La legge di Dio. Castighi dei trasgressori della legge divina

Dio castiga? I moderni, senza alcuna vergogna, dicono di no. Vediamo subito cosa insegna Papa Benedetto XV: "Lo spirito del cristiano consiste nel riconoscere Iddio come nostro Padrone assoluto e come nostro Sovrano Legislatore. A questo spirito si informano la fedeltà del servo, la sottomissione e l’obbedienza del suddito. Oh! intendete dunque bene, dilettissimi figli, che nell’imminente Quaresima dovrete anzitutto difendere i diritti di Dio sulle creature, non allontanandone il pensiero se non per insistere sui doveri delle creature stesse verso Iddio. Tutto ciò che accade nel mondo dev’essere spiegato alla luce della fede. Questo ammirabile lume, per non accennare che ad una parte dei suoi insegnamenti, ci fa comprendere che le private sventure sono meritati castighi, o almeno esercizio di virtù per gli individui, e che i pubblici flagelli sono espiazione delle colpe onde le pubbliche autorità e le nazioni si sono allontanate da Dio. I sacri oratori che, ad imitazione di San Paolo, vogliano rinnovata nel mondo la manifestazione dello spirito cristiano « in ostensione spiritus », devono dunque esortare i fedeli a ricevere dalle mani di Dio così le private sventure come i pubblici flagelli, senza punto mormorare contro la Divina Provvidenza, ma procurando di placare la Giustizia Divina per le colpe degli individui e delle nazioni." (Discorso ai Predicatori quaresimali, 19 febbraio 1917).


Spiega Cornelio Alapide nei Tesori in La legge di Dio. Castighi dei trasgressori della legge divina: Chi non osserva la legge di Dio e la disprezza, facendo quello che essa proibisce, non è un uomo, ma un bruto; perché non vive in modo ragionevole, secondo la natura dell'uomo, ma alla maniera delle bestie. Orgoglioso, collerico, crudele, impudico, goloso, ecc, imita la vita del leone, della tigre, della volpe, ecc. Tutti i delitti, i vizi, i disordini, gli scandali, ecc. seguono dalla violazione e dal disprezzo della legge divina. 

Quelli che disprezzano la legge di Dio, non camminano più alla sua luce, e questa è grandissima sciagura; diventano nemici di Dio e rigettano la salute eterna, nel che sta la somma delle disgrazie. «Lungi è la salvezza dei peccatori, dice il Salmista, perché non si diedero pensiero di praticare la vostra legge» (Psalm. CXVIII, 155). 

«Vi è una preghiera esecrabile, leggiamo nei Proverbi, ed è quella di colui che si tura le orecchie per non ascoltare la legge» (Prov. XXVIII, 91). Dal momento che egli non vuole udire la legge, non è giusto che Dio più non porga orecchio alla sua preghiera? Perciò il profeta Baruch dice che coloro i quali trasgrediscono la legge, abbandonano la sorgente della sapienza e della pace (BARUCH III, 12-13). 

L'uomo che non si assoggetta alla legge è nemico di se stesso; infatti l’osservanza della legge procura all'uomo ogni sorta di beni, mentre la trasgressione è il principio di tutti i suoi mali [...]. Gettate lo sguardo sui castighi che piombarono sopra Adamo e l'infelice sua stirpe, in punizione della prima disobbedienza: confusione, ribellione dei sensi, concupiscenza, schiavitù; bando dal paradiso, perdita dell'innocenza, della pace, della felicità, dell'immortalità; povertà, miserie, disgusti, malattie, lavoro, sterilità della terra, morte, inferno, etc... Nella violazione della legge si deve cercare la causa delle più tremende calamità che abbiano mai afflitto il mondo [...], come il diluvio, l'eccidio di Sodoma, etc.

Udite i castighi e le sciagure che Dio minacciò, nella persona del popolo ebreo, a tutti i trasgressori della legge divina: «Voi sarete maledetti nelle città e nelle campagne; maledetti nei granai, nelle dispense e in quanto metterete in serbo. Maledetti saranno i frutti delle vostre viscere e i prodotti delle vostre terre, dei vostri giumenti, delle vostre pecore. Maledetti sarete entrando, maledetti uscendo. Il Signore vi manderà la miseria e la fame, spanderà la sua maledizione su tutte le opere vostre finché siate sterminati: vi colpirà con l'indigenza, con la febbre, col freddo, coi calori ardenti dell'estate, vi perseguiterà finché siate periti. Il cielo sul vostro capo, sarà di bronzo, la terra che calpestate sarà di ferro. Il Signore pioverà sui vostri campi polvere invece di pioggia e cenere cadrà sopra di voi dal cielo fino a che siate disseccati. Vi abbandonerà in potere dei vostri nemici; sboccherete da una strada per andare loro incontro e fuggirete da ogni parte e sarete dispersi per tutti i regni del mondo. Il vostro corpo servirà di pastura agli avvoltoi ed alle belve del deserto. Il Signore vi colpirà, come già l’Egitto, con ulceri, con lebbra e corruzione. Vi toglierà il senno, vi accecherà e spingerà al furore e voi camminerete brancolando in pieno giorno e non fiorirete in nessuna impresa; sarete in ogni tempo bersaglio alla calunnia, all'oltraggio, all'oppressione e non avrete persona che vi difenda. Costruirete case e non le abiterete, pianterete vigne e non ne berrete il vino, farete larghe seminagioni e raccoglierete magre messi; la ruggine consumerà i vostri raccolti e i vostri frutti, il tarlo distruggerà le vostre piante. I vostri figli cadranno sotto il ferro nemico, le vostre figlie saranno condotte schiave; voi le vedrete e vi struggerete per l'angoscia, ma non potrete muovere un dito in loro favore. Tutte queste maledizioni cadranno sul vostro capo, se non osservate e adempite. tutte le parole scritte nel libro della legge e se non temete il Signore vostro Dio il quale se prima allietò la sua misericordia col moltiplicarvi e colmarvi di beni, soddisferà poi alla sua giustizia con l'abbattervi, col perdervi e con l’esterminarvi» (Deuter. XXVIII).

