che la Lezione spirituale, e la Meditazione delle Verità eterne sieno cose molto utili; ma assai più utile, dice sant’Agostino, è il pregare; nel leggere, e meditare noi intendiamo i nostri obblighi, ma coll’Orazione otteniamo la grazia di adempirli: Melius est orare quam legere; in lectione cognoscimus quae facere debemus, in oratione accipimus quae postulamus. Che serve conoscere ciò che siamo obbligati a fare, e poi non farlo, se non per renderci più rei innanzi a Dio? Leggiamo, e meditiamo quanto vogliamo, non sodisfaremo mai le nostre obbligazioni, se non chiediamo a Dio l’aiuto per adempirle. ...

Il valore della preghiera (parte 5). Da Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori. SS n° 14, p. 7

Ci assicura ben anche Isaia, che quando il Signore sente le nostre Preghiere, subito si muove a compassione di noi, e non ci lascia molto piangere, ma nello stesso punto ci risponde, e ci concede quanto gli domandiamo. Plorans nequaquam plorabis, miserans miserebitur tui, ad vocem clamoris tui, statim ut audierit, respondebit tibi (Is. 30.19). Ed in altro luogo parla il Signore per bocca di Geremia, e di noi lagnandosi dice: Numquid solitudo factus sum Israeli, aut terra serotina? Quare ergo dixit Populus meus: Recessimus, non veniemus ultra ad te? (Jer. 2.31). Perché (dice Iddio) voi dite, che non volete più ricorrere a Me? forse la mia Misericordia è terra sterile per voi, che non sappia darvi alcun frutto di grazie? o terra tardiva, che renda il frutto molto tardi? Con ciò il nostro amoroso Signore volle darci ad intendere, ch’Egli non lascia mai di esaudire, e di subito esaudire le nostre Preghiere, e con ciò vuol anche rimproverar coloro, che lasciano di pregarlo per diffidenza di non essere esauditi. Se Dio ci ammettesse ad esporgli le nostre suppliche una volta il mese, pur sarebbe un gran favore. I Re della Terra danno udienza poche volte l’anno, ma Dio dà sempre udienza. Scrive il Grisostomo, che Dio sta continuamente apparecchiato a sentire le nostre Orazioni; né si dà mai caso, ch’Egli essendo pregato come si dee, non esaudisca chi lo prega: Deus paratus continue ad vocem Servorum suorum est, nec unquam ut oportet vocatus non obaudivito. E altrove dice, che quando noi preghiamo Dio, prima che terminiamo di esporgli le nostre suppliche, Egli già n’esaudisce: Semper obtinetur, etiam dum adhuc oramus. Anzi di ciò ne abbiamo la promessa di Dio medesimo: Adhuc illis loquentibus, ego audiam (Is. 65.24). Il Signore, dice Davide, sta vicino ad ognun che lo prega, per compiacerlo, esaudirlo, e salvarlo: Prope est Dominus, omnibus invocantibus eum; omnibus invocantibus eum in veritate (cioè come si dee). Voluntatem timentium se faciet, et deprecationem exaudiet, et salvos faciet illos (Psal. 144.19). Ciò era quello, di cui gloriavasi Mosè dicendo: Non est alia Natio tam grandis, quae habeat deos appropinquantes sibi; sicut Deus noster adest cunctis obsecrationibus nostris (Deuter 4.7). I Dei de’ Gentili eran sordi a chi l’invocava, perché eran misere creature, che niente poteano; ma il nostro Dio, che può tutto, non è già sordo alle nostre Preghiere, ma sta sempre vicino a chi lo prega e pronto a concedere tutte le grazie che gli domanda: In quacunque die invocavero te, ecce cognovi, quoniam Deus meus (Psal. 55.11). Signore (diceva il Salmista) in ciò ho conosciuto esser Voi il mio Dio tutto Bontà, e Misericordia, in vedere che sempreché a Voi ricorro, subito Voi mi soccorrete. Noi siamo poveri di tutto, ma se domandiamo, non siamo più poveri. Se noi siam poveri, Dio è ricco; e Dio è tutto ‘liberale’, dice l’Apostolo, con chi lo chiama in aiuto: Dives in omnes, qui invocant illum (Rom. 10.12). Giacché dunque (ci esorta sant’Agostino) abbiam che fare con un Signore d’infinita potenza, e d’infinita ricchezza; non gli cerchiamo cose picciole e vili, ma domandiamogli qualche cosa di grande: Ab Omnipotente petitis, aliquid magnum petite. ...