Queste pene piomberanno su coloro che non si danno pensiero di praticare la legge di Dio; così avverrà che, non avendo voluto adempirla per obbedienza, l'adempiranno sopportandone i castighi. 

No, Dio non permette che si violi impunemente la sua legge, ci dice il libro secondo dei Maccabei (IV, 17); ma, come osserva il profeta, la maledizione sta su tutti quelli che fuggono dalla legge divina (Psalm. CXVIII, 21), e il termine della loro fuga, conclude Baruch, conduce alla morte (IV, 1). 

Ancora Cornelio Alapide nei Tesori  in Chi trasgredisce la legge in un punto la trasgredisce tutta. Perentoria è la sentenza di san Giacomo: «Chiunque avrà adempito tutta la legge, ma la trasgredisce poi in un solo precetto, egli è reo come se li avesse trasgrediti tutti» (IACOB. II, 10).

Ma come è mai possibile, dirà taluno, che si debba considerare colpevole della trasgressione di tutta la legge, chi ne ha trasgredito un solo precetto? Ecco in qual senso bisogna intendere queste parole di san Giacomo: Chi viola la legge in un punto, è colpevole come se violata l'avesse tutta intera: 1° perché perde tutti i suoi meriti; 2° perché ferisce tutte le virtù prima acquistate; 3° perché incorre nella pena del danno, cioè nella privazione della grazia, della carità, della gloria, come se avesse peccato contro tutti i comandamenti; 4° perché la legge obbliga tutta intera e deve essere osservata esattamente; 5° perché chi viola anche un solo precetto, disprezza il legislatore; 6° perché i comandi divini formano un tutto che è il Decalogo. Trasgredito un precetto, la legge cessa per voi di essere legge; come in una musica una voce discorde distrugge tutta l’armonia [...].

Un'altra ragione ci dà sant'Agostino, ed è che chi manca anche in un solo punto della legge, opera contro la carità, su la quale si appoggia tutta la legge (Epistola XXIX); infatti tutti i precetti, dice san Gregorio, si trovano in germe nella carità (Pastor.). Siccome un eretico che non crede un articolo di fede, perde interamente la fede a tutti gli articoli del Simbolo, perché non li crede più con fede divina ma umana, così chi trasgredisce una legge, perde la carità annessa all'osservanza di tutte le leggi. 

Finalmente, chi pecca contro un precetto, pecca contro tutti, perché la trasgressione di uno porta alla violazione di un secondo, poi di un terzo e così di seguito. 

Sempre Cornelio Alapide nei Tesori in Bisogna piangere le trasgressioni della legge divina? Se vi è motivo di gemere e di piangere, è certamente il vedere quante volte abbiamo noi medesimi trasgredito e quanto spesso e sfrontatamente si trasgredisca nel mondo la legge divina. Noi dovremmo dire con Davide: «Io svenni di dolore, vedendo i peccatori abbandonare la vostra legge, o Signore. I miei occhi si convertirono in due fonti perenni di lacrime, poiché ho violato i vostri comandi» (Psalm. CXVIII, 53-136). 


Possiamo accusare Dio del male? Spiega san Tommaso D'Aquino nella Summa Theologiae, in Se il sommo bene, che è Dio, sia causa del male (I, q. 49 a.2): [...]  il male che consiste in una deficienza dell'azione, è sempre causato da un difetto dell'agente. Ora in Dio non c’è difetto alcuno, ma somma perfezione, come più sopra abbiamo dimostrato. Perciò il male consistente in una deficienza dell'azione, causata da un difetto dell'agente, non si può riportare a Dio come a sua causa.

Il male invece che consiste nella corruzione o distruzione di qualche cosa, si riallaccia alla causalità di Dio. E ciò è evidente, sia negli esseri naturali, che in quelli dotati di volontà. Difatti abbiamo spiegato che un agente, in quanto produce con la sua efficacia una forma, alla quale tiene dietro una corruzione o una privazione, produce quella corruzione o quella privazione con la sua virtù.

Ora, è evidente che la forma voluta da Dio nelle cose create è il bene, consistente nell'ordine dell'universo. E l'ordine dell'universo richiede, come più sopra abbiamo spiegato, che esistano degli esseri che possono fallire, e che via via falliscono. Cosicché Dio quando causa nelle cose quel bene che è l'ordine dell'universo, per concomitanza e indirettamente [quasi per accidens] causa la corruzione delle cose, secondo l'espressione della Scrittura; "Il Signore fa morire e fa vivere". Mentre l'altro passo: "Dio non fece la morte", va spiegato, "come cosa direttamente voluta". - Ora, all'ordine dell'universo appartiene anche l'ordine della giustizia, il quale richiede che venga inflitta la punizione ai peccatori. Per questo motivo Dio è l'autore di quel male che è la pena: non però di quel male che è colpa, per la ragione che si è detto.

Afferma san Tommaso D'Aquino nella Summa Theologiae, in Se Dio voglia il male (I, q. 19 a.9): Dio nulla desidera più della sua stessa bontà: ci sono però dei beni che egli preferisce ad altri. Perciò il male colpa (il peccato), che allontana dal bene divino, Dio non lo vuole in nessun modo. Invece egli può volere quel male che è un difetto di natura, o il male pena, quando vuole un bene a cui è unito quel male: così nel volere la giustizia, vuole la pena, e volendo la conservazione dell'ordine di natura, vuole che certi esseri naturalmente periscano. [...] Dio, dunque, né vuole che il male ci sia, né vuole che il male non ci sia; ma vuole permettere che il male ci sia. E ciò è un bene.

La risposta alla permissione dei castighi è qui, Se le sofferenze con le quali Dio ci punisce nella vita presente possano essere satisfattorie (Spl. q. 15 a. 2): Sembra che le sofferenze con le quali Dio ci punisce nella vita presente non possano essere satisfattorie. Come sopra abbiamo spiegato, niente può essere satisfattorio se non è meritorio. Ora, noi non meritiamo se non con quelle cose che dipendono da noi. Perciò siccome i flagelli con i quali Dio ci punisce non dipendono da noi, è chiaro che non possono essere satisfattori. [...] La compensazione per l'offesa fatta può essere compiuta sia dall'offensore che da un altro. Quando però è promossa da un altro essa ha più natura di vendetta che di soddisfazione: invece quando è compiuta da chi ha offeso ha anche l'aspetto di soddisfazione. Perciò se le sofferenze che Dio infligge per i peccati vengono fatte proprie in qualche modo da chi le subisce, allora acquistano valore satisfattorio. Ora, esse vengono fatte proprie da chi le subisce in quanto questi le accetta quale purificazione dai peccati, sopportandole con pazienza. Se invece uno vi si ribella assolutamente, allora non le fa sue. E quindi non hanno valore di soddisfazione, ma solo di vendetta. [...] Le sofferenze dicono sempre relazione a una colpa passata: non sempre però a una colpa personale, bensì a una colpa d'origine. Se infatti nella natura umana non ci fosse stata in passato nessuna colpa, non ci sarebbe nessuna pena. Ma poiché in passato nella nostra natura è esistita la colpa, a certe persone Dio infligge delle pene senza una colpa personale, per accrescere il merito della virtù e per prevenire eventuali peccati. E questi due scopi si devono perseguire anche nella soddisfazione. Infatti essa deve consistere in un'opera meritoria per rendere a Dio l'onore dovuto; e dev'essere una salvaguardia delle virtù, per essere preservati dai peccati nel futuro.


Veniamo adesso al Catechismo al numero 154, sul Dragone, ed. CLS, 2009, da pagina 238.

154. I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio perché sono dei più gravi e funesti? Risposta del Papa. I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio sono dei più gravi e funesti, perché direttamente contrari al bene dell’umanità e odiosissimi, tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio. I peccati contro lo Spirito Santo sono più direttamente opposti al comandamento dell’amor di Dio. Quelli che gridano vendetta al cospetto di Dio sono più diretti contro il comandamento dell’amor del prossimo, che danneggiano o togliendogli il bene supremo (la vita con l’omicidio volontario), o impedendo a questo bene di propagarsi (peccato impuro contro natura), o rendendo difficile e insopportabile la vita (oppressione dei poveri e defraudare la giusta mercede a chi lavora). Questi peccati sono odiosissimi e provocano più degli altri i castighi di Dio, che prende le difese degl’innocenti, dei deboli, degli oppressi e dei perseguitati. I peccati che gridano vendetta la cospetto di Dio sono: I. Omicidio volontario. - La vita è il maggior dono naturale che Dio ha dato all’uomo. Senza di essa non è possibile né ricevere né godere alcun altro dono. Privare il prossimo della vita con l’omicidio volontario, significa privarlo del massimo bene e fargli il massimo danno. Dio, l’unico padrone della vita e della morte, prende le difese delle vittime e ne compie la vendetta. La Sacra Scrittura attesta che il sangue dell’innocente Abele ucciso da Caino invocava vendetta davanti a Dio contro l’omicida (Gn. 4, 10).  II. Peccato impuro contro natura. - Creando i due sessi distinti e istituendo il matrimonio Dio ha concesso agli uomini l’inestimabile privilegio di essere i suoi collaboratori nel propagare la vita umana sulla terra. Ma vuole che siano osservate le leggi divine e naturali che regolano il matrimonio. Chi coglie solo i piaceri, rifiuta i doveri del matrimonio e cerca d’impedire che si propaghi la vita a nuove creature umane, commette un gravissimo peccato che grida vendetta a Dio contro il peccatore. I Sodomiti furono puniti di questo peccato col fuoco disceso dal cielo, che li incenerì con la loro città (Gn. 19, 1-29). III. Oppressione dei poveri. - Chi abusa della sua forza fisica o morale, della sua autorità e della posizione sociale per opprimere gl’indifesi, per imporre la sua volontà ed estorcere quello che vuole, pecca gravemente contro il comandamento dell'amor del prossimo, rende insopportabile la vita, già dura per se stessa, specialmente per i poveri. Quanti politicanti e quanti ricchi possidenti si rendono colpevoli di questo peccato, dicendo e facendo credere che procurano il bene del popolo, che tutelano gl’interessi delle classi umili e dei lavoratori, speculando sulla loro miseria e vivendo del loro sangue! IV. Defraudare la giusta mercede agli operai. - Per chi lavora a conto di altri (servi, operai, manovali...) il compenso del lavoro spesso è l’unica risorsa di vita e l’unica ricchezza. Quando il lavoratore ha compiuto il suo lavoro ha diritto a un compenso che gli dia la possibilità di vivere decorosamente con la famiglia. Pecca in modo gravissimo chi non paga sufficientemente il lavoratore, chi lo costringe a un lavoro superiore alle forze, o gli fa ingiustamente attendere il pagamento. Il defraudare la giusta mercede ai lavoratori è uno dei peccati più diffusi, più vergognosi e più odiosi della società moderna. I terribili castighi che ci hanno colpiti negli ultimi decenni con due guerre mondiali e innumerevoli stragi, sono indubbiamente il castigo di questo peccato, del peccato impuro contro natura e dei delitti contro la persona e la dignità umana.