Il valore della preghiera (parte 4). Da Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori. SS n° 13, p. 8

Chi ha bisogno di fortezza, la chieda a Dio, e gli sarà donata: subito ch’io ho aperta la bocca a pregare, disse Davide, ho ricevuto da Dio l’aiuto: Os meum aperui, et attraxi spiritum (Psalm. 118,134). E come mai i santi Martiri acquistarono tanta fortezza da resistere a’ Tiranni, se non coll’Orazione, che ottenne loro il vigore da superare i tormenti, e la morte? Chi s’avvale in somma di questa grand’arme dell’Orazione, dice san Giovanni Grisostomo: Nescit mortem, relinquit terras, Caelos intrat, convivit Deo. Non cade in peccato, perde l’affetto alla Terra, entra a dimorar nel Cielo, e comincia sin da questa vita a godere la conversazione di Dio. Che serve dunque ad angustiarsi taluno col dire: Chi sa s’io sono scritto o no al libro della Vita? Chi sa se Dio mi darà la grazia efficace, e la perseveranza? Nihil solliciti sitis, sed in omni oratione, et obsecratione, cum gratiarum actione, petitiones vestrae innotescant apud Deum. Che serve, dice l’Apostolo, a confondervi in queste angustie e timori? Via discacciate da Voi tutte queste sollecitudini, che ad altro non vagliono, che a scemarvi la confidenza, e a rendervi più tepidi, e pigri a camminar per la via della salute. Pregate, cercate sempre, e fate sentire le vostre Preghiere a Dio, e ringraziatelo sempre delle promesse che v’ha fatte, di concedervi i doni che bramate (sempre che glieli cercate), la grazia efficace, la perseveranza, la salute, e tutto quel che desiderate. Il Signore ci ha posti nella battaglia a combattere con Nemici potenti, ma Egli è fedele nelle sue promesse, né sopporta, che noi siam combattuti più di quel che vagliamo a resistere: Fidelis autem Deus est, qui non patietur vos tentari supra id quod potestis (1 Cor. 10,13). È fedele, poiché subito soccorre chi l’invoca. Scrive il Dotto Eminentissimo Cardinal Gotti, che ‘l Signore non già è tenuto per altro a darci sempre una grazia, che sia eguale alla tentazione; ma è obbligato, quando siam tentati, e a Lui ricorriamo, di somministrarci per mezzo della grazia (che a tutti tiene apparecchiata, ed offerisce) la forza bastante con cui possiamo attualmente resistere alla tentazione: Tenetur Deus, cum tentamur, nobis ad Eum confugientibus per gratiam a Deo paratam et oblatam vires adfuturas praebere, et qua possimus resistere, et actu resistamus; omnia enim possumus in Eo, qui nos confortat per gratiam, si humiliter petamus. Tutto possiamo col Divino aiuto, che si dona a ciascuno che umilmente lo chiede; onde non abbiamo scusa, allorché noi ci facciamo vincere dalla tentazione. Restiamo vinti solo per nostra colpa, perché non preghiamo. Coll’Orazione ben si superano tutte le insidie e forze de’ Nemici: Per Orationem cuncta noxia effugantur, scrisse sant’Agostino. Dice san Bernardino da Siena, che la Preghiera è un’Ambasciatrice fedele, ben nota al Re del Cielo, e solita d’entrare sin dentro al suo gabinetto, e di piegare colla sua importunità l’animo pietoso del Re concedere ogni soccorso a noi miserabili, che gemiamo fra tanti combattimenti e miserie in questa valle di lagrime: Est Oratio Nuncius fidelissimus, notus Regi, qui cubiculum Regis adire, et qui importunitate pium Regis animum flectere, et laborantibus opem impetrare solitus est. ...