Riflessione. - Oh, non stanchiamoci di pregare e di lavorare perché trionfi il regno di Cristo, il regno della giustizia e della pace; regno nel quale saranno eliminati i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio e attirano tante calamità sulla terra!


Alcune nozioni dal Catechismo tridentino (ed. Cantagalli, 1992, pag. 446 ss.)

- [...] Noi non preghiamo di essere liberati da tutti i mali, poiché ci sono cose credute generalmente mali che invece sono utili a chi le patisce, come quello stimolo inflitto all’Apostolo, affinché potesse rendere più perfetta, con l’aiuto di Dio, la sua virtù nella debolezza. Se l’efficacia di queste cose viene conosciuta, i giusti le accoglieranno con sommo piacere, piuttosto che chiedere di esserne liberati. Perciò noi qui deprechiamo soltanto quei mali che non possono arrecare all’anima nessun vantaggio, non già gli altri, se deve derivarne qualche frutto salutare [...] Preghiamo anche Dio di non esser vittime di morte improvvisa, di non provocare su di noi la sua collera, di non incorrere nei supplizi che sovrastano gli empi, di non essere avvolti nel fuoco del Purgatorio, dal quale invochiamo devotamente e piamente che gli altri pure siano liberati. Insomma la Chiesa interpreta, tanto nella Messa quanto nelle Litanie, questa Preghiera, nel senso che da noi vengano tenuti lontani i mali passati, presenti e futuri. - [...] Se la rottura del patto della carità ci commuove poco, ci commuovano le calamità e i dolori nei quali incorriamo per il peccato. Esso viola la Santità dell’anima, sposa di Cristo; profana il tempio del Signore, per cui dice l’Apostolo, contro quelli che lo fanno: “Se qualcuno viola il tempio di Dio, Dio lo distruggerà” . Innumerevoli sono i mali che il peccato fa cadere sull’uomo, quasi peste universale che David così ha espresso: “Non c’è sanità nella mia carne, davanti alla tua collera; non v’è pace per le mie ossa, in presenza dei miei peccati” . Confessando che nessuna parte di sé era rimasta intatta dalla peste del peccato, riconosceva veramente l’entità di questa piaga, poiché il veleno del peccato era penetrato nelle ossa, cioè aveva infettato la ragione e la volontà, che pure sono le parti più ferme della nostra anima. Le Sacre Scritture indicano quanto sia estesa questa peste, quando chiamano i peccatori zoppi, sordi, muti, ciechi, paralitici in tutte le membra. Ma, oltre al dolore che sentiva per la scelleratezza dei suoi peccati, più ancora era oppresso David per l’ira di Dio che capiva rivolta contro di lui per il suo peccato, poiché c’è guerra tra gli scellerati e Dio, incredibilmente ingiuriato dai loro delitti. Dice infatti l’Apostolo: “L’ira e lo sdegno, la tribolazione e l’angoscia, saranno nell’anima di ciascun uomo che fa il male” ; perché anche se l’azione del peccato passa, non passa la macchia e il reato; l’ira di Dio sempre lo persegue come l’ombra segue il corpo.


Vorrei concludere con dei punti di Catechismo Maggiore particolarmente utili a comprendere il "mistero" del male da chi ha l'uso di ragione, tuttavia non è pratico della materia: 300. Dobbiamo sempre riconoscere la volontà dì Dio nelle cose prospere od avverse della vita? Nelle cose si prospere che avverse della vita presente dobbiamo sempre riconoscere anche la volontà di Dio, il quale tutto dispone o permette per il nostro bene. 317. Che cosa chiediamo nella settima domanda (del Pater, ndR): ma liberaci dal male? Nella settima domanda, ma liberaci dal male, chiediamo a Dio, che ci liberi dai mali passati, presenti e futuri, e specialmente dal sommo male che è il peccato e dall'eterna dannazione, che ne è la pena. 318. Perché diciamo: liberaci dal male e non dai mali? Diciamo: liberaci dal male e non dai mali, perché non dobbiamo desiderare di andare esenti da tutti i mali di questa vita, ma solamente da quelli, che non sono espedienti all'anima nostra, e perciò domandiamo la liberazione dal male in genere, cioè da tutto ciò che Dio vede essere per noi male. 319. Non è lecito domandare la liberazione da qualche male in particolare, per esempio da una malattia? Si, è lecito domandare la liberazione da qualche male in particolare, ma sempre rimettendoci alla volontà di Dio, il quale può anche ordinare quella tribolazione a vantaggio dell'anima nostra. 320. A che cosa ci giovano le tribolazioni che Dio ci manda?Le tribolazioni ci giovano per fare penitenza delle nostre colpe, per esercitare le virtù, e sopratutto per imitare Gesù Cristo nostro capo, al quale è giusto che ci conformiamo nei patimenti, se vogliamo aver parte nella sua gloria.


L'insegnamento infallibile della Chiesa

Haurietis aquas (15 maggio 1956), Pio XII:

"[...] Dio manifesta verso il popolo eletto un amore tale, cioè giusto e santamente sollecito, qual è appunto l’amore di un padre misericordioso e amorevole, o di uno sposo, il cui onore è conculcato. t un amore, che, lungi dal raffreddarsi o venir meno alla vista di mostruose infedeltà e di ignobili tradimenti, prende si da essi motivo per infliggere ai colpevoli i meritati castighi: non già per ripudiarli e abbandonarli a se stessi, ma soltanto allo scopo di vedere la sposa, resasi estranea e infedele, e i figli ingrati, pentirsi, purificarsi e tornare a unirsi a lui con rinnovati e più solidi vincoli di amore".

Ingruentium malorum (15 settembre 1951), Pio XII:

"A quali e quante insidie vediamo sottoposte le anime di molti Nostri figli in quelle regioni, perché rigettino la fede dei loro padri, e spezzino con somma loro sventura il vincolo di unione che li lega a questa sede apostolica! Né infine possiamo in alcuna maniera passare sotto silenzio un nuovo misfatto, intorno al quale, con immenso dolore, desideriamo vivamente richiamare non solo la vostra attenzione, ma pure quella di tutto il clero, dei singoli genitori e delle stesse pubbliche autorità: Ci riferiamo a quella iniqua campagna che gli empi conducono a danno della candida innocenza dei fanciulli. Neppure l'età innocente è stata risparmiata, ma si osa, purtroppo, strappare con gesto temerario persino i fiori più belli nel mistico giardino della chiesa, che formano la meravigliosa speranza della religione e della società. Se a ciò si rifletta, non deve destare molta meraviglia il fatto, che tanti popoli gemano sotto il peso dei divini castighi, e vivano sotto l'incubo di calamità ancora maggiori".

Alle Delegate diocesane e parrocchiali delle Sezioni Minori della Gioventù femminile (30 dicembre 1953), Pio XII:

"La stima per il vostro lavoro vi farà amare le vostre bambine. Esse sono la speranza delle famiglie, della Patria, della Chiesa, perchè saranno — per la maggior parte — le future madri. E intanto sono le predilette di Gesù, come lo erano al tempo in cui il divino Maestro percorreva le vie della Palestina. Potenti ad impetrare grazie, modelli viventi per chi vuole entrare nel regno dei cieli, esse distornano i castighi divini dalle nostre famiglie e dalle nostre città; meritano quindi il vostro più tenero amore, le vostre premure più affettuose".

Discorso ai profughi di guerra (12 marzo 1944), Pio XII:

"Levate in alto lo sguardo, diletti figli e figlie, a Colui, che vi darà la forza di portare la vostra croce con viva fede e cristiana fortezza, a Gesù Cristo, nostro Signore e Salvatore. A Lui Noi vogliamo condurvi; Egli stesso vi invita e vi dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed io vi consolerò» (Matth., 8, 28). Egli ha voluto provare le miserie di questa vita terrena, i mali e le afflizioni, gli spasimi e i tormenti più atroci che vengono dagli uomini. Egli vi precede con la sua croce: seguitelo. Egli porta la sua croce, innocentissimo: portate anche voi la vostra in penitenza e in espiazione dei peccati vostri e altrui, che hanno provocato i giusti castighi di Dio".