Il valore della preghiera (parte 3). Da Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori. SS n° 12, p. 8

Dio conoscendo il gran bene, che apporta a noi la necessità di pregare, a questo fine (come si disse nel Capo I) permette, che siamo assaliti da’ Nemici, acciocché gli domandiamo l’aiuto, ch’Egli ci offerisce, e ci promette. Ma quanto si compiace, allorché noi a Lui ricorriamo ne’ pericoli, altrettanto gli dispiace il vederci trascurati nel pregare. Siccome il Re, dice san Bonaventura, stimerebbe infedele quel Capitano, che trovandosi assediato nella Piazza, non gli cercasse soccorso: Reputaretur infidelis, nisi expectaret a Rege auxilium, così Dio si stima come tradito da colui, che vedendosi insidiato dalle tentazioni, non ricorre a Lui per aiuto: mentr’Egli desidera, e sta aspettando, che gli si domandi, per soccorrere abbondantemente. Ben ciò lo dichiarò Isaia, allorché da parte di Dio disse al Re Achaz, che gli avesse domandato qualche segno, affin di accertarsi del soccorso, che ‘l Signore voleva dargli: Pete tibi signum a Domino Deo tuo (Isa. 7.11 13). L’empio Re rispose: Non petam, et non tentabo Dominum. Io non voglio cercarlo, perché non voglio tentare Dio. Ciò lo disse, perché confidava nelle sue forze di vincere i Nemici, senza l’aiuto Divino. Ma il Profeta indi lo rimproverò: Audite ergo Domus David, numquid parum vobis est molestos esse hominibus, quia molesti estis et Deo meo? Significandoci con ciò, che rendesi molesto, ed ingiurioso a Dio, chi lascia di domandargli le grazie, che ‘l Signore gli offerisce. Venite ad me omnes, qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos (Matth. 11.28). Poveri figli miei, dice il Salvatore, che vi trovate combattuti da’ Nemici, ed oppressi dal peso de’ vostri peccati, non vi perdete d’animo, ricorrete a Me coll’Orazione, ed io vi darò la forza da resistere, e darò riparo a tutte le vostre disgrazie. In altro luogo dice per bocca d’Isaia: Venite, et arguite me (dicit Dominus), si fuerint peccata vestra ut coccinum, quasi nix dealbabuntur (Is. 1.18). Uomini (dice) ricorrete a Me, e benché aveste le coscienze assai macchiate, non lasciate di venire, e vi do licenza anche di riprendermi (per così dire), se mai dopo che farete a me ricorso, Io non farò colla mia grazia, che diventiate candidi come la neve. Che cosa è la Preghiera? Udiamo il Grisostomo: Oratio est fluctuantibus anchora, pauperum thesaurus, morborum curatio, custodia sanitatis. La Preghiera è un’ancora sicura a chi sta in pericolo di naufragare: è un tesoro immenso di ricchezze a chi è povero, è una medicina efficacissima a chi è infermo, ed è una custodia certa a chi vuol conservarsi in sanità. Che fa la Preghiera? Udiamo san Lorenzo Giustiniani: Placat Deum, postulata reportat, adversarios superat, immutat homines. L’Orazione placa lo sdegno di Dio, che perdona a chi con umiltà lo prega; ottiene la grazia di tutto ciò, che si domanda, supera tutte le forze de’ Nemici: in somma muta gli Uomini da ciechi in illuminati, di deboli in forti, da peccatori in santi. Chi ha bisogno di luce, la domandi a Dio, e gli sarà data: subito ch’io son ricorso a Dio, disse Salomone, Egli mi ha conceduta la sapienza: Invocavi, et venit in me spiritus sapientiae (Sap. 7.7). ...

Il valore della preghiera (parte 2). Da Del gran mezzo della preghiera, sant’Alfonso Maria de’ Liguori. SS n° 11, p. 7

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