Ai giuristi cattolici circa l'aiuto ai carcerati (26 maggio 1957), Pio XII:

"Finalmente voi dovete conoscere il senso e il fine della pena. È un argomento che Noi abbiamo trattato ampiamente in precedenti allocuzioni. Senza ripetere ciò che allora abbiamo detto, vorremmo invitarvi a riflettere sul fatto che «Dio punisce», come appare chiaramente dalla rivelazione, dalla storia e dalla vita. Qual è il senso di questo castigo divino? L'Apostolo Paolo lo lascia intendere, quando esclama : «Ciò che uno avrà seminato, quello mieterà» (Gal. 6, 8). L'uomo, che semina la colpa, raccoglie il castigo. Il castigo di Dio è la risposta di Lui ai peccati degli uomini. [...] Nel castigo persiste il confronto fra le stesse due persone, Iddio e l'uomo, fra le stesse volontà; ma ora, imponendo alla volontà del ribelle la sofferenza, Iddio lo costringe a sottomettersi al suo volere, alla legge e al diritto del Creatore, e a restaurare così l'ordine infranto. Il castigo divino però non esaurisce in tal guisa tutto il suo senso, almeno in questo mondo e per il tempo della vita terrena. Esso ha anche altri scopi, che sono anzi, in parte, preponderanti. Spesso infatti le pene volute da Dio sono piuttosto un rimedio che un mezzo di espiazione, piuttosto «poenae medicinales» che «poenae vindicativae». Esse ammoniscono il reo a riflettere sulla sua colpa e sul disordine delle sue azioni, e lo inducono a distaccarsene ed a convertirsi. In tal guisa, subendo la pena inflitta da Dio, l'uomo intimamente si purifica, rafforza le disposizioni della sua rinnovata volontà verso il bene ed il giusto. Nel campo sociale, l'accettazione della pena contribuisce alla rieducazione del colpevole, lo rende più atto ad inserirsi nuovamente come membro utile nella comunità degli uomini, contro la quale il suo delitto l'aveva messo in opposizione. Rimarrebbero ancora da considerare le eguali funzioni della pena nel diritto umano, per analogia a ciò che abbiamo esposto intorno al castigo divino. Ma tale passo voi potete compierlo facilmente, perchè siete giuristi, e simili pensieri vi sono familiari. D'altra parte, abbiamo già bastantemente attirato la vostra attenzione sui rapporti che si stabiliscono necessariamente fra i due ordini".

Notre charge apostolique (25 agosto 1910), san Pio X:

"Se il suo Cuore (di Dio, ndR) traboccava di mansuetudine per le anime di buona volontà, ha saputo ugualmente armarsi di una santa indignazione contro i profanatori della casa di Dio, contro i miserabili che scandalizzano i piccoli, contro le autorità che opprimono il popolo sotto il carico di pesanti fardelli, senza muovere un dito per sollevarli. Egli è stato tanto forte quanto dolce; ha rimproverato, minacciato, castigato, sapendo e insegnandoci che spesso il timore è l’inizio della saggezza e che a volte conviene tagliare un membro per salvare il corpo. Infine, non ha annunciato per la società futura il regno di una felicità ideale, da cui sarebbe bandita la sofferenza; ma, con le sue lezioni e i suoi esempi, ha tracciato il cammino della felicità possibile sulla terra e della felicità perfetta in Cielo: la via regale della Croce. Sono insegnamenti che si avrebbe torto ad applicare soltanto alla vita individuale in vista della salvezza eterna; sono insegnamenti eminentemente sociali e ci mostrano in Nostro Signore Gesù Cristo una realtà ben diversa da un umanitarismo senza consistenza e senz’autorità".

Pontifices Maximi (15 febbraio 1879), Leone XIII:

"[...] Innanzi tutto conosciamo benissimo quanto sia necessario alla Nostra infermità, nell’arduo ministero che sosteniamo, l’abbondanza dei celesti carismi; conosciamo per lunga esperienza quanto sia luttuosa la condizione dei tempi in cui ci troviamo, e da quali e quanti flutti la Chiesa in questi tempi sia travagliata: le pubbliche cose che vanno sempre più in rovina, i funesti propositi degli uomini, le stesse minacce del divino castigo che già flagella severamente alcuni, Ci fanno temere l’arrivo di mali sempre più gravi".

Iucunda semper (8 settembre 1894), Leone XIII:

"[...] poiché l’insensata perversità degli empi a tutto ormai ricorre - con l’inganno e con l’audacia - per provocare la collera divina e attirare sulla patria il peso di un giusto castigo, è necessario che la pia pratica del rosario sia seguita con sempre maggiore impegno. Oltre a ciò tutti i buoni soffrono con Noi, perché nel seno stesso dei popoli cattolici vi sono troppi che non contenti di godere delle offese comunque arrecate alla religione, essi stessi, forti di un’incredibile licenza di propaganda, mostrano di non mirare ad altro che ad esporre al disprezzo e allo scherno della gente le cose più sante della religione e la sperimentata sua fiducia nell’intercessione della Vergine".

Mirae caritatis (28 maggio 1902), Leone XIII:

"Allo snervamento della fede nelle cose divine molto contribuisce non solo la superbia, come abbiamo detto, ma anche la depravazione dell’animo. Perciò, se avviene ordinariamente che quanto più uno è morigerato, tanto più è sveglio di mente, e che i piaceri sensuali annebbiano la mente; come riconobbe la stessa prudenza pagana, e la sapienza divina ci aveva già prima ammoniti (cf. Sap 1,4); assai più ciò si verifica nelle cose divine, perché le voluttà corporali oscurano il lume della fede, ed anche, per giusto castigo di Dio, totalmente l’estinguono. Di questi piaceri oggi arde una insaziabile cupidigia, che quasi morbo contagioso infetta tutti fin dalla più tenera età. Ma un eccellente rimedio a questo gravissimo male a nostra disposizione sempre nella divina eucaristia".

Supremi Apostolatus Officio (1° settembre 1883), Leone XIII:

"[...] Pio V, parlando di questa preghiera, disse che "al suo diffondersi, i fedeli, infiammati da quelle meditazioni e infervorati da quelle preghiere, cominciarono d’un tratto a trasformarsi in altri uomini; le tenebre delle eresie cominciarono a dileguarsi,ed a manifestarsi più chiara la luce della fede cattolica". Infine,Gregorio XIII dichiarò che il "Rosario fu istituito da San Domenico per placare l’ira di Dio e per ottenere l’intercessione della Beata Vergine". Mossi da queste considerazioni e dagli esempi dei Nostri Predecessori, riteniamo assai opportuno, nelle presenti circostanze, ordinare solenni preghiere affinché la Vergine augusta, invocata col santo Rosario, ci impetri da Gesù Cristo, Suo Figlio, aiuti pari ai bisogni".

Octobri mense (22 settembre 1891), Leone XIII:

"Così pure vedere tanti altri, ai quali è indifferente qualsiasi forma di religione, abbandonare da un momento all’altro la vera fede; ancora, non sono pochi i cattolici che si considerano tali solo di nome e che non curano affatto le pratiche religiose. Inoltre, avvilisce e addolora ancor più il constatare che questa luttuosa situazione è nata soprattutto dal fatto che nelle istituzioni sociali o non si dà alcuna importanza alla Chiesa o se ne contrasta volutamente il benefico influsso. In questo stato di cose si ravvisa la grande e giusta punizione di Dio, che permette l’ottundimento delle nazioni, le quali, con miserevole cecità mentale, si allontanano da Lui".

Annum sacrum (25 maggio 1899), Leone XIII:

"In questi ultimi tempi si è fatto di tutto per innalzare un muro di divisione tra la chiesa e la società civile. Nelle costituzioni e nel governo degli stati, non si tiene in alcun conto l’autorità del diritto sacro e divino, nell’intento di escludere ogni influsso della religione nella convivenza civile. In tal modo si intende strappare la fede in Cristo e, se fosse possibile, bandire lo stesso Dio dalla terra. Con tanta orgogliosa tracotanza di animi, c’è forse da meravigliarsi che gran parte dell’umanità sia stata travolta da tale disordine e sia in preda a tanto grave turbamento da non lasciare vivere più nessuno senza timori e pericoli? Non c’è dubbio che, con il disprezzo della religione, vengono scalzate le più solide basi dell’incolumità pubblica. Giusto e meritato castigo di Dio ai ribelli che, abbandonati alle loro passioni e schiavi delle loro stesse cupidigie, finiscono vittime del loro stesso libertinaggio".

Magnae Dei Matris (8 settembre 1892), Leone XIII:

"[...] ciò che è ancor più doloroso, è che coloro che ne avrebbero il potere, anzi ne avrebbero il sacro dovere, lungi dal porre un freno o dall’infliggere giuste pene a una perversità così arrogante e colpevole, sembra invece, molto spesso, che a tale audacia diano incentivo, o per la loro inerzia, o col loro appoggio. Ben a ragione perciò ci si deve rattristare che a pubbliche scuole sia stata deliberatamente data una tale organizzazione che consente che il nome di Dio vi sia taciuto o vi sia oltraggiato; ci si deve rattristare della licenza, ognor più sfacciata, di stampare o di predicare ogni sorta di oltraggi contro Cristo Dio e la chiesa. Né è meno deplorevole quel conseguente languore e intiepidimento della pratica cristiana, che, se non è un’aperta apostasia dalla fede, è certo prossima a divenirlo; perché la pratica della vita non è ormai più aderente alla fede. Chi consideri questo pervertimento e questa rovina degli interessi più vitali, certo non si meraviglierà, se da per tutto le nazioni vanno gemendo sotto il peso dei divini castighi, e sono costernate dal timore di calamità ancora più gravi".

Tametsi futura (1 novembre 1900), Leone XIII:

"[...] coloro che ricusano l’impero di Cristo, con pervicace volontà si ribellano a Dio. Emancipatisi dalla divina potestà, non saranno per questo più indipendenti, poiché cadranno sotto qualche potestà umana, eleggendosi, come suole accadere, qualche loro simile, che ascolteranno, obbediranno e seguiranno come loro maestro. Inoltre costoro, impedendo alla loro mente di comunicare con le cose divine, restringono il campo dello scibile, e vengono a trovarsi anche meno preparati a progredire nelle scienze puramente naturali, perché vi sono nella natura molle cose, alla cui comprensione e chiarificazione giova assai la luce della dottrina rivelata. E non raramente, a castigo della loro superbia, Dio permette che costoro non discernano il vero, così che sono puniti nel campo stesso del loro peccato. Per l’uno e l’altro motivo, spesso si vedono uomini di grande ingegno e di non comune erudizione, perdersi, anche nello studio stesso della natura, in assurdità inaudite, che non hanno precedenti".

Dall'alto (15 ottobre 1890), Leone XIII:

"[...] Come nell’ordine sociale la guerra fatta alla religione riesce funestissima e sommamente micidiale all’Italia, così nell’ordine politico l’inimicizia colla Santa Sede e col romano Pontefice è per l’Italia sorgente di grandissimi danni. Anche qui la dimostrazione non è più da fare; basta, a compimento del Nostro pensiero, riassumerne in brevi parole le conclusioni. La guerra fatta al Papa vuol dire per l’Italia, al di dentro, divisione profonda tra l’Italia officiale e la gran parte d’italiani veramente cattolici, e ogni divisione è debolezza; vuol dire privarla del favore e del concorso della parte più schiettamente conservatrice; vuol dire alimentare nel seno della nazione un conflitto religioso che non approdò mai a pubblico bene, ma porta anzi sempre in se stesso i germi funesti di mali e di castighi gravissimi. Al di fuori, il conflitto colla Santa Sede, oltre che privare l’Italia del prestigio e dello splendore, che le verrebbe infallibilmente dal vivere in pace col Pontificato, le inimica i cattolici di tutto il mondo, le impone immensi sacrifici, e ad ogni occasione può fornire ai nemici un’arma da rivolgere contro di lei".

Cum nuper (20 gennaio 1858), Pio IX:

"Venerabili Fratelli, non possiamo quasi esprimere a parole quell’acerbissimo dolore da cui siamo stati colpiti, allorché abbiamo avuto notizia che nello scorso mese di dicembre molte città di codesto Regno furono talmente sconquassate da grandi terremoti che molte persone, travolte dalle rovine di edifici cadenti, in modo miserando hanno perso la vita, con grande dolore del Nostro carissimo Figlio in Cristo il Re Ferdinando II che, per la sua grande carità cristiana e il suo affetto per le popolazioni a lui soggette, non risparmiandosi negli interventi e nelle spese, non cessò di apportare aiuti e soccorsi alle popolazioni di dette città per sollevare la loro deplorevole condizione. Appena Ci giunsero le prime tristissime notizie di una così grande calamità, senza alcun indugio, nell’umiltà del Nostro cuore abbiamo levato i Nostri occhi al Signore, implorando e scongiurando la Sua divina misericordia per quelle misere popolazioni affinché risanasse le fratture della terra le cui fondamenta erano state scosse in modo così terribile. Vi sono noti i passi della Sacra Scrittura, che chiaramente e palesemente insegnano che tali castighi di Dio sono provocati dalle colpe degli uomini. Noi, per il Nostro ufficio, sproniamo vivamente in Domino la Vostra episcopale sollecitudine, Venerabili Fratelli, affinché adempiate con ardore e attivamente ciò che fa parte del Vostro ministero, e abbiate subito in animo di allontanare dal vizio e dal peccato, con ogni sforzo e zelo, i fedeli affidati alle Vostre cure e di incamminarli per le vie della virtù, della giustizia e della religione".

Quum memoranda (10 giugno 1809), Pio VII:

"Noi, ricolmi di tante amarezze, recate proprio da coloro dai quali non le aspettavamo, privati di ogni risorsa, non Ci preoccupiamo tanto della Nostra sorte attuale, quanto di quella che attende i persecutori; infatti, rimproverandoci e riprendendoci, il Signore è attualmente un po’ adirato con Noi. Ma di nuovo si riconcilierà con i suoi servi (2Mac 7,33). Ma chi ha inventato la malizia contro la Chiesa, in che modo eviterà la mano di Dio?. Dio infatti non lascerà impunito alcuno, né si lascerà intimidire da alcuna grandezza mondana, poiché Egli stesso creò il piccolo ed il grande, e più forte è il castigo per i più forti (Sap 6,7)".

Quae causa (Roma, 24 novembre 1792), Pio VI:

"Ci incalzano infatti minacce ostili, e ogni giorno maggiori pericoli ci sovrastano. Tuttavia nemmeno per questo abbiamo perduto la speranza; anzi tanto più si deve pregare con umiltà e con la contrizione del cuore come il pubblicano che non osava alzare gli occhi al cielo; si deve insistere e perseverare nel pianto, nei sospiri, nelle lacrime e nella penitenza; si deve bussare senza intermissione alle porte della misericordia, fintanto che l’ira di Dio, eccitata dai nostri peccati, si converta alla compassione, alla pietà e alla nostra consolazione. Dio infatti non vorrebbe castigarci; desidera gli sia fatta violenza dagli amici; cerca qualcuno dal quale possa essere impedito, e quando non trova nessuno è preso dal dolore. Dice Ezechiele: «Ho cercato fra loro un uomo che interponesse uno sbarramento e stesse sulla breccia di fronte a me, a terra, perché non la distruggessi, ma non l’ho trovato. Pertanto tocca con i tormenti delle avversità coloro che non vogliono correggersi spontaneamente» (Ez 22,30)".

La ricerca prosegue ...


Conclusione.

Chi nega l'esistenza dei castighi di Dio dice eresia e non può definirsi cattolico. Dovrebbe solo vergognarsi, ancor di più se è stipendiato dalla Chiesa.

A cura di CdP